Giuditta Bellerio Sìdoli: l’amante dimenticata di Giuseppe Mazzini

Numerose controversie hanno da sempre circondato la figura di Giuseppe Mazzini e di conseguenza anche il giudizio storico su di lui. A due secoli di distanza le opinioni sono ancora contrastanti: cospiratore, rivoluzionario, massone, un patriota che ha influenzato e smosso una moltitudine di cuori al grido di libertà e unione, per l’Italia e gli italiani.

Giuseppe Mazzini

Tra i tanti che hanno dato ascolto a quel grido spicca una donna in particolare: Giuditta Bellerio Sìdoli, vicina nei momenti più duri al personaggio che più di ogni altro ha lottato per l’indipendenza del popolo italiano, e col quale ha condiviso lo stesso fuoco insurrezionale.

Giuditta Bellerio Sìdoli – Ritratto di anonimo, 1835 circa

Giuditta Bellerio Sìdoli, nata a Milano il 16 gennaio 1804, è stata tra le collaboratrici più fedeli di Giuseppe Mazzini, fondatrice, insieme al rivoluzionario repubblicano, del giornale “La Giovine Italia”, organo di stampa ufficiale dell’omonima associazione fondata a Marsiglia nel 1831.

Figlia del barone Andrea Bellerio, magistrato del Regno d’Italia napoleonico, e di Maria Sopranzi, la Bellerio Sìdoli è, per i suoi tempi, una donna particolarmente emancipata: molto interessata fin dalla tenera età alle vicende politiche dell’instabile paese in cui è nata, sposa ad appena sedici anni Giovanni Sìdoli, un facoltoso possidente di Montecchio Emilia, che ha aderito alla carboneria.

Poco dopo l’unione, suggellata con una sfarzosa cerimonia nel Duomo di Reggio Emilia, e la nascita della primogenita Maria, la coppia è costretta a lasciare l’Emilia, per sfuggire agli arresti imposti da Francesco IV d’Asburgo-Este, duca di Modena e Reggio. È il 1821, Giuditta e Giovanni Sìdoli trovano riparo in Svizzera. Con loro portano anche la neonata secondogenita, Corinna, mentre la piccola Maria viene lasciata ai nonni paterni.

Giuditta Bellerio Sìdoli

Il Sìdoli, condannato a morte dal duca nel corso del processo di Rubiera, muore pochi anni dopo, nel 1828, a causa di un male ai polmoni, lasciando sola l’ancora giovane Giuditta insieme ai figli, che frattanto sono diventati quattro. La donna potrà godere per poco dell’affetto dei bambini, perché questi le verranno strappati dal suocero che, fedelissimo a Francesco IV d’Asburgo-Este, si rifiuta di lasciarli in custodia alla madre:

I suoi nipoti non devono essere cresciuti da una fuggiasca eversiva

Dopo alcuni anni difficili in Svizzera, nel 1831 Giuditta Bellerio Sìdoli ritorna in Italia grazie all’interessamento del patriota Ciro Menotti, per prendere parte ai moti di Reggio Emilia (capeggiati dal Menotti stesso) contro il regime del ducato. La donna partecipa all’accesa rivolta e alla fine sarà lei a consegnare alla neocostituita Guardia Civica la bandiera tricolore, nata nel 1797 e destinata a diventare il simbolo stesso dell’indipendenza prima e dell’unità nazionale poi. Oggi quella bandiera è conservata nel Museo del Tricolore di Reggio Emilia.

La bandiera della Guardia Civica di Reggio

Immagine di Sailko via Wikipedia – licenza CC BY 2.5

L’insurrezione, esplosa con particolare virulenza in Emilia Romagna e Marche, non va a buon fine. Ciro Menotti, considerato “l’ultimo martire della carboneria”, viene arrestato e giustiziato mentre la Bellerio Sìdoli, insieme a molti altri rivoltosi, è costretta a una nuova fuga. Ripara a Marsiglia e qui, nella sua casa al numero 57 di rue de Féréol, avviene l’incontro che le cambierà l’esistenza: conosce Giuseppe Mazzini.

Giuseppe Mazzini nel 1846

Anche Mazzini è un giovane esule (classe 1805, un anno meno della donna) che ha dovuto abbandonare la Penisola italiana dopo un periodo in prigione, a Savona, per la sua attività cospirativa. Appassionato di letteratura italiana (si innamora delle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo) ed europea (tra i suoi favoriti Shakespeare, Lord Byron, Goethe e Keats), dal 1827 è segretario della carboneria in Valtellina.

Giuseppe Mazzini non è direttamente reduce dai violenti moti del 1830-31, ma avendoli ispirati, seguiti e analizzati a fondo, capisce che un’insurrezione sporadica, fatta di piccoli movimenti locali, non potrà mai sconfiggere una grande potenza europea come l’Impero austriaco. Così, durante l’esilio di Marsiglia, Mazzini fonda la Giovine Italia, con il motto “Unione, Forza e Libertà”. La nuova società segreta è volta a unire i tanti stati italiani e le varie anime ribelli in un’unica repubblica, sola possibilità per contrastare i vicini imperi nemici. A essa aderiscono presto molti carbonari che hanno abbandonato la storica società segreta rivoluzionaria nata nel Regno di Napoli già all’inizio dell’Ottocento e oramai in crisi.

La Bandiera della Giovine Italia

Immagine di Manny Mannheimer via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0

Nel processo di costituzione della nuova Giovine Italia, Giuditta Bellerio Sìdoli sarà molto vicina a Mazzini, tanto che, dopo esserne divenuta fidatissima collaboratrice, i due diventeranno presto amanti. La coppia avrà con tutta probabilità – la tesi è sostenuta con certezza da Bruno Gatta in “Mazzini. Una vita per un sogno” – anche un figlio, il piccolo Joseph Adolphe, nato vicino Berna nel 1832 e, dopo essere stato lasciato in affidamento dalla madre, morto a neppure tre anni nel 1835.

Oltre a lavorare insieme all’organizzazione dei movimenti rivoluzionari, nel 1832 i due danno vita anche a un nuovo periodico: “La Giovine Italia”. La rivista, chiamata appunto come la società appena costituita e in continua crescita di consensi, dalla Toscana alla Campania, in tre anni di edizione pubblicherà appena sei numeri, nei quali sarà esposto tutto il pensiero politico della principale figura del patriottismo italiano.

Scoppiano le prime avvisaglie insurrezionali subito represse con arresti, condanne capitali e fucilazioni: nell’autunno del 1833 Mazzini viene condannato a morte in contumacia per i suoi progetti sovversivi e per aver “corteggiato” il nuovo re di Sardegna, Carlo Alberto di Savoia-Carignano (la condanna sarà amnistiata soltanto nel 1848). L’uomo prende così la decisione di abbandonare Marsiglia e la sua amante per trasferirsi a Ginevra.

Da quel momento le vite di Mazzini e Giuditta Bellerio Sìdoli prendono due strade diverse. L’uomo continuerà la sua lotta a lungo, anche dalla lontana Londra, si dedicherà a sostenere la liberazione di altri stati europei (da ricordare la costituzione della Giovine Europa), sarà a capo, assieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini, della breve Repubblica Romana, subirà nuove condanne a morte ed esili, entrerà in contrasto con le nuove idee unitarie, azioni politiche e militari di Camillo Benso conte di Cavour, Presidente del consiglio dei ministri del Regno di Sardegna, fino alla morte sopraggiunta a Pisa il 10 marzo 1872.

E Giuditta Bellerio Sìdoli che fine fa?

Rientrata in Italia, a Livorno, sul finire del 1833, la donna intratterrà con Mazzini una fitta corrispondenza anche dopo la fine della loro relazione, tenendolo aggiornato circa le azioni insurrezionaliste che si svolgono nel paese. Il patriota apprezzerà:

“Sorridimi sempre! È il solo sorriso che mi venga dalla vita”

e ancora: “Ditele che io l’amo come l’amava; e il dileguarsi d’ogni speranza non mi toglie d’amarla” le scriverà dimostrandole quanto, nonostante le ambasce, le fughe, i sempre più intensi impegni rivoluzionari e le nuove liaison (si vocifererà anche una fugace relazione con la scrittrice francese George Sand), ancora il sentimento per lei risulti vivo.

Come l’amato, Giuditta peregrinerà in lungo e in largo, prenderà parte ai nuovi moti di Livorno, Firenze, Roma, ma sempre con l’obiettivo di ricongiungersi ai figli, finiti a Reggio Emilia, nelle mani della famiglia del defunto marito.

L’incontro di Mazzini con Giuseppe Garibaldi nella sede della Giovine Italia, a Marsiglia, 1833

Nel 1849 la donna e Mazzini si incontreranno nuovamente a Firenze, per discutere della situazione politica del paese, senza far cenno al loro amore spezzato. Pochi mesi dopo però, Giuditta sarà arrestata a Modena e trasferita a Milano, nel Lombardo-Veneto, per ordine del generale Josef Radetzky, reduce dalle Cinque giornate di Milano e dalla vittoria nella Prima guerra d’indipendenza. Quando il vecchio generale, ultraottantenne, viene messo a riposo da Sua Maestà Imperiale e Reale Apostolica Francesco Giuseppe I d’Austria (proprio il consorte dell’imperatrice Sissi e padre di Rodolfo, l’erede al trono che si toglierà la vita insieme all’amante Maria Vetsera, nel casino di caccia di Mayerling)  Giuditta Bellerio Sìdoli esce dal carcere e nel 1852 si trasferisce a Torino, dove vivono due sue figlie.

Nella futura prima capitale dell’Italia unita (se non si considera la brevissima titolarità di Salemi, durata appena un giorno), la donna trova una certa stabilità e intreccia rapporti con le più importanti personalità risorgimentali della città. Nel suo salotto si parla dei moti rivoluzionari, si gettano le basi per quella che sarà la seconda guerra d’indipendenza del 1859, ma di fatto non si agisce più in prima persona. Ai suoi incontri presenziano personalità del calibro di Francesco Crispi e nell’estate del 1856 le fa visita Giuseppe Mazzini, per quello che sarà il loro ultimo incontro.

Mazzini in una fotografia con autografo scattata da Domenico Lama

Come l’amato, anche Giuditta, una sorta di suo alter ego femminile, assiste all’Unità d’Italia in disparte, non più da protagonista al centro della lotta.

La donna muore a 67 anni, il 28 marzo 1871, a Torino, dopo una lunga malattia.

Oggi è sepolta nel cimitero monumentale della città (Prima ampliazione area 340), nell’area dedicata ai personaggi del Risorgimento. Sulla facciata della sua ultima dimora torinese, nell’odierna via Mazzini, è collocata una targa che la ricorda.

Antonio Pagliuso

Appassionato di viaggi, libri e cucina, si occupa di editoria e giornalismo. È vicepresidente di Glicine associazione e rivista, autore del noir "Gli occhi neri che non guardo più" e ideatore della rassegna culturale "Suicidi letterari".