Sembra un caso unico nel proprio genere, in Italia, quello del campo di concentramento di Ferramonti, in Calabria, durante la deportazione degli Ebrei e di varie minoranze ad opera dell’Italia durante il contesto della Seconda Guerra Mondiale.
Era il maggio 1940 quando una commissione formata dal prefetto, dall’ingegnere capo del Genio Civile e dal medico provinciale, in seguito a un sopralluogo degli edifici da adibire alla deportazione dei cittadini ebrei deliberò che i due demani più adatti per la deportazione fossero quello comunale di Ferramonti, nella zona di Tarsia, in provincia di Cosenza, e quello comunale di Montalbano, in provincia di Matera.
Benito Mussolini, tra i due, scelse Ferramonti
“Il 30 maggio 1940 i lavori per la costruzione del campo vengono affidati alla ditta Parrini di Roma, che già eseguiva lavori di bonifica proprio in quella zona”, ci racconta Francesco Folino nel suo libro “Ebrei destinazione Calabria”, proseguendo nella sua descrizione: “La contrada di Ferramonti era nota come zona insalubre e malarica. L’isolamento e la mancanza di buone strade la rendevano, comunque, adatta a luogo di soggiorno coatto di una numerosa colonia di deportati”.
Foto di bambini di Ferramonti di Tarsia (fondo Kalk – Cdec)
Il 4 giugno 1940 iniziarono ufficialmente i lavori di costruzione, seguendo quello che era il protocollo previsto per tutti i campi di lavoro: filo spinato, capannoni con enormi camerate, un ufficio direttivo, la mensa per il personale e così via. Già dalla progettazione della struttura, però, erano state previste, tra le varie cose, un’infermeria, una dispensa di viveri e una fontana con acqua potabile, ricavata da una sorgente nei pressi del campo. Non vi era traccia di forni crematori o camere a gas, un particolare che rende Ferramonti di Tarsia completamente diverso dai campi di concentramento e sterminio tipici dell’Europa centrale.
Tutto questo perché, oggettivamente, il campo di Ferramonti si trovava nel profondo Sud di un’Italia in estrema difficoltà, già provata com’era dalla guerra e dai conflitti militari in periodo fascista e la sovrintendenza tedesca, sul territorio calabrese, era per lo più inesistente, mentre molto forte era la solidarietà dei cittadini del posto, preoccupati di quello che sarebbe stato lo sviluppo delle vicende future.
Come ci spiega Folino nel suo meticoloso lavoro, “Prima dello scoppio della guerra e, quindi, prima dell’applicazione delle leggi razziali, era nata un’organizzazione ebraica, la Delegazione assistenza emigranti (Delasem)”. Quest’ultima, “tollerata dal regime fascista per lo svolgimento di un’opera esclusivamente assistenziale”, nacque il primo dicembre 1939 e costituì il maggiore esempio di resistenza ebraica fino al 1947: chiunque avesse intenzione di fuggire in America, per poter scampare alle deportazioni, veniva aiutato nello sbrigare le pratiche per il soggiorno, il visto o il rinnovo del passaporto; chiunque avesse smarrito i suoi familiari veniva aiutato nelle ricerche; i bagagli e il materiale smarrito dai cittadini ebrei durante le deportazioni dei campi venivano, per quanto possibile, fatti recapitare ai destinatari.
Anche a Ferramonti, la Delasem, che aveva una fitta rete di collaboratori inviati dalle sedi di Roma e di Genova, non solo nel contesto ebraico ma anche tra poliziotti, medici, partigiani e comuni cittadini, riuscì ad operare a favore degli internati, soprattutto per intervento di Dante Almansi, co-fondatore della Delegazione. Vennero così inviati ai cittadini gli indumenti necessari alla sopravvivenza, dal momento che ormai erano ridotti a vivere di pezze e, anche quando, nel dicembre 1942, il Ministero dell’Interno decise di sospendere l’accettazione di prodotti postali in alcune province, tra cui quelle di Cosenza e di Catanzaro, la Delasem insistette affinché il materiale in suo possesso giungesse comunque ai destinatari, che altrimenti sarebbero morti di freddo.
Gli ebrei di Ferramonti, inoltre, poterono godere di alcuni libri di preghiera che Riccardo Pacifici, rabbino capo di Genova, aveva procurato loro, affinché non perdessero la quotidiana ritualità. I dati che ci riporta Folino a tal proposito sono sensazionali: “Il rabbino Pacifici, sempre disponibile a favorire le richieste di ordine religioso, dietro le sollecitazioni degli internati di Ferramonti si reca nel campo anche il 27 ottobre successivo, celebra 21 matrimoni e ne ratifica 4, officiati dal rabbino Otto Deutsch il 20 ottobre precedente. Gli ebrei di Ferramonti, perciò, grazie alla Delasem, celebrano matrimoni e i loro bambini ricevono la circoncisione”. In quale altro luogo di deportazione sarebbe mai stato possibile celebrare matrimoni o nascite e circoncisioni di bambini, o ricevere cure mediche per merito di medicinali spediti dalla Delegazione? In aggiunta a ciò, vennero allestiti dei veri e propri cimiteri nei pressi di Tarsia, dove seppellire gli ebrei defunti in seguito a complicanze di salute, molti dei quali provenienti dall’ospedale di Cosenza. Parecchi degli studenti rinchiusi nel campo ricevettero le licenze per sostenere gli esami scolastici e universitari, nonostante la frequenza ai corsi fosse a loro proibita dalle Leggi Razziali italiane. Nessun internato fu mai spedito nei campi di sterminio di Auschwitz, così com’era previsto in una seconda fase della loro deportazione, e questa scelta fu merito delle autorità calabresi, che ignorarono ogni sollecito da parte dei generali tedeschi.
A morire, nel campo di Ferramonti, di morte violenta, furono in definitiva solo quattro persone, vittime accidentali di uno scontro aereo tra un caccia alleato e un velivolo tedesco. Nel campo di lavoro, la vita era ormai talmente piacevole da ricordare quella dei ghetti ebraici prima degli sgomberi e della presa per fame: si ballava e si scrivevano canzoni, che ancor oggi, durante la celebrazione della giornata della memoria, vengono riprodotte da noti cantanti come Peppe Servillo, artista italiano che ha approfondito la storia dei jazzisti e compositori internati a Ferramonti.
Sotto, il campo di Ferramonti nel 1942:
Il 14 settembre 1943, primo fra tutti, il campo nell’area di Tarsia venne sgomberato. Solo qualche giorno prima della liberazione, a precedere l’arrivo delle truppe britanniche, però, era stato l’esercito tedesco che, in ritirata dalla Sicilia verso l’Italia continentale, aveva tentato di fare irruzione nell’area di Ferramonti. Venne così issata una bandiera gialla e fu inviato, a dialogare con i tedeschi, il frate cappuccino del campo di Ferramonti, il francese Callisto Lopinot, da sempre impegnato nel far arrivare gli aiuti umanitari e nel fornire sostegno morale agli internati. Lopinot persuase l’esercito a non addentrarsi nel campo, dove era in atto un’epidemia di tifo, che fu realmente inscenata da tutti i presenti, che fecero finta di essere in fin di vita o già morti. I tedeschi, impauriti da una tale minaccia, andarono via, evitando così un ulteriore massacro.
La vicenda di Ferramonti è ancor oggi considerata una parte importante della storia di quella regione d’Italia, tanto da aver ispirato anche la produzione di corti e di un documentario, dal titolo “Ferramonti, il campo sospeso”, del regista cosentino Cristian Calabretta, che ha deciso di offrire una ricostruzione di quelli che furono i giorni dell’internamento nel campo, attraverso documenti, testimonianze ed un ritorno sui luoghi della memoria. Del campo di Ferramonti ha parlato anche il film di Gabriella Gabrielli “18.000 Giorni Fa”.
Sotto, il servizio da “Sorgente di Vita” del 2013: