Frigyes Karinthy: lo scrittore-umorista ungherese che per primo teorizzò i “6 gradi di separazione”

L’espressione è nota più o meno a tutti, specie dopo il film omonimo del 1993: ci sono “sei gradi di separazione” tra noi e qualsiasi altra persona, ovvero, ognuno di noi, inconsapevolmente, è legato a chiunque altro attraverso una catena di conoscenze con non più di 5 intermediari.

Il fenomeno è stato studiato a livello empirico negli anni ’60, con un geniale esperimento, dal celebre psicologo Stanley Milgram, che ne ricavò la sua “teoria del mondo piccolo”; ma il campo di interessi che lo riguarda investe diverse scienze, a partire ovviamente dalla matematica.

Visualizzazione artistica dei “sei gradi di separazione”

Immagine di Laurens van Lieshout via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

Il primo ad avere questa idea, però, fu uno scrittore ungherese, Frigyes Karinthy, oggi piuttosto dimenticato, che ai suoi tempi era considerato un grande umorista. Lo stesso racconto in cui la espone, intitolato “Anelli della catena”, ha un tono sempre ironico e scanzonato. Con un po’ di fortuna, battendo il web, se ne può reperire una versione italiana in pdf, tratta dalla rivista “Medea” e accompagnata da un breve saggio della professoressa Marinella Lörinczi che, coerentemente con il principio in essa esposto, spiega anche quali siano i “gradi di separazione” tra Karinthy e Milgram.

Frigyes Karinthy, 1930 circa

Frigyes Karinthy è una figura di intellettuale novecentesco estremamente affascinante, come del resto molti suoi contemporanei usciti da quel crogiolo di tendenze folli e geniali che fu l’Impero Austroungarico nei decenni precedenti alla sua dissoluzione; deve la sua fama, almeno presso i più appassionati di letteratura, non tanto ad “Anelli della catena” quanto a un libro autobiografico davvero unico nel suo genere, intitolato “Viaggio intorno al mio cranio”.

In uno scritto autobiografico, Enzo Biagi ricordò come, durante la sua giovinezza, tra gli italiani istruiti andasse di moda leggere soprattutto “romanzi ungheresi”. In primo luogo, quelli di Ferenc Körmendi e di Lajos Zilahy, ma anche quelli di Karinthy, come si può vedere dalla quantità di vecchie edizioni in vendita oggi presso i librai antiquari. Per il lettore contemporaneo è però difficile rendersi conto di quali importanti centri culturali potessero essere città come Praga o Budapest prima della Shoah, che spazzò via non solo gli ebrei (e l’Ungheria perse in questo modo, giovanissimi, due dei suoi scrittori più prolifici e originali, Antal Szerb e Jenö Reitö) ma anche gli antinazisti. Le dittature filosovietiche successive fecero il resto.

Ritratto di Frigyes Karinthy – József Rippl-Rónai, 1925

La Budapest di Karinthy è una città aperta e cosmopolita, e lo scrittore è uno dei suoi principali animatori. Nato nella capitale il 25 giugno 1887 in una famiglia borghese di buone tradizioni culturali, rimase presto orfano di madre e, dopo un complesso percorso di studi (passò per almeno tre diverse facoltà universitarie, senza mai laurearsi ma mettendo insieme una vasta preparazione in diversi campi molto distanti tra loro, come la matematica, la medicina, la letteratura, la fisica e la filosofia), si diede al giornalismo. A quel tempo, la letteratura ungherese era dominata da autori che si prendevano molto sul serio e, pur stimandoli molto (uno di essi, il poeta Deszö Kosztolányi, fu sempre uno dei suoi migliori amici), Karinthy si mise a parodiarli in modo esilarante, ottenendo un grande successo di pubblico. Presto si ritrovò a essere uno degli scrittori ungheresi più letti.

La sua vita privata passò tra alti e bassi: nel 1913 sposò l’attrice Etel Judik, che aveva due anni più di lui. Il matrimonio, allietato dalla nascita del figlio Gabor (che sarebbe diventato un apprezzato poeta nonostante soffrisse di disturbi psicotici), fu felice, ma non durò a lungo, perché Etel morì nell’ottobre del 1918 di febbre spagnola.

Etel Judik

Due anni dopo, Karinthy si risposò con una studentessa in medicina, la ventisettenne Aranka Böhm. Anche da questo matrimonio avrebbe avuto un figlio, Ferenc, pure destinato ad una notevole carriera artistica come drammaturgo. Il matrimonio con Aranka, però, non sarebbe stato felice, ma segnato da una forte conflittualità, aggravata dal fatto che i due sperperavano i loro guadagni senza pensare al domani. La loro vita in comune, per certi versi, ricorda una soap opera. Aranka, che era già stata l’amante del poeta Endre Ady prima di conoscere Karinthy, avrebbe poi tradito il marito con un amico dello stesso, un altro importante scrittore, Tibor Déry. Lo stesso Karinthy, che era a conoscenza della relazione ma non sembrava darle molta importanza, non se ne sarebbe rimasto con le mani in mano, visto che Aranka, a un certo punto, tentò (e quasi riuscì anche a metterlo in atto) il suicidio durante un attacco di gelosia.

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Frigyes Karinthy con il figlio Ferenc

Ma Aranka, che nel 1932 aveva finalmente terminato gli studi di Medicina ed era andata a specializzarsi in Psichiatria a Vienna, avrebbe rivestito un ruolo molto importante nella vicenda che Karinthy racconta in “Viaggio intorno al mio cranio”.

È una vicenda che prende l’avvio nella primavera del 1936, quando, mentre sta tranquillamente seduto a scrivere al tavolino fuori del suo caffè preferito di Budapest, Karinthy si rende conto di sentir passare dei treni vicinissimi anche se, in realtà, si trova molto distante dalla stazione.

Dopo qualche giorno, si accorge anche che la sua vista è bruscamente calata. Intanto, va soggetto a capogiri e a inspiegabili dolori di testa. I medici che consulta gli dicono che deve smettere di fumare. Aranka, che sta ancora studiando per specializzarsi a Vienna, sentendolo per telefono, gli suggerisce di raggiungerla nella sua clinica e di farsi fare una serie di controlli. I controlli danno esiti dubbi. Karinthy ha il sospetto di avere un tumore al cervello ma Aranka gli risponde che non ne presenta i segni caratteristici: vomito a digiuno, emorragie retiniche, papilla da stasi (congestione dei vasi sanguigni del fondo dell’occhio).

Nei giorni successivi, tornato a Budapest, Karinthy comincia ad avere conati di vomito in continuazione, e visite successive stabiliscono la presenza sia delle emorragie retiniche sia della papilla da stasi. Non ci sono più dubbi su quale possa essere il suo problema.

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A questo punto, comincia una nuova serie di pellegrinaggi da un chirurgo all’altro per trovare chi potrebbe eventualmente operarlo. In realtà, sembra che in Ungheria non possa farlo nessuno. L’unico che si fa sotto è un giovane medico che dichiara di aver inventato un sistema per svuotare le cisti dal liquido che contengono (le radiografie fanno pensare che il tumore di Karinthy sia una cisti o sia chiuso dentro una cisti). Karinthy si fa spiegare con quale tecnica, poi chiede consiglio a un altro medico più esperto, dal quale ottiene una risposta ben precisa: se si sottoponesse alla tecnica dell’intraprendente collega, morirebbe all’istante.

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Intanto, si accorge che i giornali parlano di lui come se fosse già morto o in procinto di morire.

La situazione, specie per la vista, peggiora di giorno in giorno. Fortunatamente Karinthy ha molti amici influenti, tra cui diversi medici, che progettano di portarlo a operarsi dal massimo specialista di chirurgia cranica, l’americano Harvey William Cushing. C’è però l’inconveniente che Cushing sta nel Massachusetts e che Karinthy, nelle sue condizioni, non sopravviverebbe al lungo viaggio cui dovrebbe sottoporsi.

A ogni buon conto, gli amici di Karinthy contattano ugualmente Cushing, che risponde subito, e molto gentilmente: non c’è bisogno di sottoporre il paziente a un tale sforzo, lì vicino a loro (certamente più dell’America), a Stoccolma, opera il migliore dei suoi allievi, Herbert Axel Olivecrona. Cushing lo giudica pari a se stesso.

È un po’ complicato arrivare a Olivecrona e il tempo stringe: ormai quello a disposizione di Karinthy, secondo l’opinione degli specialisti, è agli sgoccioli. Fortunatamente, nella clinica di Vienna dove studia Aranka, c’è un professore che conosce il chirurgo svedese. Munito dei suoi esami di laboratorio e di una lettera di raccomandazione, accompagnato dalla moglie, Karinthy sale sul primo treno diretto a Nord. Il viaggio, attraverso Germania e Danimarca, è piuttosto tortuoso, ma in pochi giorni sono in Svezia: Olivecrona, avvertito, ha già accettato di ricoverarlo.

Però il chirurgo non si fida degli esami fatti altrove e Karinthy passa i primi giorni a rifarseli daccapo. Poi arriva finalmente il giorno dell’operazione.

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Olivecrona opera sul cervello, ossia su un organo che non ha terminazioni nervose, quindi non ha sensibilità. E le tecniche di anestesia non sono così sicure come diventeranno dopo: specie dopo un intervento del genere, c’è il rischio che il paziente non si risvegli.

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Olivecrona opera pazienti svegli, appena un po’ sedati.

Infatti, durante l’operazione, Karinthy sente tutto. Un’anestesia locale gli impedisce di soffrire quando gli assistenti gli scoperchiano il cranio dopo averlo trapanato, ma sente tutto il rumore degli strumenti e vede intorno a sé i camici imbrattati di sangue che si muovono.

Herbert Axel Olivecrona

Olivecrona è un tipo molto flemmatico, nel tempo libero grande giocatore di golf e di bridge, ma ai tumori non fa sconti: poco prima di Karinthy ha operato una ragazza di 20 anni per la quale le radiografie non mostravano la localizzazione del male. Ha aperto dove gli sembrava probabile in base alla sintomatologia e non ha trovato nulla; allora si è preso una pausa, è andato a fumarsi una sigaretta, poi è tornato in sala operatoria, ha aperto in un altro punto, stavolta ha trovato il tumore e lo ha estirpato. Secondo Aranka, cui è stato permesso di assistere all’intervento, la paziente si riprenderà perfettamente.

Il tumore di Karinthy è un angioma (oggi si chiamerebbe cavernoma), ossia un tumore benigno costituto da un intrico di vasi sanguigni cresciuti in maniera disordinata: oltre a comprimere il cervelletto, l’area della vista e quella di udito ed equilibrio, rischia di provocare massicce emorragie. La posizione rende la sua rimozione molto complicata: non è esagerato affermare che, a quel tempo, si avessero buone speranze di sopravvivere solo mettendosi in mano a Cushing o a Olivecrona. Poi, grazie anche alle loro numerose innovazioni (entrambi sperimentano nuove tecniche e progettano nuovi strumenti), è diventato un intervento alla portata di qualunque bravo neurochirurgo.

Nel momento in cui Olivecrona gli incide il cervello, Karinthy comincia ad avere delle allucinazioni che proseguiranno anche durante il periodo post-operatorio, trascorso in una specie di dormiveglia. Infatti, quando finalmente si riprende, nella sua stanza, è convinto che siano passate almeno due settimane dall’intervento, mentre non sono trascorse neanche 12 ore.

Come spesso avviene, poiché Olivecrona ha dovuto tagliargli le meningi per arrivare al cervello, il tessuto di queste si infiamma e gli viene una meningite. Ma, poiché è stata rispettata la migliore antisepsi durante l’intervento, non ci sono state infezioni e basta tenere sotto controllo la febbre per qualche giorno, prima di stare meglio. Se si fosse infettato, sarebbe stato un problema serio, perché i primi antibiotici sono entrati in uso solo 5 anni dopo, al massimo si poteva contare sui sulfamidici, decisamente meno efficaci.

In un tempo sorprendentemente breve, Karinthy si riprende. Anche i danni alla vista che sono stati messi in conto dato che Olivecrona ha dovuto tagliare in vicinanza di quell’area, non si presentano. Karinthy dovrà intraprendere una riabilitazione di alcuni mesi, ma clinicamente è perfettamente guarito. Ne approfitta per incontrare dei parenti che aveva in Norvegia e non vedeva da decenni e per fare il suo primo viaggio in nave, tornando a casa via mare in modo da passare per la Gran Bretagna.

Il libro, scritto durante la convalescenza, si chiude in un tono ottimista che stempera l’impressione del fosco humour nero dei primi capitoli.

Purtroppo Karinthy non sa, e forse nemmeno Olivecrona se ne è già reso conto, che gli angiomi al cervello possono recidivare. Fino al 1938, quindi per poco più di due anni, le cose vanno bene, Karinthy si gode pure il successo del libro. Poi, basta un attimo. È il 29 agosto 1938 e Karinthy sta in vacanza sul lago Balaton insieme alla famiglia. Stavolta il male non si preannuncia: arriva sotto forma di un ictus e se lo porta via prima che possano soccorrerlo.

La moglie Aranka gli sopravvive meno di 6 anni. È ebrea e, nell’Europa di quel tempo, una tale condizione è più rischiosa di qualunque malattia. Morirà infatti ad Auschwitz nel luglio del 1944.

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