È il 1906. In Italia, il dibattito sull’emancipazione femminile s’infiamma grazie a un romanzo che conquista il consenso di critica e pubblico. Il titolo è Una donna; l’autrice è Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio.
Una donna è la storia autobiografica di una ragazza violentata a 15 anni e costretta a un matrimonio riparatore, dove il suo ruolo è quello di guardiana del focolare domestico. Ma è anche la storia di una moglie che non accetta la trappola della famiglia, per dirla alla Pirandello, di una madre che per sé desidera più di quanto imposto dalle convenzioni sociali. Così, nel 1906, Sibilla diventa il simbolo dell’emancipazione di quelle donne che vogliono essere protagoniste delle loro vite.

Sibilla lo fa. Abbandona marito e figlio, quest’ultimo a malincuore, e continua la sua intensa attività letteraria. In amore non ha limiti. Frequenta uomini e donne, ha avventure e relazioni con alcuni dei più grandi intellettuali del Novecento e si guadagna il soprannome poco lusinghiero di “lavandino della cultura italiana”.
Ma a Sibilla non importano le malelingue. Lei ama chi vuole e come vuole. È uno spirito libero, forse anche troppo, perché il suo impegno civile non è mai teorico, sempre pratico, e finisce per passare da una fazione all’altra senza troppi problemi. Parte col femminismo, poi, da pacifista, diventa una sostenitrice del fascismo e, infine, sposa la causa comunista.
Ma, allora, chi è stata Sibilla Aleramo?
Per rispondere a questa domanda partiamo da principio.

I primi anni e il matrimonio riparatore
Marta Felina Faccio nasce ad Alessandria il 14 agosto del 1876, da Ambrogio Faccio ed Ernesta Cottino. Il rapporto con i genitori non è dei migliori. Stravede per il padre, un ingegnere anticonformista, ma detesta la madre, una casalinga succube della sua stessa inettitudine. Passa la prima infanzia fra Vercelli e Milano, poi, nel 1881, la famiglia si sposta a Civitanova Marche, dove Ambrogio ottiene la direzione di un’azienda. Nella cittadina del maceratese Marta interrompe gli studi e, a soli 12 anni, affianca il padre in veste di segretaria e contabile della fabbrica. Nel 1889, Ernesta tenta il suicidio e si lascia sopraffare da una depressione così forte da rendere necessario un ricovero in manicomio, dove passerà il resto dei suoi giorni fino al 1917.

Con la madre vittima di sé stessa e lontana da casa, Marta deve districarsi tra le faccende domestiche e il lavoro in fabbrica, ma a quindici anni succede qualcosa che la cambia per sempre. Nel febbraio del 1892, Ulderico Pierangeli, suo collega e impiegato del padre, la violenta e la mette incinta. I tempi di Franca Viola sono ancora di là da venire e, come da tradizione, si procede a un matrimonio riparatore, che ha luogo il 21 gennaio del 1893, quando la diciassettenne Marta sposa Ulderico e si ritrova moglie di un uomo bigotto, meschino e prepotente.

Il giornalismo e la depressione
La prima gravidanza non va a buon fine e subisce un aborto spontaneo. Nel 1895, partorisce suo figlio Walter e si illude che la maternità possa salvarla dalla depressione, ma si rende conto di non essere adatta a ricoprire il ruolo di classica donna borghese tutta casa e chiesa e inizia una piccola ribellione attraverso la scrittura.
«Un fatto di cronaca avvenuto nel capoluogo della provincia – ricorderà in seguito – mi indusse irresistibilmente a scrivere un articolo e a mandarlo a un giornale di Roma che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola “femminismo” e quando la vidi così stampata, la parola dall’aspro suono, mi parve d’un tratto acquistare la sua significazione, designarmi veramente un ideale nuovo».

Marta esordisce nel giornalismo nel 1897 e scrive articoli di stampo femminista per la Gazzetta letteraria, L’indipendente di Trieste e Vita Moderna. Nel 1899, si trasferisce a Milano per volere di Ulderico, e il soggiorno in Lombardia si rivela un’ottima occasione per inserirsi negli ambienti letterari. Ottiene la direzione del settimanale L’Italia femminile, collabora con intellettuali del calibro di Maria Montessori e Matilde Serao e inizia una relazione col poeta Guglielmo Damiani.

L’esperienza milanese si conclude nei primi mesi del 1900, quando Ulderico la costringe a ritrasferirsi a Civitanova Marche. Il ritorno alla realtà provinciale è un colpo durissimo. Cade vittima della depressione e tenta il suicidio, ma proprio quando sta per ingerire il laudano, Marta ha un’epifania che la fa fermare. È in quella situazione perché un uomo l’ha violentata e sposata con il benestare della società. Il matrimonio riparatore l’ha spersonalizzata e messa sullo stesso piano di sua madre. Non può arrendersi e darla vinta al suo aguzzino, non può più abiurare sé stessa. Ha solo un modo per riprendersi in mano la sua vita:
Deve abbandonare il marito e trasferirsi a Roma

Lo fa nel febbraio del 1902, ma per il piccolo Walter la separazione è dolorosissima. È sofferta perché lo ama e non vorrebbe abbandonarlo – lui non vorrà incontrarla per oltre trent’anni e si rivedranno solo in tre occasioni: nel 1933, nel 1947 e sul suo letto di morte nel 1960- ma è necessaria perché vive in una società borghese dove la sua sola possibilità di essere donna equivale all’essere madre, e se davvero vuole riaffermare la sua libertà deve per forza abbandonare anche il figlio.

Il primo romanzo: Una donna
Ha inizio quella che definirà la sua “seconda vita”. A Roma intensifica gli sforzi letterari e intraprende una relazione sentimentale con il direttore della Nuova Antologia, il poeta Giovanni Cena.

Il compagno la incoraggia e la aiuta nella stesura del suo primo romanzo, Una donna, e le suggerisce lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, che, quasi a rimarcare ancora di più la sua volontà di lasciarsi il passato alle spalle, oltre che salvaguardarla dalle pretese legali di Ulderico, diventa a tutti gli effetti il suo vero nome.

Una donna esce nel 1906 ed è subito un successo di pubblico e critica, con recensioni positive anche di personaggi illustri della letteratura italiana del tempo.
Scrive Pirandello: «Pochi romanzi moderni io ho letto che racchiudano come questo un dramma così grave e profondo nella sua semplicità e lo rappresentino, con pari arte, in una forma così nobile e schietta, con tanta misura e tanta potenza».

In Una donna, Sibilla racconta se stessa- parte dal rapporto con i genitori, continua con lo stupro, col matrimonio riparatore e chiude con l’abbandono della famiglia- ma lo fa con riflessioni e parole tanto profonde che le valgono l’ammirazione di mezza Europa. È un romanzo con una narrazione violenta e super realistica – motivo per il quale in molti lo considerano il primo manifesto letterario femminista in Italia – ma è anche una storia in cui ogni donna deve intravedere la possibilità di spezzare le catene del patriarcato e agguantare quella libertà insperata con cui si chiude il libro.
«E tutto si sovrappone, si confonde, e una cosa sola su tutto splende: la pace mia interiore, la mia sensazione costante d’essere nell’ordine, di potere in qualunque istante chiudere senza rimorso gli occhi per l’ultima volta. In pace con me stessa».

Gli amori e la poetica
Sull’onda di quest’incredibile successo, con Una Donna che viene pubblicato negli Stati Uniti e in svariati paesi d’Europa, Sibilla continua la sua battaglia femminista e umanitaria. Scrive articoli senza fermarsi, si fa promotrice dell’istruzione delle classi povere del Mezzogiorno e dell’Agro romano e favorisce l’istituzione di scuole serali per sole donne.

Sono anni di grandi soddisfazioni personali e di una vita all’insegna della libertà. Nel 1908, lascia Giovanni Cena per Lina Poletti, poi si lega a scrittori e poeti del calibro di Vincenzo Cardarelli, Clemente Rebora e Salvatore Quasimodo, ma è solo durante la Prima guerra mondiale che incontra il suo grande amore, Dino Campana.

Con l’autore dei Canti Orfici è una relazione passionale, travolgente, ma tossica per entrambi. Lei è una mondana, un’assidua frequentatrice dei salotti letterari; lui un uomo introverso e riservato. In due anni insieme fanno fuoco e fiamme. Si amano e si odiano, litigano, si insultano, fuggono e si inseguono. Poi tutto si conclude nel peggiore dei modi, quando le turbe mentali del poeta lo costringono a passare il resto dei suoi giorni nel manicomio toscano di Castelpulci.

Negli anni ‘10 del Novecento, Sibilla viaggia tanto ed entra in contatto con le grandi personalità dell’epoca. Si avvicina a Filippo Marinetti e al movimento futurista, diventa amica di Grazia Deledda, soggiorna a Parigi e conosce artisti del calibro di Guillaume Apollinaire ed Émile Verhaeren.

Determinate è l’incontro con D’Annunzio, che diventa il suo nuovo punto di riferimento. Dopo Una donna, la produzione di Sibilla cambia e il femminismo sociale che aveva caratterizzato il suo romanzo d’esordio scompare. Lo definisce “una breve avventura, eroica all’inizio, grottesca sul finire; un’avventura da adolescenti, inevitabile e ormai superata”, ma non lo abbandona del tutto, perché, nelle sue intenzioni, l’istanza femminista deve evolversi sul versante letterario.
Scrive Sibilla: «Il mondo femmineo dell’intuizione, questo più rapido contatto dello spirito umano con l’universale, se la donna perverrà a renderlo, sarà, certo, con movenze nuove, con scatti, con brividi, con pause, con trapassi, con vortici sconosciuti alla poesia maschile».

L’autrice passa alla prosa lirica e inizia a scrivere delle sue vicende sentimentali, ma lo fa attraverso il leitmotiv dannunziano del “fare la vita come si fa un’opera d’arte”, cercando di fondere l’io reale con l’io narrante fino a renderli indistinguibili. Il risultato, però, non è quello sperato. Pubblico e critica la abbandonano e, poco prima di morire, nei suoi diari scriverà quanto segue: «Ho fatto della mia vita, come amante indomita, il capolavoro che non ho avuto così modo di creare in poesia».

L’adesione al fascismo
In piena parabola discendente, gli anni ’20 si aprono all’insegna di nuovi problemi. Sibilla si mantiene con qualche collaborazione giornalistica e, nel 1925, è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, ma i soldi non le bastano e cerca di entrare nella redazione del Corriere della Sera.

Il quotidiano non la vuole per via delle sue ideologie politiche e, a novembre, la polizia la arresta in seguito all’attentato del suo amico Tito Zaniboni ai danni del Duce. Ormai le è chiaro che senza l’amicizia del nuovo governo gli intellettuali come lei non sono ben accetti, ma resiste ancora per qualche anno, poi cede e abbandona la sua fede pacifista.

Il 18 gennaio del 1929, Sibilla ha 53 anni e vive in una misera soffitta di via Margutta quando ottiene un incontro con Mussolini e giura fedeltà al fascismo in cambio di un sussidio, che, fino al 1943, le frutterà 235.000 mila lire, pari a circa 270.000 euro di oggi.

Sibilla mantiene la parola. Si iscrive all’Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate e scrive articoli in cui elogia il Duce, che definisce “un taumaturgo gigantesco”, ma si aspetta anche che il regime la protegga dalla stampa.

Ad esempio, nel gennaio del 1935, un giornalista della Gazzetta del Popolo muove delle critiche a un suo libro e, con una lettera molto esplicita, chiama in causa il ministro Galeazzo Ciano.
«Chiederei a vostra eccellenza di dare una lezione, un ammonimento esemplare, all’autore di codesto malvagio e stupido trafiletto, fatto per nuocere velenosamente a una scrittrice che onora in Italia e fuori, e non da oggi, la nostra letteratura».

Poi arriva la guerra e Sibilla continua a godere dell’appoggio socio-economico del regime, ma la sua avventura fascista s’interrompe dopo l’armistizio di Cassibile, quando rifiuta l’invito del Ministero della Cultura a trasferirsi nei territori della Repubblica di Salò.

La fase comunista e gli ultimi anni
Alla soglia dei 70 anni si invaghisce del comunismo e, il 3 gennaio del 1946, scrive una lettera all’allora segretario del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti.
«Io, poeta e donna, desidero far parte di questa grande comunità, che mi conferma la mia visione antica di un mondo in cui ogni persona viva e operosa sarà in grado di sentire l’esistenza e lo stesso suo lavoro sotto specie di poesia».

Togliatti la accoglie a braccia aperte e, nonostante le tante primavere, Sibilla si dedica anima e corpo alla causa comunista. Scrive a favore del partito su L’Unità, tiene conferenze in tutta Italia e viaggia in Polonia e in Russia per scoprire le altre realtà comuniste. Trascorre i suoi ultimi anni nell’indigenza, si ammala e muore il 13 gennaio del 1960, in una clinica romana.

Chi è stata Sibilla Aleramo
Adesso torniamo alla nostra domanda iniziale.
Chi è stata Sibilla Aleramo?
In realtà la risposta è molto semplice, perché è inutile arrovellarsi sulla sua biografia, sui suoi amori e sulle sue scelte politiche. Potremo dire che è stata una figlia, una moglie, una madre, un’amante, una femminista, una fascista e una comunista, ma sarebbe sbagliato. Quando si parla di Sibilla Aleramo è lei stessa a suggerirci che la risposta è una sola ed è il titolo della sua opera più rappresentativa, quella che racchiude il suo desiderio di essere libera e di far bene o di sbagliare senza render conto a nessuno.
Sibilla Aleramo è stata una donna. Tutto qui
Fonti:
Sibilla Aleramo, una donna e la “scandalosa” voglia di vivere – Storica National Geographic
Sibilla Aleramo – Archivio di Stato Firenze
Sibilla Aleramo – Enciclopedia Treccani
Sibilla Aleramo – Puntata di “Passato e presente” disponibile su Rai play
Chi era la “scandalosa” Sibilla Aleramo, prima scrittrice femminista italiana avida di vita e d’amore – La Repubblica
Sibilla Aleramo: vita, opere e il rifiuto del ruolo tradizionale di Una donna – Studenti.it
Sibilla Aleramo – Wikipedia italiano