Giuliana Coen di Camerino era nata a Venezia nel 1920. Come forse è intuibile dal cognome la famiglia era di origine ebraica e con le leggi razziali si rifugiò in Svizzera*. Giuliana tornò a Venezia nel 1945, quando aprì un laboratorio alla Giudecca per aiutare le ragazze emarginate inserendole nel mondo sartoriale, e dove anche morì nel 2010. Questa è una biografia sintetica, ma si potrebbe scrivere tanto di questa vera icona della moda.
*Un amico Facebook, Lorenzo Rigobon, mi ha raccontato che proprio poche sere fa gli avevano raccontato della fuga di Giuliana in Svizzera. Il sig. Ligabue, titolare dell’omonima famosissima ditta veneziana di forniture navali e catering, incontrò Giuliana e sua madre che cercavano di raggiungere a piedi la stazione per fuggire. Le fermò spiegando che era un suicidio e le avrebbero sicuramente fermate e arrestate. Disse loro di seguirlo a distanza, le portò a casa sua e le nascose in attesa di organizzare la fuga. Non conosco il seguito, stiamo cercando di farcelo raccontare, e se lo sapremo, lo aggiungerò. Bella storia, vero? Grazie Lorenzo.
Giuliana Camerino, fotografia via Wikipedia:
Il suo stile è inimitabile e, fortunatamente, inimitato. I suoi chemisier stampati a trompe l’oeil a rappresentare giacca, camicia, gonna e fusciacca, le sue borse di velluto con il suo famoso logo, la R fatta come una cintura con la fibbietta, ad altorilievo come scolpito, i suoi abbinamenti di colori, i classici rosso-verde-blu, i colori più amati dal Tiziano, e illuminati dall’oro.
Tutto delle sue creazioni era unico
Era nota il tutto il mondo ma i suoi prodotti erano destinati all’élite. Sia per i prezzi, molto elevati, sia per il genere molto originale e non per tutti perché, diciamolo francamente, i suoi chemisier di jersey erano per le acciughe, avevano il potere di evidenziare anche il minimo rotolino che allagava le righe, deformava il disegno, rendeva abbastanza grottesche le finte giacche tirate sul seno.
Inoltre erano abiti riconoscibilissimi, le donne che volevano indossare capi diversi ad ogni occasione non potevano permettersi neppure una seconda chance con le stesse persone. Se un tailleur si può indossare di nuovo cambiando gli accessori, uno dei suoi abiti no, si ricorda e resta impresso per sempre.
I suoi foulard, di una seta spessa e pastosa, non si spiegazzavano neppure volendo, e i suoi colori favoriti sulla seta erano eccezionali.
Non amava le borse a tracolla, ne faceva pochissime, pensava che la tracolla rovinasse la linea dell’abito e il portamento della donna, con una spalla sollevata per non far scivolare la borsa, mentre le borse col manico rigido, come la famosissima Bagonghi creata nel dopoguerra, aggiungevano stile al portamento. Grace Kelly appare in molte foto con questa borsa e, come per la Kelly di Hermes, l’ha fatta diventare famosissima.
Si possono stampare chilometri quadrati di tela plasticata e farne milioni di borse sfoderate con i logo LV, GG o di similpelle trapuntata con le CC, ma mai si potrà fare un tarocco di una Bagonghi.
La struttura, il velluto, le chiusure disegnate dai gondolieri, le fodere di pelle, impossibile e troppo costoso imitarle per farne un articolo da ‘vorrei ma non posso’
Sopra, fotografia di Sara Gambarelli condivisa con licenza Creative Commons 2.0 via Flickr.
In un mondo talmente appiattito dove l’oggetto del desiderio diventa quello “Perché ce l’ha la mia amica” o l’elastico delle mutande firmate fuori dai pantaloni perché qualche divo o influencer l’aveva lasciato così prima, non c’è posto per Roberta di Camerino, per fortuna.
Il suo stile fuori dagli schemi non piaceva a tutti. A me, ad esempio, ragazza ventenne, non piaceva. Lo trovavo troppo da signora, volevo le borse a tracolla così pratiche, le lunghezze al ginocchio o il longuette le odiavo. Ma la mia mamma, la amava. Era una specie di robertomane. Si incantava. Non poteva permettersi molte cose, i prezzi erano davvero molto alti, ma negli anni ’70, una volta l’anno, solo una volta l’anno poteva permettersi delle overdose di Roberta.
La svendita!
Venivano signore da tutto il veneto. Pezzi delle collezioni precedenti, capi di sfilata taglia 38 o 40, qualche seconda scelta con minime imperfezioni nella stampa, borse con il velluto un po’ schiacciato in un angolino. O con un minimo segno sulla pelle, e poi foulard, portafogli, le immancabili borsine per il trucco di velluto, tutto finiva nelle stanze della merce in saldo. E c’era anche la biancheria per la casa, tovaglie, tovagliette, lenzuola.
3 o 4 stanze piene zeppe di ogni ben di dio a prezzi abbastanza accessibili e molte volte assolutamente perfetti. Devo ammettere che, pur non portando quel genere di abiti, mi piaceva molto accompagnare mia madre e provarli. Eravamo entrambe 2 acciughe probabilmente molto invidiate, dato che riuscivamo ad entrare in ogni abitino.
E tornavamo a casa, cariche come cammelli, mia mamma felice per gli acquisti e io felice per la sua gioia e per la giornata passata insieme.
Dopo la sua morte prematura, nel 1983, non sopportavo di vedere in armadio i suoi abiti, la cagnolina che li annusava e si girava verso di me come a chiedere “ma dov’è finita?”. Non ce la facevo, e ho dato via tutto alle opere di carità. Ora rimpiango la decisione
Nei mercatini vintage si possono trovare Bagonghi usate a poco più di 100 euro, mentre le firme più gettonate costano 5 volte tanto se non più. La qualità, l’originalità forse non contano, ma le Bagonghi sono nei musei e resteranno pezzi da collezione. Per sempre.
Giuliana aveva pubblicato nel 1981 un libro “R come Roberta” e Roberta Camerino, la figlia della stilista, ha pubblicato “Schegge di R“, libri che non ho letto, ma mi è venuta voglia irrefrenabile di comprare.
E se verrete a Venezia, o meglio andrete, perché purtroppo non abito più là, c’è Palazzo Grifalconi-Loredan, dove la figlia Roberta e la nipote hanno esposto l’atelier di Giuliana, con i pezzi nuovi ed i pezzi storici della grande, grandissima Roberta di Camerino.