“Qui non si muore”, furono le parole pronunciate da Gioacchino Murat nel 1811, in visita a Castellabate, per esprimere il suo apprezzamento per la salubrità di quel luogo. La frase è incisa su una targa del borgo medievale della cittadina del Cilento ed è divenuta celebre anche in epoca moderna grazie al successo del film Benvenuti al Sud.

Di umili origini, Murat è la perfetta esemplificazione delle possibilità di ascesa sociale che scaturirono dai venti rivoluzionari francesi. Scalò con tenacia le gerarchie militari, incrociò il suo destino con la più grande personalità dell’epoca, Napoleone Bonaparte, e divenne sovrano del Regno di Napoli.
Dalla locanda alla Rivoluzione
Joachim Murat, conosciuto in Italia come Gioacchino, talvolta con il cognome Napoleone, nacque a Labastide-Fortunière il 25 marzo 1767.

Era l’undicesimo e ultimo figlio di Pierre Murat-Jordy e di sua moglie, Jeanne Loubières. I genitori possedevano e gestivano una locanda e in contemporanea svolgevano l’incarico di amministratori dei beni della prioria del paese. Inizialmente il padre lo spinse verso la carriera ecclesiastica e fu seminarista a Cahors e a Tolosa, ma il suo carattere focoso lo allontanò dalla vita clericale: amava la bella vita, le donne, contraeva debiti e, spesso, si trovava coinvolto in risse e liti con i compagni. Abbandonò gli studi e, per non doversela vedere col padre, si arruolò nei Cacciatori delle Ardenne, passando quasi subito nel 12° reggimento dei Cacciatori a cavallo della Champagne.
Quest’ultima era un’unità di cavalleria in cerca di uomini audaci e si dimostrò la più adatta per l’animo battagliero di Joachim che, grazie al suo coraggio, divenne presto sergente. Gli anni di studio gli avevano fornito una buona cultura, ma, in qualche modo, la sua forte indisciplina offuscava l’ottima istruzione.

Mentre era di stanza nella provincia di Sélestart, si rifiutò di eseguire l’ordine di un ufficiale e il suo reggimento si rese protagonista di un episodio d’insubordinazione causato, secondo l’indagine che ne seguì, proprio da Murat, che fu deferito per aver diffuso idee filo-rivoluzionarie fra i suoi commilitoni.
In quanto principale artefice dell’evento, fu espulso e la sua carriera militare subì una drastica battuta d’arresto che lo costrinse a tornare nella città natale. Il padre, però, non gli aveva perdonato la defezione dal seminario e non lo accolse come un figliol prodigo, anzi: non lo volle proprio in casa né, tantomeno, a lavorare nella locanda di famiglia.
Joachim non ebbe altra scelta che sistemarsi nel paese limitrofo di Saint-Céré, dove iniziò a lavorare in una drogheria. La paga era misera e non gli bastava per mantenersi; decise, quindi, di fare un secondo tentativo nell’esercito, che lo riaccolse, ma senza i gradi acquisiti in precedenza.
Nel 1792 entrò nelle fila della guardia di Luigi XVI, voluta dall’Assemblea legislativa per difendere e tenere d’occhio il sovrano, con l’intenzione di offrire i suoi servigi per la causa rivoluzionaria, ma, ben presto, si rese conto che il reparto, considerato elitario, era un covo di filo-monarchici. Dopo circa un mese, il colonnello Descours notò il valore di Murat e gli offrì, dietro lauto compenso, di recarsi fuori dalla Francia per unirsi a uno dei tanti eserciti contro-rivoluzionari che si stavano formando. Joachim non si fece corrompere, rassegnò le dimissioni e denunciò l’accaduto all’Assemblea: un gesto che gli fece guadagnare la fiducia della nuova classe politica in ascesa. Con il colpo di stato del 10 agosto del 1792, la Francia divenne ufficialmente una repubblica e Joachim si distinse per la sua attiva partecipazione agli affari militari.
Le prime campagne al fianco di Napoleone
La prima fase della Rivoluzione francese si concluse il 28 luglio del 1794, con l’arresto e la condanna di Robespierre, ma le battaglie dei seguaci dell’ormai ghigliottinato Luigi XVI non cessarono. Negli eventi che portarono all’insurrezione del 13 vendemmiaio, un giovane Napoleone Bonaparte, già famoso per il suo ruolo nella riconquista della città di Tolone del 1793, risaltò fra coloro che guidarono le armate repubblicane. Al suo fianco, a eseguirne gli ordini in qualità di comandante di uno squadrone di cavalleria, vi era proprio Murat. In virtù di una fama di tutto rispetto, guadagnata a suon di vittorie, il generale corso guidò la delicatissima campagna in Italia e anche in questa Joachim lo accompagnò e si dimostrò abile nell’inseguire e braccare il nemico.
L’Austria capitolò e il trattato di Campoformio sancì il successo napoleonico. Proprio in Italia, durante un breve soggiorno al castello di Mombello, Murat incontrò per la prima volta Carolina Bonaparte, sorella del futuro imperatore, che subito s’invaghì di quel giovane audace e di bell’aspetto. Promosso a generale, nel 1798 fu nuovamente al fianco di Napoleone nella campagna d’Egitto e, quando questi l’abbandonò per tornare in Francia e sfruttare a proprio favore la crisi di potere, Murat lo sostenne nel colpo di stato del 10 novembre 1799.

Il Direttorio fu soppresso e nacque una nuova forma di governo con a capo tre consoli; uno di questi, colui che di fatto ebbe il potere maggiore, era proprio Napoleone. Ormai suo uomo di fiducia, Murat fu promosso a comandante della guardia del Primo Console e a gennaio del 1800 sposò Carolina, rafforzando ancora di più la sua posizione nell’entourage del cognato.
Da maresciallo dell’Impero a Monarca
Il rapporto fra Murat e Napoleone fu di amore e odio. L’Imperatore sapeva di poter contare su di lui, di avere al proprio fianco un uomo valoroso, sempre pronto a rischiare la vita, e ne ammirava lo sprezzo del pericolo, ma quel carattere troppo impetuoso fu causa di numerosi contrasti tra i due.
Murat era famoso per le sue capacità militari. I suoi subalterni lo considerato un leader, poteva scagliare offensive disperate, scardinare le difese e ribaltare le sorti di una battaglia, ma non possedeva l’acume e le abilità strategiche del cognato, né la freddezza di calcolo in situazioni in cui era necessaria un’attenta valutazione piuttosto che l’impeto. Un perfetto riassunto di queste sue qualità e mancanze lo fece il generale Savary che, schierato al suo fianco nella battaglia di Heilsberg del 1807, commentò così il suo comportamento avventato:
Sarebbe meglio che egli fosse dotato di meno coraggio e di un po’ più di buon senso!
Il 2 dicembre del 1804, Napoleone si incoronò sovrano dei francesi e la carriera militare di Murat ne beneficiò: divenne maresciallo dell’Impero.

In quegli anni Napoleone divenne il nemico numero uno dell’intero continente, guerreggiò con mezza Europa e insidiò le più grandi potenze. Joachim prese parte a ciascuna campagna napoleonica e in molti episodi si distinse sia in modo positivo sia negativo.
Nel 1805, ai tempi della Terza Coalizione, giunse nei pressi di Vienna con il suo contingente, che doveva attraversare il Danubio. I genieri nemici avevano minato l’ultimo ponte sopravvissuto alle schermaglie franco-austriache e Murat ideò uno stratagemma che, quando fu raccontato a Napoleone, suscitò grande ilarità: il Maresciallo diede ad intendere che era stato firmato un armistizio. Gran parte delle sue truppe palesarono un atteggiamento da bandiera bianca e attraversarono il ponte.
I soldati austriaci rimasero interdetti da quel bizzarro comportamento, credettero alla presunta pace e non innescarono le mine. Dopo aver guadagnato la riva opposta del fiume, Murat ordinò l’attacco, sopraffacendo con facilità le milizie avversarie.
Pochi mesi dopo, invece, fu vittima dell’astuzia altrui. La decisiva battaglia di Austerlitz era alle porte e la Grande Armée stava cercando di accerchiare le truppe in fuga del comandante russo Kutuzov. Nel disperato tentativo di coprirne la ritirata, il collega Wintzingerode cercò di parlamentare con Murat e gli offrì una breve tregua. Pur non avendo il permesso di portare avanti alcun negoziato senza un ordine preciso, il Maresciallo accettò e scatenò la furia dell’Imperatore, che lo rimproverò aspramente.
La morsa napoleonica perseverò nell’insidiare l’Europa e la pace di Presburgo del 26 dicembre del 1805 sancì, oltre che la disfatta della Coalizione, la fine del Sacro Romano Impero.
L’Imperatore poté ridisegnare secondo il proprio volere il frammentato mondo germanico e conferì il titolo di Granduca di Berg e Clèves a Murat, che si trasferì a Düsseldorf, la capitale del Granducato. Joachim continuò a prestare servizio nella Grande Armata, svolgendo un ruolo cruciale soprattutto nella campagna di Prussia e Polonia contro la Quarta Coalizione e nella repressione della rivolta popolare di Madrid.
Proprio dalla Spagna giunsero notizie che segnarono una svolta significativa nella sua vita.
Negli anni di dominio francese, dal 1800 al 1813, l’Italia fu riorganizzata con un assetto politico utile alle mire di Napoleone. Al nord nacque il Regno d’Italia, guidato dal viceré Eugenio di Beauharnais (figliastro di Napoleone); a sud, il Regno di Napoli vide la cacciata dei Borbone e l’incoronazione di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore dell’Imperatore. Nel frattempo, le operazioni sul suolo spagnolo portarono all’abdicazione di re Carlo IV e Napoleone affidò la corona iberica a suo fratello. Rimasto vacante, il trono partenopeo passò al cognato.
Gioacchino Napoleone, re di Napoli
Nel 1808 Murat fece il suo ingresso a Napoli e la folla lo accolse in trionfo. Sebbene si trattasse dell’ennesimo monarca straniero, il popolo non aveva dimenticato che, durante la guerra in Italia fra il 1800 e il 1801, il generale francese aveva imposto ai suoi uomini di non far del male ad alcun civile partenopeo. Fu incoronato come Gioacchino Napoleone e si fece promotore di una serie di iniziative molto significative. Avviò numerose opere pubbliche in tutto il regno, favorì la nascita della prima facoltà civile d’ingegneria, corso di studi che, all’epoca, era aperto solo ai militari, e s’impegnò a debellare il fenomeno crescente del brigantaggio. Il popolino lo amava, ma l’affetto non era unanime.

L’introduzione del Codice napoleonico, ad esempio, gli costò l’inimicizia del clero, perché prevedeva la legalizzazione del divorzio e del matrimonio civile: tutte pratiche condannate dalla chiesa, che si vedeva tagliata fuori dalle dinamiche familiari dei fedeli.
Nel 1809, a seguito della disfatta della Quinta Coalizione, Napoleone impose ai suoi stati vassalli l’adesione al blocco continentale a sfavore dell’Inghilterra. In quanto ultima grande potenza a lui ostile, era intenzionato a logorarla economicamente, ponendo un veto categorico su qualsiasi suo scambio commerciale. Seppur a malincuore, Murat accettò l’iniziativa, che procurò il malcontento dei commercianti, costretti spesso al contrabbando, un reato che il sovrano tollerò largamente.
Il legame di stima e affetto con Napoleone era sempre forte, tuttavia, in quanto sovrano, Murat ravvisò l’esigenza di regnare favorendo gli interessi dei suoi sudditi.
Per tal motivo, volle dimostrare che gli anni borbonici erano giunti al capolinea e decise di completare la liberazione dell’Italia. Dopo la deposizione, Ferdinando IV e sua moglie Maria Carolina si erano rifugiati in Sicilia. Gli inglesi presidiavano l’isola e, nel tentativo di arginare l’espansione francese, occuparono anche Capri, per la sua posizione strategica. Murat condusse lì il suo esercito e le milizie avversarie capitolarono il 17 ottobre del 1808. Cavalcò l’onda dell’entusiasmo di quel rapido successo e ordinò la prosecuzione della campagna, ma la successiva spedizione in Sicilia si rivelò fallimentare.
Le ultime campagne napoleoniche e la guerra austro-napoletana
Il Regno di Napoli godeva di una certa indipendenza, ma doveva ugualmente sottostare ai richiami di Napoleone. In virtù di ciò, nel 1812 Murat accantonò i progetti contro i Borbone e partì al fianco del cognato per combattere in Russia. Ancora una volta il suo comportamento in battaglia fu degno di nota, ma non bastò a evitare il tragico epilogo nelle gelide terre dell’est. La Grande Armata fu costretta a una disastrosa ritirata. Il 5 dicembre del 1812, l’eco di un possibile colpo di stato richiamò in patria Napoleone, che affidò a Murat ciò che restava dell’esercito. Anche lui temeva le ripercussioni della sconfitta, che contribuì a risvegliare gli animi assopiti delle potenze europee assoggettate alla Francia. Il 16 gennaio del 1813, Murat delegò il suo compito al Viceré Eugenio di Beauharnais e tornò in Italia. La supremazia napoleonica si stava sgretolando e il Re di Napoli, preoccupato per i legami dei Borbone con gli austriaci, prese i primi contatti con questi ultimi.
Dopo pochi mesi la situazione sembrò cambiare e Napoleone lo chiamò al suo fianco ancora una volta. Fra il 16 e il 19 ottobre del 1813 si consumò la grande battaglia di Lipsia, dove la Sesta Coalizione inflisse a Napoleone una pesantissima sconfitta.
La disfatta imperiale rappresentava un’insidia per la sua corona, quindi, mentre il cognato fu costretto ad abdicare e a ritirarsi all’isola d’Elba, Murat cercò un accordo per scongiurare la restaurazione borbonica. Giunse a Milano l’8 novembre del 1813 e avviò i negoziati con gli austriaci, che firmarono un trattato d’alleanza con il Regno di Napoli e garantirono di ignorare le rivendicazioni degli ex monarchi.
Napoleone, però, non voleva che la parola sconfitta fosse l’ultima della sua avventura terrena, quindi fuggì dall’esilio e si ripresentò al cospetto dell’Europa per riprendere il potere. Pur di salvaguardare i suoi personali interessi, Murat rassicurò preventivamente le corti di Vienna e di Londra: sarebbe rimasto in disparte per onorare gli accordi. D’altro canto, stando alle memorie da lui redatte durante il secondo esilio, nella remota Sant’Elena, il cognato non lo incolpò eccessivamente del voltafaccia e scrisse:
“Non credeva di farmi un gran torto separandosi da me la prima volta; perché non si sarebbe unito agli alleati. Calcolò che sarei stato obbligato a cedere l’Italia e qualche altro paese, ma non ha mai immaginato la mia intera rovina”
Il giudizio a posteriori è esatto, perché la caduta dell’Impero fornì il pretesto per portare avanti il progetto di Restaurazione: tutto doveva tornare come prima della Rivoluzione.
Nel frattempo, al Congresso di Vienna, i delegati della Coalizione discussero su come ridisegnare l’assetto del Vecchio Continente. Sebbene autorizzato a mantenere la corona di Napoli, Murat notò che le insistenze borboniche sembravano prossime a essere accolte e decise di passare all’azione, muovendo guerra agli austriaci. Le sue truppe invasero lo Stato Pontificio, posto sotto la sfera d’influenza della corte di Vienna, e da lì marciò verso il nord.
Pur avendo dato inizio alle ostilità, ribadì più volte la sua intenzione di rimanere fedele agli accordi e di mettere le armi a tacere, ma l’Austria rispose firmando un trattato di alleanza con Ferdinando. La guerra si protrasse fino a maggio del 1815, quando Murat fu definitivamente sconfitto nella battaglia di Tolentino, il cui esito sancì il ritorno al trono dei Borbone. Il generale francese non si arrese e il 12 maggio emanò il celebre proclama di Rimini per esortare gli italiani a insorgere contro lo straniero. Su consiglio dei funzionari di corte, lasciò Carolina a Napoli per trattare con gli inglesi e, nella speranza di essere richiamato nella Grande Armata, partì per la Francia.

L’ultima battaglia, l’arresto e la fucilazione
Memore del suo voltafaccia, Napoleone ignorò la richiesta del cognato e gli intimò di tenersi alla larga da Parigi. Col senno di poi, rimpianse la scelta: nella sua ultima grande battaglia gli sarebbe servita la risolutezza di un uomo come Murat, capace di lanciarsi contro i nemici anche in situazioni disperate, di un uomo “che non tornava mai senza aver tinto la sua spada con il loro sangue”.
Il 18 giugno del 1815, a Waterloo, la Settima Coalizione archiviò definitivamente l’epopea di Napoleone e l’ex monarca di Napoli, braccato dagli austriaci, si rifugiò in Corsica. Gli italiani non si erano dimenticati di lui: esortato da tutti i suoi sostenitori, organizzò un’altra spedizione contro i Borbone. Insieme a 250 uomini salpò da Ajaccio il 28 settembre e sbarcò a Pizzo Calabro l’8 ottobre.
Nei suoi piani, gli ex sudditi avrebbero dovuto accoglierlo in maniera trionfale, unendosi alla causa e ribellandosi a Ferdinando, ma non fu così. Murat commise l’ultimo dei suoi famosi errori strategici che, a differenza dei precedenti, anziché costargli un semplice richiamo, gli valse una condanna a morte. Negli anni del suo regno, la feroce repressione del brigantaggio aveva colpito duramente la Calabria, tanto che la popolazione locale gli era totalmente avversa. Il suo insignificante reggimento di poche centinaia di uomini cadde preda delle autorità. Il giudizio che Napoleone espresse a seguito della vicenda fu lapidario:
“Ha tentato di riconquistare con duecento uomini quel territorio che non era riuscito a tenere quando ne aveva a disposizione ottantamila”
Quando seppe dell’arresto, Ferdinando nominò una commissione militare incaricata di giudicarlo secondo il Codice penale da lui stesso promulgato: per i colpevoli di atti rivoluzionari era prevista la pena di morte.

L’esecuzione ebbe luogo il 13 ottobre del 1815 nel Castello Aragonese di Pizzo Calabro. Per l’ultima volta, Murat si distinse affermando:
Ho sfidato la morte troppo spesso per temerla
Impassibile anche di fronte alla sorte che stava per toccargli, con fierezza rifiutò di esser bendato.

Appena il plotone caricò le armi per eseguire la sentenza, senza scomporsi, urlò:
Risparmiate il volto, mirate al cuore. Fuoco!
Cadde esanime suscitando l’ammirazione di tutti i presenti, stupiti dal valore che aveva dimostrato fino alla fine.

Secondo alcune testimonianze, ai tempi delle prime campagne napoleoniche aveva fatto incidere sulla sua sciabola “L’orgoglio e le donne”: una frase che ben riassume ciò che è stato Gioacchino Murat.
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