Il 13 giugno 1946, alle 15:40, Umberto II di Savoia lasciò il Quirinale per dirigersi all’aeroporto di Ciampino. Qui salì su un aereo che lo avrebbe portato lontano dall’Italia, destinazione Portogallo.
L’ultimo Re del Regno d’Italia non sapeva che non avrebbe rimesso più piede nel Paese. Pensava, infatti, si trattasse di un allontanamento temporaneo, com’era stato per altri regnanti europei, che dopo un breve esilio avevano fatto poi ritorno nei rispettivi paesi. Non poteva immaginare che nel 1947 sarebbe stato pubblicato un articolo della Costituzione che recitava: “I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno sul territorio nazionale“.
Famiglia reale italiana nel 1908, dipinto di Petar Lubarda a Cetinje durante la visita di stato del Re d’Italia e Regina di Montenegro. Da sinistra: principessa Yolanda; Regina Elena, principessa del Montenegro con la principessa Giovanna; La principessa Mafalda, Il principe Umberto e il Re Vittorio Emanuele III:
Fotografia di National museum of Montenegro condivisa via Wikipedia con licenza CC BY-SA 3.0
Così Umberto II partiva in Portogallo, dopo 2 anni di luogotenenza, dal 5 giugno 1944 in un’Italia ancora divisa e in piena guerra civile, e appena un mese di regno (per la rapidissima parentesi passerà alla storia come il Re di maggio). La casa Savoia non era mai stata fascista, ma le colpe del padre Vittorio Emanuele III furono di essere stato un leone con le pecore e una pecora con i leoni. Vittorio Emanuele III peccò di egocentrismo, di scarsa stima per il figlio, tenuto fermamente lontano dalla politica e dalle decisioni del regno, e pagò il rifiuto ad abdicare fino a quando non fu costretto a farlo, ed era già troppo tardi.
Il figlio Umberto, la pecora della situazione, pagò gli errori del padre e il suo profondo rispetto per la volontà del re
Era quasi sempre stato contrario alle decisioni fondamentali del re, eppure le aveva accettate e mai aveva pronunciato o scritto parole contro il suo regale genitore. Cercò sempre di giustificarlo in qualche modo, di assolverlo, lo si evince dalle pagine dei diari di Galeazzo Ciano col quale aveva frequenti incontri. Avrebbe voluto rientrare subito a Roma, dopo la vergognosa fuga verso sud dei Savoia successiva all’armistizio di Cassibile, ma non gli fu permesso.
Il 18 marzo 1946 Umberto firmò il decreto che indiceva il referendum istituzionale per il 2 giugno seguente; mancava però ancora l’abdicazione del re in carica, che in quel momento risiedeva a Posillipo, inacidito e in veste di vittima. Enrico De Nicola gli aveva ricordato, inutilmente, che “quando un re perde una guerra, deve andarsene”. All’abdicazione, di fatti, Vittorio Emanuele III non ci pensava affatto fino a quando, il 9 maggio 1946, il figlio Umberto si recò personalmente dal padre riuscendo nell’impresa di fargli firmare l’abdicazione. Mancava meno di un mese al referendum.
Le indiscrezioni davano la vittoria della Repubblica, ma in quella primavera del 1946 erano ancora migliaia gli sfollati che non poterono rientrare presso la loro residenza per esprimere il voto; così come non poterono votare molti militari ex prigionieri e gli italiani della Venezia Giulia e dell’Alto Adige perché ancora non entrate nella sovranità italiana. Si stimarono in 3 milioni circa le persone che non ebbero la possibilità di votare. Il risultato sarebbe stato probabilmente uguale, ma ciò non toglie che il voot non rispecchiò la totalità degli italiani. La Repubblica vinse con il 54,3% e 12,7 milioni di voti, e la monarchia (45,7% e 10,7 milioni di voti) che non perse così nettamente com’era stato previsto. Quasi 1,5 furono i voti nulli.
Umberto II si reca alle urne per il referendum Monarchia Repubblica
Fotografia di Anonimo – foto d’epoca di Pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Da aggiungere, inoltre, che Umberto II si era impegnato a ripetere il referendum dopo qualche tempo in caso di vittoria della monarchia, per permettere a tutti gli italiani di esprimersi. La trionfante repubblica non fece altrettanto. Alla divulgazione dei risultati Vittorio Emanuele III, riparato in Egitto, sostenne che se ci fosse stato ancora lui sul trono il risultato sarebbe stato ben diverso per i Savoia.
Umberto II accettò il risultato, anche se ci furono contestazioni per le molte schede bianche e nulle, in alcuni casi semplicemente sparite. La Cassazione doveva esprimersi a riguardo il 18 giugno e Umberto aveva deciso di aspettare la sentenza, solo per questione di forma. Non gli fu permesso. I disordini, soprattutto a Napoli e Taranto in favore della monarchia e al nord per la repubblica, dove i partigiani minacciavano addirittura di riprendere le armi, spinsero i vincitori al colpo di mano e a nominare Alcide De Gasperi capo di stato provvisorio.
13 giugno 1946, il re Umberto II mentre sale sull’aeroplano che lo condurrà da Ciampino in Portogallo.
Fotografia di sconosciuto di Pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Umberto a questo punto preferì accelerare la partenza, senza aspettare il 18 giugno, per evitare ulteriori disordini. Arrivò a Sintra, presso la Vila Bela Vista, vecchia residenza estiva degli ex sovrani del Portogallo, dove lo aspettavano la moglie Maria José con i figli. La villa, disabitata dal 1910, era in condizioni pietose, tanto che i primi giorni vissero al lume di candela.
Nell’agosto 1947 Umberto e Maria José si separarono di comune accordo, e la ex regina si trasferì definitivamente a Ginevra insieme al figlio Vittorio Emanuele. Le tre figlie, Maria Pia, Maria Gabriella e Maria Beatrice, restarono invece con il padre e insieme si trasferirono a Villa Italia a Cascais, distretto di Lisbona.
Alla morte del padre, il 28 dicembre 1947 ad Alessandria d’Egitto, Umberto II si recò in Egitto.
Impiegò tre giorni perché gli fu anche vietato di sorvolare il territorio italiano
Dal suo esilio portoghese, Umberto leggeva molto e seguiva le vicende italiane con il massimo interesse. Lo aggiornavano sulle vicende italiane Falcone Lucifero, suo unico rappresentante in Italia, e le migliaia di italiani che lo andavano a trovare. Li riceveva tutti, sempre gentile come sua abitudine. Non si trattava di udienze, ma di incontri quasi familiari. L’ultimo sovrano d’Italia viaggiava moltissimo, aveva varie amicizie, andava a teatro, a messa e due volte l’anno in pellegrinaggio a Fatima. Era benvoluto dalla gente del posto e non solo per gli aiuti economici che spesso gli chiedevano e che lui non rifiutava, ma per la sua semplicità. Era tranquillo, sorridente e all’apparenza sereno anche se, chi lo conosceva bene, vedeva in lui un tormento interiore.
L’esilio era per lui un dolore incolmabile
Cascais, Portogallo
Fotografia di TeeFarm condivisa via Pixabay
I figli, poi, gli riservarono non poche amarezze e preoccupazioni, sempre in prima pagina sui giornali scandalistici. Maria Pia sposò nel 1955 il principe Alessandro Karageorgevic, figlio dell’ex re Paolo di Jugoslavia, separandosene nel 1967.
Maria Gabriella, dopo aver rifiutato le proposte matrimoniali di Juan Carlos di Spagna e dello scià di Persia Reza Pahlavi, nel 1957 raggiunse la madre a Ginevra. Dopo una quasi certa relazione con l’armatore greco Stavros Niarchos, nel 1969 sposò l’imprenditore Robert Zellinger de Balkany. Anche loro in seguito divorziarono.
Maria Beatrice, ultima figlia degli ex sovrani, nel 1963 andò in Inghilterra con uno dei suoi tanti amori e non tornò più a Cascais. Nel 1967 ebbe una storia con Maurizio Arena, famosa così come quella col torero Valencio durante la quale Titti (così veniva chiamata la ragazza), in preda all’alcol si sparò un colpo di pistola che non lese organi vitali. Umberto le tagliò i viveri e Titti due anni dopo si buttò dal terzo piano di un appartamento di Ginevra, atterrando provvidenzialmente su una tenda e salvandosi ancora una volta. Il padre la convinse a disintossicarsi e nel 1970 sposò Luis Reyna Corvalán y Dillon. Anni dopo anche lei divorziò.
Vittorio Emanuele, l’unico figlio maschio, nel 1971 sposò Marina Doria, non nobile. Il matrimonio fu fortemente avversato da Umberto che non diede mai il suo assenso e sul quale si fondò la pretesa al trono del Duca d’Aosta. Pure Vittorio Emanuele approdò sulle prime pagine dei quotidiani con la tragedia dell’Isola del Cavallo in Corsica (1978), quando, dopo una furibonda lite con il medico Niky Pende, sparò un colpo di fucile (o partì un colpo durante la colluttazione) che beccò un ragazzo tedesco, Dirk Hamer, che dormiva in una barca vicina agli yacht dei due contendenti e che morì in seguito alla ferita da proiettile. Vittorio Emanuele se la cavò e fu prosciolto dall’accusa di omicidio dal tribunale francese.
La famiglia reale italiana in visita a papa Pio XII (1946)
Fotografia di The gambler – Own work condivisa via Wikipedia con licenza CC BY-SA 4.0
Nel 1964 cominciarono per Umberto II i problemi di salute. Fu operato all’intestino per sospetta neoplasia. L’operazione riuscì ma il tumore si diffuse al midollo e alle ossa, costringendolo a diciannove anni di continui interventi (il tumore data l’età progrediva lentamente) che si rivelarono un calvario.
Nel 1982 le condizioni dell’ex re erano molto serie. Umberto volle incontrare papa Giovanni Paolo II durante la sua visita in Portogallo (14 maggio 1982). Gli confidò il suo desiderio di morire in Italia e lo pregò di intercedere.
Dal 1981 si discuteva dell’eventuale rientro in Italia dei Savoia viventi, ci si interrogava se fosse giusta la condanna all’esilio perpetuo e se si potesse far rientrare Umberto. Gli italiani erano favorevoli e anche le parti politiche, tranne gli esponenti più a sinistra. Ma cambiare la Costituzione era una faccenda che richiedeva molto tempo, e Umberto era ormai alla fine della sua vita.
Lo stesso presidente Sandro Pertini si interessò della cosa, vennero studiate possibili soluzioni, il rientro per un pellegrinaggio in Vaticano, una sospensione temporanea dell’articolo della Costituzione, un visto di ingresso speciale. Le idee furono tante, ma le azioni nessuna. La proposta di legge era impantanata in Parlamento e il figlio Vittorio Emanuele stava pensando di rivolgersi al tribunale dei diritti umani di Strasburgo, dove gli avrebbero sicuramente dato ragione.
Il tempo per Umberto stringeva e nel febbraio 1983, contro il suo parere, fu trasferito a Ginevra. Nei primi giorni parve esserci un miglioramento finché le condizioni non peggiorarono. Il 16 marzo, in fin di vita, volle tutta la famiglia riunita per l’ultimo saluto. Arrivarono tutti. Lui parlava solo dell’Italia e di Pertini che sarebbe riuscito a trovare una soluzione; dentro sé ancora sperava in un estremo ritorno a casa.
Re Umberto II
Fotografia di Library of Kingdom of Italy – Library of Kingdom of Italy condivisa via Wikipedia con licenza CC0
Il 18 marzo 1983, alle ore 15,30, Umberto II di Savoia morì a Ginevra, lontano dall’Italia
Il 24 marzo il corpo del Re di maggio fu portato all’abbazia di Altacomba, nella Savoia francese, per il funerale e la sepoltura. Nonostante la presenza di migliaia di persone, per le quali si dovette organizzare un servizio navetta, e dei regnanti ed ex regnanti di tutta Europa, la RAI non trasmise il suo funerale. Soltanto sei mesi prima aveva trasmesso in diretta quello di Grace Kelly, principessa consorte di Monaco.
Il 27 ottobre 2002 fu pubblicata sulla Gazzetta ufficiale la legge 1/2002 del Presidente Carlo Azeglio Ciampi che faceva cadere il divieto di rientro in Italia per la famiglia Savoia.