Gaspara Stampa: gli amori (infelici) e la poesia di una Cortigiana Veneziana

Gaspara Stampa fu una delle grandi poetesse del ‘500, insieme alle romane Vittoria Colonna e Tullia d’Aragona, alla veneziana Veronica Franco, la bresciana Veronica Gambara e molte altre artiste che testimoniano il cambiamento, in epoca rinascimentale, della visione della donna, l’accettazione della donna colta e con una vita sociale indipendente.

Gaspara era nata in verità a Padova intorno al 1523, in una famiglia di origine milanese: figlia di Bartolomeo, orefice, che però morì prima del 1529, e di Cecilia, veneziana, che con i figli Baldassarre, Cassandra e Gaspara si trasferì a Venezia, non si sa con precisione quando, ma certamente non dopo il 1531.

Gaspara Stampa

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I tre figli furono indirizzati allo studio ed educati in modo raffinato. Gaspara, oltre ad essere molto bella, era colta, aveva studiato latino e greco, suonava il liuto, scriveva versi ed era abbastanza disinibita nel rapporti amorosi, insomma una vera cortigiana.

La cortigiana viene spesso confusa con una prostituta d’alto bordo, ma nel ‘500 era piuttosto una specie di geisha: intratteneva persone colte e famose, sapeva parlare bene, leggeva e suonava, spesso scriveva. Se la serata proseguiva con un “dopo”, né certo né tantomeno obbligatorio, erano affari suoi. Oggi forse la chiameremmo “escort” nel senso più raffinato della parola.

Il salotto degli Stampa era molto ben frequentato, un ritrovo di dotti e nobili, intrattenuti con la musica delle due sorelle. Ovvio quindi che avessero occasione di incontrare uomini ed essere corteggiate.

La prima relazione di Gaspara fu con un Andrea Gritti, non il Doge, ma comunque uno della famiglia, e secondo gli scritti e il testamento della sorella Cassandra ne ebbe due figlie, Lisabeta e Sulpizia.

Andrea Gritti e il fratello Baldassarre Stampa morirono entrambi nel 1544 e Gaspara ebbe una crisi religiosa, tanto che pensò perfino di prendere il velo.

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La poetessa si riebbe da quelle perdite e dalla dubbia vocazione ed entrò a far parte dell’Accademia dei Dubbiosi con il nome di Anassilla, pseudonimo che deriva dal nome latino del Piave (Anaxus). Una scelta forse fatta in onore di quell’uomo che le segnò e rovinò la vita, ma al quale si debbono le sue migliori poesie: il Conte Collaltino di Collalto, nato a Susegana, nel castello di S. Salvatore, e signore di un feudo attraversato appunto dal Piave.

Collaltino di Collalto

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Collaltino, nato nel castello di S. Salvatore il 22 maggio 1523, era un militare colto e raffinato, che frequentava i salotti alla moda di Venezia, dove conobbe Gaspara, non si sa esattamente quando, ma nel 1548 la loro relazione era sicuramente iniziata.

Gaspara lo descrive così :

“Chi vuol conoscer, donne, il mio signore, miri un signor di vago e dolce aspetto, giovane d’anni e vecchio d’intelletto, imagin de la gloria e del valore, di pelo biondo, e di vivo colore, di persona alta e spazioso petto e finalmente in ogni opra perfetto, fuor ch’un poco (oimè lassa!) empio in amore”

Gaspara si innamorò perdutamente, non ricambiata: per lui fu poco più di un’avventura e mai pensò a un futuro insieme, perché mirava a sposare una donna di estrazione molto più alta. Le sue frequenti campagne militari lo tenevano spesso lontano da Gaspara, che si struggeva, ben consapevole che lui non provasse lo stesso dolore nella lontananza…

“Il cor verrebbe teco, nel tuo partir, signore, s’egli fosse piú meco, poi che con gli occhi tuoi lo prese Amore. Dunque verranno teco i sospir miei, che sol mi son restati, fidi compagni e grati, e le voci e gli omei; e, se vedi mancarti la lor scorta, pensa ch’io sarò morta.”

Eppure bastava passare insieme una notte all’amato per farla sciogliere e illudere:

“O notte, a me più chiara e più beata che i più beati giorni ed i più chiari, notte degna da’ primi e da’ più rari ingegni esser, non pur da me, lodata; tu de le gioie mie sola sei stata fida ministra; tu tutti gli amari de la mia vita hai fatto dolci e cari, resomi in braccio lui che m’ha legata”.

Collalto troncò la relazione nel 1551. Gaspara ne uscì distrutta ma una successiva relazione con Bartolomeo Zen la fece nuovamente gioire e a lui dedicò i suoi ultimi sonetti. Non ci sono notizie di Bartolomeo e di questo nuovo amore, ma sicuramente non durò molto e la deluse:

“Un foco eguale al primo foco io sento (….) ma che poss’io se l’arder m’è fatale, se volontariamente andar consento d’un foco in altro e d’un in altro male?”

Erano gli ultimi anni di Gaspara, che morì il 24 aprile 1554, di febbri e un male intestinale che allora fece sospettare un suicidio col veleno. Fu sepolta nella Chiesa di San Rocco e Margherita a Venezia. Aveva solo 31 anni.

Aveva già scritto quello che pare il suo epitaffio, “Vivere ardendo e non sentire il male”: per amar troppo ed esser poco amata, visse e morì infelice.

Le sue Rime furono pubblicate dalla sorella Cassandra dopo la sua morte. Furono dedicate a Monsignor Giovanni della Casa, autore de “Il Galateo overo de’ costumi”, che conobbe ed apprezzò Gaspara nel 1550 durante il soggiorno al castello dei Collalto.

Un’edizione delle Rime del 1554

Immagine via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0

Le Rime non ebbero successo fino al ‘700, quando vennero ripubblicate e finalmente venne resa giustizia alla Gaspara poetessa.

Dura è la stella mia, maggior durezza

è quella del mio conte: egli mi sfugge,

i’ seguo lui; altri per me si strugge,

i’ non posso mirar altra bellezza.

Odio chi m’ama, ed amo chi mi sprezza:

verso chi m’è umile il mio cuor rugge,

ed umile son con chi mia speme adugge,

e a così stranio cibo ho l’alma avezza.

Egli ognor dà cagione a nuovo sdegno,

essi mi cercan dar conforto e pace:

i’ lasso questi ed a quell’un mi attegno

Così nella tua scuola amor si face

sempre il contrario di quel che è degno:

l’umil si sprezza e l’empio si compiace.

Sono passati 500 anni, eppure si ripete tanto spesso lo stesso errore: donne che si innamorano di chi non lo merita, di mascalzoni; donne che amano troppo uomini indegni, gelosi, violenti, che non le rispettano, e non riescono a staccarsene.


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