Sulla carta l’Unità 731 era un corpo di ricerca per la prevenzione delle epidemie e il rifornimento idrico dell’armata del Kwantung, di stanza nella zona nord-orientale della Cina. Nei fatti era la controparte giapponese dei medici nazisti che effettuavano esperimenti sugli esseri umani. In entrambi i casi c’erano gli orrori e le atrocità, le urla dei prigionieri da un lato e l’indifferenza dei carnefici dall’altro. L’Unità operava in strutture che, al pari dei campi di sterminio, equivalevano a delle fabbriche di morte. Si pensa che le vittime furono circa 3.000, ma ancora oggi il numero esatto è sconosciuto.

La nascita dell’Unità Tōgō
Gli eventi che portarono alla creazione dell’Unità 731 ebbero inizio negli anni ’30 del Novecento, quando il Giappone occupò alcune zone della Cina nord-orientale e prese possesso di Harbin, capoluogo della provincia dello Heilongjiang, in Manciuria. I venti di guerra europei soffiavano anche in Asia e il pericolo di un conflitto contro l’Unione Sovietica convinse il governo di Tokyo a promuovere una serie di ricerche scientifiche in ambito militare. La nuova frontiera erano le armi biologiche, e il medico Shirō Ishii assunse le redini di un innovativo progetto di studio e sperimentazione con sede proprio ad Harbin.

L’esercito imperiale gli diede carta bianca per sfruttare la città come se fosse un enorme laboratorio. Si trattava di una zona densamente popolata e, in un primo momento, il centro di ricerca ebbe sede nell’aria industriale, dove risiedevano le classi meno abbienti. Nacque la segretissima Unità Tōgō, nome in codice della Divisione per la Prevenzione Epidemica dell’Armata del Kwantung.

La Fortezza di Zhongma
L’obiettivo di Ishii era la creazione di un arsenale in grado di porre il Giappone un gradino sopra le altre nazioni, ma i risultati del progetto dovevano passare per una minuziosa ricerca scientifica che prevedeva la sperimentazione su cavie umane.
Per portare a compimento il progetto serviva un luogo che non desse troppo nell’occhio, e il sito perfetto era un sistema di villaggi 100 chilometri a sud di Harbin. Nell’agosto del 1932 i soldati sfrattarono gli abitanti dell’area e l’Unità si stabilì in una struttura denominata la Fortezza di Zhongma, una serie di edifici ben protetti da mura alte tre metri, filo spinato e recinzioni elettriche.

Correva l’anno 1933; Ishii e i suoi collaboratori diedero inizio agli esperimenti, ma qualcosa andò storto. Un fallimentare tentativo d’evasione, prima, e una misteriosa esplosione nel deposito di armi, forse un sabotaggio, poi, misero a repentaglio la segretezza del progetto. Per rafforzare la sicurezza e scongiurare altri problemi l’Unità ottenne il permesso di ampliarsi e insediarsi altrove.
Prima di partire Ishii ordinò l’uccisione di tutte le cavie e la demolizione della Fortezza

L’Unità 731 e il Complesso di Pingfang
Dalle ceneri dell’Unità Tōgō nacque l’Unità Ishii, nome in codice della Divisione per la Prevenzione Epidemica e Rifornimento idrico dell’Armata del Kwantung, poi ribattezzata Unità 731 nel 1941, e operante nel Complesso di Pingfang, un agglomerato di dieci villaggi 24 chilometri a sud di Harbin. L’operato di Ishii ebbe molto successo, e l’apprezzamento dei superiori si rifletté anche sulle dimensioni della nuova sede, che vantava ben 150 edifici e comprendeva uffici amministrativi, fabbriche, fornaci, prigioni e laboratori per ricerche, sperimentazioni, autopsie e dissezioni. Per non destare sospetti nella popolazione locale e giustificare l’imponenza di un progetto di tale portata, con un gran via vai di treni e camion, le autorità sparsero la voce che fosse in costruzione una segheria.

A partire dal 1937 ci fu una significativa espansione con la nascita di 8 unità satellite sparse per la Cina, come, ad esempio, l’Unità 1855 a Pechino, la 1644 a Nanchino e la 9420 a Singapore. Ishiii, che divenne il supervisore di tutte le sedi, arrivò a controllare una rete di oltre 10.000 dipendenti.

Gli esperimenti umani
All’apice della sua operatività la sola Unità 731 contava 8 divisioni ed effettuava esperimenti di ogni sorta. I più atroci avvenivano su cavie umane, i cosiddetti maruta, in italiano tronchi. Il soprannome derivava dalla storia di copertura della segheria e dal fatto che le autorità giapponesi ammassassero i prigionieri in dei vagoni merci e li nascondessero sotto uno strato di tronchi d’albero, per poi inviarli a Pingfang.

Le cavie del centro erano di etnie differenti. C’erano cinesi, mongoli, statunitensi e russi, persone delle popolazioni vicine, criminali, dissidenti politici, vagabondi, disabili e prigionieri di guerra. Ishii non risparmiava nessuno, nemmeno i bambini e le donne incinte. Quando pubblicava determinati resoconti sulle riviste scientifiche affermava di aver usato dei primati, le cosiddette “scimmie della Manciuria”.
Ma le scimmie della Manciuria erano degli esseri umani in carne ed ossa, e il folle che li aveva fra le mani li sottoponeva a pratiche indicibili
Al loro arrivo, tutti i prigionieri dovevano essere in buone condizioni e gli scienziati li nutrivano con una dieta a base di riso, carne e pesce.
Poi iniziava l’orrore

I membri dell’Unità potevano iniettare nei prigionieri virus e batteri in grado di scatenare malattie come peste, tifo, vaiolo, colera e meningite per osservarne il decorso clinico; potevano usarli per testare lanciafiamme e granate oppure potevano vivisezionarli senza anestesia, asportando stomaco, polmoni e fegato. Altre volte venivano amputati gli arti dei prigionieri per registrare che tipo di perdite di sangue causassero, e poi, magari in un giorno di particolari stranezze, gli arti venivano riattaccati, anche da qualche altra parte del corpo. C’era chi veniva appeso a testa in giù fino al sopraggiungere della morte, chi riceveva iniezioni di bolle d’aria nel sangue per valutare le tempistiche dell’embolia e chi soccombeva a lunghe sessioni nelle camere a pressione.
Non mancavano i test più assurdi, come le iniezioni di urine di cavallo

Quando il Giappone entrò in guerra contro l’Unione Sovietica l’Unità si concentrò sull’ipotermia e portò avanti delle ricerche che, almeno in teoria, dovevano contribuire allo sforzo bellico nelle gelide terre dell’est Europa. I murata destinati a questi test venivano congelati e scongelati con tecniche a dir poco disumane.

Ma nel teatro degli orrori di Pingfang c’era spazio anche per i rapporti sessuali forzati ed esperimenti sulle malattie veneree. I collaboratori di Ishii obbligavano all’accoppiamento un uomo infetto e una donna sana, o viceversa, per poi studiare il decorso della sifilide e della gonorrea sugli organi interni ed esterni attraverso la vivisezione. Se una prigioniera restava incinta non era un problema. In quel caso l’attenzione si focalizzava sull’osservazione delle gravidanze infette. Non sappiamo quanti bambini siano nati durante la prigionia, ma è certo che nessuno di loro sopravvisse.
Dopo le operazioni chirurgiche senza anestesia e i vari esperimenti, i maruta ancora in vita venivano uccisi a colpi di pistola e gettati nei forni crematori.

Le armi biologiche
Ma gli esperimenti sugli esseri umani non erano che la punta dell’iceberg. Tutte le attività del centro erano collegate all’ambito militare e, in particolare, la pratica della somministrazione delle malattie epidemiche confluiva nella creazione di un arsenale patogeno in grado di infettare i bacini idrici, i campi e, più in generale, le popolazioni civili delle nazioni ostili al Giappone.
In un primo momento Ishii progettò dei proiettili da 75 millimetri con all’interno materiale biologico, ma il progredire dei suoi studi lo portò a pensare più in grande e a ideare le famigerate Uji-50. Si trattava di bombe con un involucro in ceramica, farina e pulci infette con il batterio della peste. Funzionavano così: un aereo le sganciava, le bombe impattavano al suolo e la farina attirava i roditori sui quali si posavano le pulci per diffondere il morbo.
L’Unità passò dalla teoria alla pratica fra il 1940 e il 1941, quando sganciò le Uji-50 lungo le coste delle città di Ningbo e di Changde e nella provincia di Hunan. Nel 1942, invece, il bersaglio fu Nanchino, dove aveva sede l’Unità 1644. In quell’occasione Ishii ordinò la contaminazione del sistema idrico e la distribuzione di cibo infetto. L’esito di quei test fu lo scoppio di epidemie (dalla portata contenuta) che uccisero uomini, donne e bambini.

Lo scioglimento dell’Unità 731
Negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale il governo di Tokyo chiese a Ishii di spingere sull’acceleratore e pianificare una grande offensiva biologica contro gli Stati Uniti:
L’Operazione Fiori di Ciliegio nella Notte
Il Giappone voleva sfruttare i progressi dell’Unità per infettare San Diego con un bombardamento a base di agenti patogeni, un attacco in programma per il 22 settembre del 1945, ma le atomiche di Hiroshima e Nagasaki e gli eventi al fronte ne scongiurarono la messa in atto. Nel frattempo i sovietici sconfissero l’Armata del Kwantung e iniziarono ad avanzare nei territori della Manciuria.

Senza alcun contingente militare su cui fare affidamento il destino dell’Unità 731 era segnato. Per evitare che le ricerche cadessero nelle mani dei nemici Ishii ordinò l’uccisione dei prigionieri, la distruzione delle strutture e distribuì delle boccette di cianuro a tutti i suoi collaboratori. Se gli Alleati li avessero catturati dovevano suicidarsi; in caso contrario l’ordine era omertà assoluta. Prima di partire per il Giappone Ishii commise un ultimo crimine contro l’umanità: liberò le pulci infette e scatenò un’epidemia che si protrasse per ben tre mesi.

A settembre i russi presero il controllo di ciò che restava del complesso di Pingfang e rinvennero dei documenti che testimoniavano l’assemblaggio di armi biologiche, ma si trattava di informazioni incomplete.

L’immunità statunitense
Era l’alba della nascita dei blocchi. Sia l’Unione Sovietica sia gli Stati Uniti volevano scoprire i segreti di Ishii e ottenere l’esclusiva a svantaggio dell’altra superpotenza.

Con la resa del Giappone e la conseguente occupazione statunitense la Casa Bianca cercò nuove informazioni sulle attività del centro di Pingfang, e incaricò il Colonnello Murray Sanders di interrogare alcuni scienziati ed ex collaboratori di Ishii, ma nessuno fornì risposte adeguate. Tornò in patria il 1° novembre del 1945, e nel suo resoconto scrisse che tutte le persone interpellate avevano negato la sperimentazione umana o lo studio di armi biologiche per scopi offensivi.

L’anno successivo fu il turno del Colonnello Arvo Thompson. Con i giapponesi chiusi nell’omertà si concentrò su Ishii, ma individuarlo si rivelò un compito più arduo del previsto, perché, nel frattempo, l’ex capo dell’Unità aveva diffuso la notizia della sua morte e aveva inscenato un finto funerale.
La messinscena non durò a lungo e gli statunitensi lo rintracciarono agli inizi del 1946. Lo misero agli arresti domiciliari e lo interrogarono dal 17 gennaio al 25 febbraio. Dinanzi a Thompson Ishii si assunse tutte le responsabilità dell’Unità, ma minimizzò la portata delle ricerche e negò la sperimentazione umana.
L’Intelligence di Washington sapeva che stava mentendo e serviva un modo per convincerlo a collaborare. A quel punto, la parola passò a tre scienziati, Norbert Fell, Edwin Hill e Joseph Victor, che, dal 20 giugno del 1946 al 12 dicembre del 1947, riuscirono a ottenere nuove informazioni, seppur incomplete. Ormai era chiaro che gli Stati Uniti volevano i risultati delle sue ricerche e Ishii tentò il tutto per tutto:
Le sue conoscenze in cambio dell’immunità

L’ultima parola spettava al generale Douglas MacArthur, responsabile della ricostruzione del Giappone per conto degli Alleati, che ebbe l’onere di valutare i pro e i contro della richiesta. Avere Ishii dalla parte americana significava lasciare la Russia a mani vuote e, sotto l’aspetto giuridico, proteggerlo dal comparire in aula gli impediva di rendere le attività del centro di Pingfang di pubblico dominio. L’accordo si concretizzò, ma a patto che Ishii non parlasse a nessun altro delle sue scoperte. Grazie all’immunità Ishii non prese parte al Processo di Tokyo e il tribunale non poté discutere dei crimini contro l’umanità commessi in Manciuria. Ma l’Unione Sovietica voleva che gli scienziati giapponesi rispondessero delle loro azioni, e insistette per interrogare la mente dell’Unità 731. Per far calmare le acque MacArthur acconsentì a un colloquio e istruì Ishii affinché non rivelasse nulla di nuovo.

Il piano funzionò e il Cremlino dovette istituire il suo processo per i crimini di guerra e per i crimini contro l’umanità, il cosiddetto Processo di Chabarovsk, senza il principale artefice degli orrori di Pingfang. In quell’occasione i pochi membri dell’Unità che finirono alla sbarra fecero trapelare pochissime informazioni e il segreto continuò a rimanere un’esclusiva degli Stati Uniti.

Dopo la Seconda guerra mondiale
La verità si mise in marcia il 2 novembre del 1976, quando un’emittente televisiva mandò in onda un documentario basato sulle interviste di 20 ex dipendenti dell’Unità. Seguirono numerose pubblicazioni, il ritrovamento delle ossa di presunte cavie umane e la scoperta di documenti che testimoniavano la volontà nipponica di utilizzare le armi biologiche in guerra. Anche se il governo degli anni ’40 aveva insabbiato tutto e reso impossibile risalire ai nomi o al numero delle vittime, il 27 agosto del 2002, il tribunale distrettuale di Tokyo ammise ufficialmente che l’Esercito Imperiale aveva finanziato la ricerca biologica in ambito militare ed effettuato esperimenti umani.
Infine, nell’aprile del 2018, gli Archivi Nazionali del Giappone hanno diffuso i nomi dei 3.067 membri dell’Unità 731.

Quanto a Ishii, si ammalò di cancro alla laringe e si spense il 9 ottobre del 1959. Morì 14 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale da uomo libero e impunito. Grazie all’immunità statunitense non dovette mai rispondere dei suoi orrori a capo della famigerata Unità 731, la fabbrica di morte dove ogni maruta che vi entrava soccombeva alla follia umana.