Sono le 16 e 55 del 27 ottobre del 1962. All’aeroporto di Catania è appena decollato un jet con a bordo Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista William McHale. Il viaggio procede senza problemi e, intorno alle 19, Bertuzzi inizia la discesa verso l’aeroporto di Milano-Linate, ma qualcosa va storto e l’aereo precipita nelle campagne di Bascapè, in provincia di Pavia. Seguono ore frenetiche di domande:
È stato un uccidente o un attentato? E se è stato un attentato, chi ha voluto uccidere Enrico Mattei?

Prima di scavare a fondo in questa vicenda e analizzarne tutti i misteri e le contraddizioni, una premessa è d’obbligo:
Nonostante siano passati quasi sessant’anni, il caso Mattei ha ancora più dubbi che certezze e non esiste una verità assoluta

Le prime indagini
La notizia dello schianto dell’aereo destò subito il sospetto che non si trattasse di un semplice incidente. Mattei era un manager d’assalto, che pur di fare gli interessi dell’Eni e dell’Italia si era inimicato mezzo mondo. Le minacce non gli mancavano e sua moglie, la ballerina austriaca Greta Paulas, raccontò che nove giorni prima della morte il marito aveva ricevuto una lettera minatoria, l’ultima di una lunga serie, che lo aveva particolarmente scosso. Inoltre, l’8 gennaio di quell’anno, Mattei era in partenza per il Marocco e, poco prima del decollo, gli addetti alla sicurezza avevano trovato un cacciavite nel rotore dell’aereo.

Alla luce di questi elementi, non stupisce che all’epoca si parlò di un attentato e, infatti, si fecero avanti due testimoni oculari.
La signora Rita Maroni disse:
Ho sentito un boato e una botta… e ho visto il fuoco
La dichiarazione di Mario Ronchi, invece, fu questa:
Il cielo era rosso, bruciava come un gran falò, e le fiammelle scendevano tutte intorno. Un aeroplano si era incendiato e i pezzi stavano cadendo sul prato
La dinamica dell’incidente sembrava chiara: qualcuno aveva visto l’aereo che esplodeva in cielo e la particolare disposizione dei rottami ne avvalorava la tesi.

Le due inchieste sul caso Mattei
L’allora Ministro della Difesa Giulio Andreotti nominò una commissione d’inchiesta, che, il 31 marzo del 1966, portò a una sentenza controversa. Quel giorno, il giudice Antonio Borghese ordinò il non luogo a procedere per insufficienza di prove a suffragio della natura dolosa dell’evento. In parole povere, agli occhi della legge, la morte di Mattei era il frutto di un’avaria tecnica o di un errore del pilota.

La sentenza fece ovviamente scalpore e iniziò un dibattito che si protrasse per decenni. Il caso fu riaperto solo nel 1994, grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. Ma nemmeno la seconda inchiesta portò a un’incriminazione.

A differenza di trent’anni prima il pubblico ministero chiese la riesumazione dei corpi delle vittime e, attraverso una perizia scientifica sui rottami, ricostruì la dinamica dell’attentato. L’aereo non si era schiantato al suolo per un’avaria, ma era esploso in volo per un ordigno che si era innescato quando il pilota aveva aperto i carrelli in fase di atterraggio. Nonostante le nuove evidenze la sentenza del 17 marzo del 2003 archiviò il caso per l’impossibilità di risalire all’identità del mandante dell’omicidio e di dimostrare con assoluta certezza il sabotaggio del veicolo.

Anche se la giurisprudenza non ha emesso una condanna definitiva la tesi della deflagrazione in volo è quasi universalmente condivisa, e fu ritenuta “altamente probabile” anche dalla commissione d’inchiesta che, pochi anni dopo, cercò di far luce sulla morte del giornalista Mauro De Mauro.

Il secondo processo non registrò grandi passi in avanti, ma, in un certo senso, riuscì a dimostrare il grande alone di mistero e corruzione che si celava dietro la morte di Mattei. Basti pensa che il pubblico ministero interpellò Mario Ronchi e questi asserì di aver visto l’aereo che prendeva fuoco quando era già a terra. Trent’anni prima, però, la Rai lo aveva intervistato in un servizio andato in onda la sera del 28 ottobre del 1962, ma, per qualche oscura ragione, nei nastri degli archivi non c’era più la traccia audio. I carabinieri, allora, chiesero a una professoressa sordomuta di ricostruire il labiale del video.
Qualcuno aveva manipolato l’intervista e il coltivatore aveva modificato la sua versione dei fatti

La menzogna costò a Ronchi una condanna per favoreggiamento aggravato e, infatti, in cambio del suo silenzio, aveva ricevuto il ruolo di custode del sacrario di Bascapè. Queste due inchieste rappresentano l’iter giudiziario del caso Mattei, ma adesso addentriamoci nel campo delle ipotesi e analizziamo tutti i possibili scenari che, forse, hanno portato alla morte del presidente dell’Eni.

Le piste internazionali
La spregiudicata condotta di manager d’assalto era valsa a Mattei l’inimicizia di mezzo mondo. Aveva fatto affari con l’Unione Sovietica, con ex paesi coloniali come Marocco, Libia, Sudan, e, soprattutto, aveva appoggiato la causa dell’indipendenza algerina. In quest’ultimo caso, si era guadagnato le minacce dell’OAS (acronimo dell’Organisation de l’armée secrète), un’organizzazione paramilitare francese attiva durante la guerra d’Algeria. Il coinvolgimento dei francesi nella tragedia di Bascapè, però, appare improbabile, perché l’indipendenza algerina fu siglata il 19 marzo del 1962, sei mesi prima della morte di Mattei. E in più, nell’ottobre di quell’anno, l’OAS era ormai in fase di disarmo.

Ai tempi dell’inchiesta sulla scomparsa di Mauro De Mauro, Italo Mattei raccontò che poco prima di morire, suo fratello Enrico aveva avuto un battibecco con l’allora Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, che, in quell’occasione, gli aveva parlato delle pressioni che John Fitzgerald Kennedy stava esercitando su di lui affinché l’Italia smettesse di comprare il greggio dai russi. Pare che, per tutta risposta, Mattei lo minacciò di smettere di appoggiarlo in favore del rivale Aldo Moro.
Ora mettiamo in stand-by la figura di Fanfani, che tornerà a breve insieme a De Mauro, e concentriamoci sulla pista statunitense.

In piena Guerra Fredda, Mattei stava facendo affari con i sovietici e stava pestando i piedi alle Sette Sorelle, aziende quasi tutte nordamericane. Si potrebbe supporre che, sulla falsariga dell’Operazione Mongoose, ovvero una serie di iniziative volte a sbarazzarsi di Fidel Castro, la CIA avesse deciso di toglierlo da mezzo, magari con il coinvolgimento delle Sette Sorelle o della Mafia statunitense.
Il problema di questa teoria è che, ai tempi dell’accordo con i russi, Mattei aveva risposto alle critiche internazionali con una semplice giustificazione: nessun altro voleva vendergli il greggio allo stesso prezzo del Cremlino.

Le sue manovre aziendali convinsero la Exxon, una delle Sette Sorelle, a scendere a patti con lui e vendergli il greggio a basso costo. Il contratto, firmato solo dopo la morte di Mattei, accontentava entrambe le parti: l’Eni avrebbe avuto accesso al petrolio del Consorzio per l’Iran e gli Stati Uniti avrebbero allontanato l’Italia dall’orbita russa. In parole povere, era in corso un riavvicinamento, quindi, il coinvolgimento della CIA è, se così possiamo dire, una delle piste meno calde.
Adesso torniamo indietro al 1970 e analizziamo il fronte italiano.

La scomparsa di Mauro de Mauro
Nel luglio di quell’anno, il regista Francesco Rosi, già famoso per film d’inchiesta come Le mani sulla città e Salvatore Giuliano, stava lavorando a Il caso Mattei, con Gian Maria Volonté nei panni del protagonista, e incaricò il giornalista Mauro De Mauro di far luce sugli ultimi giorni del presidente dell’Eni.

De Mauro lavorava per il giornale palermitano L’Ora ed era un cronista molto apprezzato per i suoi articoli sulla mafia. Quando Rosi si mise in contatto con lui, De Mauro si recò a Gagliano Castelferrato, dove ottenne i nastri del discorso di Mattei del 27 ottobre, chiese colloqui e indagò a fondo sulla vicenda. Il 16 settembre del 1970 qualcuno lo rapì sotto gli occhi della figlia e di lui non si ebbe più alcuna notizia.

Le prime indagini le portarono avanti il capitano dei Carabinieri Guido Russo, il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa e il commissario di Polizia Boris Giuliano, in seguito tutte vittime di Cosa Nostra. Ci furono ben due inchieste a vuoto e, a causa di incongruenze e depistaggi, il caso si arenò per l’impossibilità di giungere a qualsiasi conclusione. In sostanza, le ipotesi erano due:
De Mauro aveva pagato per la sua troppa curiosità su Mattei o sul traffico di droga in Sicilia

Buscetta su De Mauro e Mattei
Nel 1994, però, le rivelazioni di Buscetta rimescolarono le carte della giustizia italiana e spianarono la strada a una terza inchiesta.
De Mauro era un cadavere che camminava. Cosa Nostra era stata costretta a perdonare il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo temporaneamente sospesa

Lo scoop in questione risaliva al 1962, quando De Mauro aveva pubblicato un verbale di polizia, caduto nel dimenticatoio, dove il pentito Melchiorre Allegra elencava regole, affiliazioni e strutture del mondo mafioso.

Per Buscetta, nel 1970, De Mauro aveva passato il segno ed era giunto fin troppo vicino allo scoprire la verità sul caso Mattei. Si trattava di una vicenda scomodissima, che aveva radici molto profonde e ai giudici fornì questa ricostruzione dei fatti. L’esecutore materiale dell’omicidio Mattei era stato Giuseppe di Cristina, a capo della famiglia di Riesi, che, a sua volta, aveva ricevuto l’incarico da Angelo Russo, il boss della famiglia di Filadelfia di Cosa Nostra statunitense, forse su esortazione delle Sette Sorelle.

Verzotto, Di Cristina e le Sette sorelle
Ed è qui che le cose si complicano parecchio. Di Cristina, infatti, era molto vicino al senatore democristiano Graziano Verzotto, tra l’altro, suo testimone di nozze, e per Buscetta entrambi avevano giocato un ruolo fondamentale nella scomparsa sia di De Mauro sia di Mattei. La linea di pensiero di chi punta il dito contro Verzotto si basa su due considerazioni, che, è bene specificare, non sono mai state dimostrare.

Fu Verzotto che dopo soli otto giorni dal suo ultimo viaggio sull’isola richiamò Mattei in Sicilia e lo convinse a tenere un comizio a Gagliano Castelferrato. Poi fu sempre lui che ordinò lo spostamento del jet dall’aeroporto di Gela, dove era atterrato, a quello di Catania.

Ma, come si è visto, Mattei si era fatto molti nemici sia per i suoi affari a discapito delle sette sorelle sia per il grande potere che aveva acquisito attraverso l’Eni. Non stupisce che la pista politica abbia ancora altri nomi.

Eugenio Cefis e i sospetti di Pasolini
Durante la terza inchiesta sul caso De Mauro, sempre suo fratello Italo asserì che Amintore Fanfani, Raffaele Girotti ed Eugenio Cefis avevano commissionato l’attentato a Enrico per impedirgli di firmare un accordo per lo sfruttamento del petrolio argentino. Di un eventuale contrasto con Fanfani ne abbiamo già parlato; quindi, soffermiamoci su Eugenio Cefis, una delle figure più controverse dell’Italia del dopoguerra.

In passato Cefis aveva lavorato per l’Eni, ma si era allontanato perché non condivideva la linea aziendale dettata da Mattei. Dopo la morte del manager tornò e divenne vicepresidente esecutivo con pieni poteri. Sotto la sua gestione, l’ente invertì la rotta e non concretizzò gli accordi con l’Algeria indipendente. Negli anni successivi continuò a far parlare di sé per alcune manovre finanziarie molto sospette, e Pier Paolo Pasolini lo ritrasse in Petrolio, un romanzo uscito postumo nel 1992. La particolarità di quest’opera è che rimase incompleta e Pasolini non fece in tempo a scrivere un capitolo che doveva intitolarsi Lampi sull’Eni. Lo scrittore era convinto che, in qualche modo, Cefis fosse coinvolto nel caso Mattei e, per alcuni, fu proprio lui l’artefice della misteriosa morte dello stesso Pasolini.

La terza inchiesta su De Mauro e l’unica certezza su Mattei
Quando il caso De Mauro fu riaperto per la terza volta, nel 2001, seguì un processo che si concluse nel 2015 e portò al riconoscimento del legame fra la scomparsa del giornalista e quella di Mattei. Si stabilì l’alta probabilità che la tragedia di Bascapè fosse di natura dolosa.
A questo punto la domanda sorge spontanea:
Cosa aveva scoperto De Mauro? E fin dove si erano spinte le sue ricerche?

La verità è che è impossibile rispondere. Mafia, politica, affari, omertà, rapimenti, omicidi, incongruenze… Nel caso Mattei c’è troppa teoria e poche certezze. C’è tutto e non c’è niente.
Ne consegue che sulla sua morte possiamo solo fare ipotesi e nient’altro, ma, da un punto di vista storico, rimane comunque la sua biografia, che, forse, è quella che conta di più. Se il miracolo economico del dopoguerra porta anche il suo nome è perché l’Eni era Mattei e Mattei era l’Eni. Due facce della stessa medaglia, due pagine di storia di un’Italia che voleva rialzarsi dopo la distruzione della guerra.