E’ risaputo che sotto i palazzi di Venezia c’è un’immensa selva di pali, di pino, di abete, di faggio, che provengono dalle antiche foreste del Friuli, della Carnia e del Cadore. Piantare pali su pali nella mota e nelle barene era l’unico modo per rinforzare le fondamenta della città più utopica del mondo. La Repubblica Serenissima, che, dominante in Friuli dal 1420 fino all’arrivo di Napoleone e al successivo trattato di Campoformio (1797), trattava di fatto questa terra come una colonia, un serbatoio di materie prime e manodopera da sfruttare senza ritegno.
E le foreste friulane (lo storico romano Plinio il Vecchio racconta di una grande selva in pianura che andava, in età romana appunto, dalla Livenza al Tagliamento e oltre), oltre al legno, fornivano in abbondanza un altro prezioso prodotto:
Il carbone
Il carbone, di origine vegetale, proveniente dal Friuli, ardeva in gran quantità a Venezia nei camini e nelle forge di fabbri ed armaioli.
Se i pali di legno fluitavano lungo canali e fiumi fino alla laguna e non vi era altro mezzo per trasportarli, dal momento che servivano interi, trasformare il legno in carbone combustibile, attraverso una sorta di elaborata alchimia, consentiva di ridurre il peso del materiale da trasportare dalle montagne alle città della pianura, mantenendo lo stesso potenziale calorico.
Un’arte millenaria, che negli anni della dominazione veneziana, vista la richiesta corposa e pressante, si affinò, per poi rimanere piuttosto praticata e diffusa fino al crepuscolo dell’Ottocento e, in rari casi, anche in epoche più recenti.
In Val Mesath, una piccola e nascosta laterale della Val Vajont, tra le selvagge dolomiti friulane, questa antichissima arte sta rivivendo, grazie ad Adriano Roncali, il gestore eremita del Rifugio Casera Ditta, che si trova proprio sotto il gruppo del Col Nudo – Cime di Pino, crocevia di escursionisti e rocciatori.
Qui, da qualche stagione, nel mese di agosto, l’accensione della carbonaia è diventata occasione per una festa, che si ripete solitamente due settimane dopo, quando la carbonaia stessa viene aperta per svelare il prodotto finito.
“Vent’anni fa – racconta Adriano Roncali – ho lasciato la vita di città. Sono friulano, figlio di emigranti, e sono cresciuto tra Piemonte e Lombardia. Facevo il capocantiere in Svizzera quando ho deciso di mollare tutto. Un passo alla volta, mi sono trasferito prima a Montereale Valcellina, poi ad Andreis, per avvicinarmi alle montagne. Infine nel 2004 ho preso in gestione il Rifugio Casera Ditta. Ho quindi già vissuto qua per ben 14 inverni di fila. E gli inverni contano molto più…”.
La Val Mesath è una valle stretta e chiusa a Sud. Un microcosmo che durante l’inverno rimane completamente isolato, sepolto sotto metri e metri di neve, che bloccano l’unico sentiero d’accesso, quello che porta verso la località “Prada”, in comune di Erto e Casso, sulla sponda sinistra del lago del Vajont.
Vivere per settimane senza telefono, senza elettricità, sciogliendo il ghiaccio per avere acqua potabile e scaldandosi con le scorte della legnaia non è da tutti, anche se, in realtà, sono sempre di più le persone, che, per molteplici e svariati motivi, lasciano la loro vita di città, la casa, gli affetti, il lavoro per andare alla ricerca di un eremo.
Una scelta estrema, ma appagante, a volte l’unica strada possibile per vivere un’esistenza piena, gratificante, in totale connessione con la natura e con il mondo. Così è stato per Adriano Roncali e anche per altri, che hanno cercato di imitarlo. Finora però nessuno è riuscito a superare il terribile inverno della Val Mesath.
“Creare il carbone dal legno – spiega – sembra una specie di processo alchemico, un lavoro paziente e certosino, che parte dalla formazione della carbonaia”. Quest’ultima non è che una pira di legna, selezionata con cura, ricoperta di terriccio e fogliame. Il principio è che il legno deve consumarsi a fuoco lentissimo ed in quasi totale assenza di ossigeno. La carbonaia va alimentata con legno nuovo ogni otto ore precise e così per quindici giorni almeno. Fino a che il fumo che sale dal piccolo pertugio non assume una colorazione turchese. Quello è il segnale che il lavoro è finito e si può disfare la pira.
“L’ultima carbonaia era di circa 40 quintali. Il carbone ricavato è stato di 400 chili, un decimo del peso, ma con le stesse kilocalorie. Era questa l’astuzia degli antichi per ridurre i disagi del trasporto. Inoltre il carbone ha uno spunto di calore maggiore rispetto alla legna, di conseguenza era molto più adatto alla lavorazione fabbrile”.
“Riguardo all’arte carbonara c’è un progetto che contiamo prima o poi di portare a compimento. Vorremmo realizzare un museo camminato, qui in Val Mesath, dove in varie tappe vengono spiegate tutte le fasi di questo processo, dal taglio della legna alla combustione della carbonaia. Ed inoltre creare una scuola per carbonai, dedicata a Bruno Ditta, l’ultimo carbonaio (oggi ottantenne e abitante all’imbocco della Val Mesath) per fare in modo che questo know how, questo sapere millenario non venga perduto per sempre”.