All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il giovane polacco Eugeniusz Sławomir Łazowski, appena laureato in medicina, probabilmente era felice di iniziare ad esercitare la sua professione, ma non poteva certo immaginare che il suo contributo avrebbe salvato migliaia di persone – 8.000 polacchi – durante il conflitto che cambiò per sempre il corso della storia.
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Allo scoppio della guerra, Łazowski fu arruolato come tenente medico nell’esercito polacco, per operare su un treno-ospedale della Croce Rossa. Fu fatto prigioniero dai tedeschi e internato in un campo per prigionieri di guerra, ma riuscì a scappare scalando il muro di recinzione e prendendo a “prestito” un cavallo lasciato incustodito. Łazowski tornò a casa sua, a Rozwadów, dove di fatto iniziò a combattere la sua “guerra privata” contro gli occupanti nazisti.
Rozwadów
La sua casa era adiacente alla recinzione che divideva la città dal ghetto ebraico, dove le precarie e malsane condizioni di vita favorivano il dilagare di molte malattie. Nessun medico era però autorizzato a curare gli ebrei; Łazowski aggirò il divieto con un semplice sistema di comunicazione: quando qualcuno nel ghetto si ammalava legava uno straccio nella recinzione, così durante la notte il dottore sarebbe entrato per fornire cure e medicine. Per evitare che i nazisti si accorgessero della sua attività clandestina Łazowski gonfiava sui registri la quantità di farmaci usati per i suoi pazienti non ebrei.
Ghetto di Radom – Polonia – Circa 1940
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Nel frattempo, il dottor Stanislaw Matulewicz, concittadino, ma anche amico e collega di Łazowski, aveva fatto una scoperta interessante: iniettando batteri inattivi di tifo in una persona sana questa non avrebbe contratto la malattia né mostrato alcun sintomo, ma un campione del suo sangue sarebbe risultato positivo al test. I due medici compresero che quella scoperta avrebbe consentito loro di salvare molte persone, giocando sui timori di contagio che angosciavano i nazisti, dopo che il tifo aveva ucciso molti soldati in trincea, durante la Prima Guerra Mondiale.
Le autorità tedesche in Polonia avevano ordinato a tutti i medici di segnalare i casi sospetti e conclamati di tifo, inviando campioni di sangue ai laboratori controllati dai nazisti, dove sarebbero stati sottoposti agli appositi test. I polacchi ammalati venivano messi in quarantena, e quindi non inviati nei campi di lavoro, ma gli ebrei venivano immediatamente giustiziati tramite fucilazione. Alla fine della guerra i due medici scrissero: “Quando molti casi venivano segnalati da una stessa zona, l’autorità sanitaria tedesca la dichiarava un’area epidemica. Questa situazione ha prodotto molti vantaggi per la gente perché i tedeschi erano inclini ad evitare tali territori e la popolazione era relativamente al riparo dalle atrocità”.
Ghetto di Łodz – marzo 1940
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Matulewicz imparò ad effettuare da solo i test per il tifo, per cercare di mantenere segreti i casi di contagio tra gli ebrei, e allo stesso tempo capì che una persona a cui erano stati iniettati batteri inattivi avrebbe prodotto gli stessi anticorpi di un vero malato, dando così un risultato falso-positivo al test. “Era chiaro che questi falsi-positivi potevano essere utilizzati come una forma di difesa dalle politiche del governo di occupazione tedesco”, spiegò in seguito Łazowski.
Utilizzando i risultati dei test si poteva far credere ai nazisti che a Rozwadów e nei dintorni fosse in corso un’epidemia di tifo
Matulewicz testò la sua scoperta su un conoscente, che come altre migliaia di polacchi era stato inviato in un campo di lavoro tedesco. L’uomo aveva ottenuto un permesso di due settimane da trascorrere a casa, ed era disperato al pensiero di dover ritornare al campo. Non poteva fuggire perché sapeva che, per ritorsione, la sua famiglia sarebbe stata internata in un campo di concentramento, praticamente una condanna a morte. L’alternativa era il suicidio, oppure contrarre una grave malattia, attestata da un medico. L’uomo accettò di farsi iniettare i batteri inattivi di tifo, poi un campione di sangue fu inviato ai laboratori tedeschi, che lo dichiararono positivo al test:
La “cavia” non dovette tornare al campo di lavoro
Iniziò così una serie di “vaccinazioni fittizie” che risparmiarono molte persone dalla prigionia dei nazisti.
Ebrei polacchi condotti al lavoro forzato dai soldati nazisti Settembre 1939
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Łazowski, sapendo bene quanto grande fosse il timore dei tedeschi per questa malattia, che come abbiamo detto prima ne aveva uccisi moltissimi durante la Prima Guerra Mondiale, studiò un piano per diffondere una falsa epidemia di tifo in Polonia; poteva così evitare che i nazisti li facessero prigionieri, preferendo tenerli isolati.
I due medici lavorarono in segreto, non informando nemmeno i loro pazienti del trattamento cui li sottoponevano; rivelarono la loro impresa solo nel 1977, in una lettera inviata alla Società americana per la Microbiologia.
Uno scorcio di Rozwadów oggi
Fotografia di Krzysztof Dobrzański condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia:
Per non insospettire troppo i tedeschi mandavano molti pazienti già “vaccinati” da altri medici, che si occupavano di consegnare i campioni ai laboratori nazisti.
I due medici in seguito scrissero: “Presto il numero di casi segnalati era sufficientemente grande per far dichiarare la zona (circa una dozzina di villaggi) un’area epidemica, con relativa libertà dall’oppressione”. Con tutta l’area in quarantena anche il ghetto ebraico divenne off-limits per i tedeschi, peraltro sicuri che la malattia avrebbe sterminato i confinati al loro posto.
Łazowski aveva vinto la sua “guerra personale” contro gli invasori tedeschi, rischiando la vita. Ma verso la fine del conflitto i nazisti divennero sospettosi, perché nell’area epidemica poche persone morivano di tifo. Łazowski, che già in precedenza era riuscito ad ingannare una delegazione di medici tedeschi venuti a controllare (portandoli in una stanza sporchissima, dove erano riuniti falsi malati ancora più sporchi, a cui i nazisti non vollero avvicinarsi), fu messo in allarme da un soldato tedesco, che aveva precedentemente aiutato, e riuscì a scappare a Varsavia con la famiglia.
Per inciso, nemmeno le mogli dei due medici sapevano che l’epidemia di tifo era falsa. Łazowski decise di svelare quel segreto a sua moglie solo nel 1958, dopo che si erano trasferiti negli Stati Uniti (ancora temeva ritorsioni!). Stranamente la donna non sembrò troppo sorpresa, e un motivo c’era: sapeva bene che il marito collaborava con la resistenza polacca, perché anche lei ne aveva fatto parte, prima dell’inizio della guerra, tanto da aver scambiato diversi messaggi segreti con il marito all’insaputa l’uno dell’altra…
Senza mai “combattere con una pistola o una spada”, Łazowski aveva comunque ottenuto un risultato considerevole: nel corso di tre anni molti ebrei polacchi si rifugiarono a Rozwadów, dove non correvano il rischio di essere scoperti dai tedeschi, e molti polacchi non furono inviati ai campi di lavoro. In tutto furono circa 8.000 le persone che si salvarono grazie ai falsi batteri del tifo. Negli Stati Uniti Łazowski, che era diventato professore in pediatria all’Università Statale dell’Illinois, scrisse anche un libro di memorie, intitolato “La mia guerra privata”, e fu dichiarato “Giusto tra le Nazioni” dallo stato di Israele.
Come molte altre persone che avevano messo a rischio la propria vita durante il nazismo, per salvare quelle di altri innocenti, Łazowski tendeva a minimizzare il proprio operato: l’unica volta che tornò in Polonia (a 87 anni), dove fu accolto come un eroe, disse:
“Stavo solo cercando di fare qualcosa per la mia gente. La mia professione è salvare vite e prevenire la morte. Combattevo per la vita”.