Emily Dickinson: Amore ed Epilessia oltre il cliché della Poetessa Reclusa

Le mitologie post mortem, che rendono una persona reale un brand in grado di far vendere un prodotto ad essa associato, sono sempre elaborate prendendo dalla sua vita solo qualcosa che può eccitare la fantasia del pubblico e poi esibendolo come se non ci fosse stato altro.

Ciò vale tanto più facilmente per gli artisti, che rappresentano prodotti non facili da vendere, dato che, come diceva Oscar Wilde, “tutta l’arte è perfettamente inutile” ed è difficile realizzare profitti sulle loro spoglie utilizzando i metodi tradizionali di persuasione del cliente. Non resta altro che sedurre il potenziale acquirente facendogli balenare la possibilità di trovare in questa inutile arte qualcuna di quelle emozioni forti che di solito la vita reale gli nega: e, allora, vai di cliché in cliché, dal “poeta maledetto” dominato da una smania di autodistruzione al musicista che solo strafatto di droghe raggiunge l’estasi necessaria a elevarsi oltre la mediocrità, dall’attore tormentato che vive solo sulla scena tramite i suoi personaggi all’intellettuale dai pensieri talmente elevati che nessuno arriva ad afferrare il senso dei suoi libri, neanche se li legge dieci volte, solo per citare i più abusati.

Ragione per cui tutte le immagini pubbliche postume di artisti famosi o sono state già drasticamente rivedute dai biografi seri o lo saranno in futuro, a meno che gli artisti stessi non vengano dimenticati prima. Il risultato di queste necessarie operazioni culturali è quasi sempre una biografia appassionante ma abbastanza ponderosa da scoraggiare la maggior parte dei lettori, per cui solo un’élite di veri intenditori finisce per apprezzare la vera dimensione umana dei soggetti trattati, mentre tutto il resto continua a prendere sul serio il trito cliché di sempre.

A questa regola del nostro mondo non sfuggono neppure i poeti, anzi si può dire che i poeti ne siano particolarmente vittime, dato che vendere poesia è sempre molto difficile, basta guardare le classifiche di Amazon per giungere alla tristissima conclusione che, se non fosse obbligatorio leggere qualche autore per ragioni scolastiche, in Italia nessuno leggerebbe poesie (chi scrive ha pubblicato tempo fa una raccolta di poesie cui è bastato vendere tre copie, tre di numero, per entrare nella top 100 della categoria). E certe mitologie, una volta consolidate, sono difficilissime da smontare.

Per decenni, chiunque si sia avvicinato alla figura di Emily Dickinson, la più importante voce poetica americana del XIX secolo, si è visto sbattere davanti un cliché che sembrava uscito da qualche classico hollywoodiano tipo “Via col vento” o “Piccole donne”. La giovane donna pia e repressa che, in seguito a una delusione amorosa, si rinchiudeva in una volontaria detenzione domestica e, tutta vestita di bianco, passava le giornate a scrivere versi enigmatici, non destinati alla pubblicazione ma poi scoperti postumi. Una figura isolata nella sua bizzarria, del tutto estranea al mondo culturale, di pochissime letture (La Bibbia, Shakespeare e Milton). Un animo talmente ipersensibile che bastavano un rumore o un odore troppo forte per farle perdere conoscenza. Come a dire che qualunque zitella un po’ tocca potrebbe nascondere un insospettato talento poetico e, quasi quasi, anche che la poesia è roba per persone che non sanno affrontare la realtà.

Sotto, Dagherrotipo di Emily Dickinson all’inizio del 1847:

Fortunatamente, le poesie di Emily Dickinson sono talmente originali e dotate di una tale potenza espressiva, nonostante il loro linguaggio rarefatto e gli enigmi che spesso sembrano nascondere, che nel tempo molti studiosi si sono innamorati del suo talento e hanno deciso di scavare più a fondo nella storia del personaggio. A occuparsene sono state specialmente le studiose di sesso femminile, proprio perché Emily rappresenta un esempio quasi incredibile di donna che, in una società completamente patriarcale, esclusa da ogni decisione o autonomia, trova ugualmente il modo di far sentire la propria voce, con tanta forza e chiarezza da sopravvivere anche alla fama degli uomini cui era sottoposta, oggi ricordati solo perché hanno avuto a che fare con lei.

I bambini Dickinson (Emily è a sinistra), nel 1840:

Allora, a partire dagli anni ’70, il femminismo si dedica a lei e si impegna a diffonderla, intanto che scava nel suo oscuro privato. Già introducendo l’edizione popolare Newton Compton (che si poteva comprare tranquillamente in edicola a un prezzo molto contenuto) di una raccolta di sue poesie, la scrittrice Ginevra Bompiani si domanda quanto ci sia di vero nell’immagine di lei che viene regolarmente proposta. Successivamente, dedicandole un saggio che analizza soprattutto il possibile significato delle sue immagini poetiche, la studiosa Barbara Lanati conclude che la sensualità nascosta dietro certe inquietanti simbologie è in aperto contrasto con il cliché ufficiale. Più tardi ancora, un’altra studiosa, Marisa Bulgheroni, va a scrivere il suo saggio addirittura nella città in cui Emily ha trascorso tutta la sua vita, Amherst, nel Massachusetts, entrando e uscendo dai luoghi e dagli edifici che hanno ospitato i suoi anni, fortunatamente rimasti inalterati dopo oltre un secolo, e le resta l’impressione che sulla figura di Emily ci siano ancora troppe cose non dette.

Nel settembre 2012, gli Amherst College Archives e Special Collections hanno svelato questo dagherrotipo, proponendolo come ritraente la Dickinson e la sua amica Kate Scott Turner nel 1859 circa:

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Studiare Emily e la sua opera non è facile, per una ragione che spiegheremo meglio più avanti e che ha fatto sì che la sua opera fosse proposta a brandelli. Ogni tanto salta ancora fuori qualcosa di nuovo. Una scoperta importante è stata quella del suo epistolario (curato nell’edizione italiana dalla Lanati), forse in parte mutilato dalla famiglia, ma dai contenuti abbastanza chiari da delineare una figura molto diversa da quella del cliché. Dichiarazioni di ateismo (una cosa veramente rivoluzionaria in una comunità di bacchettoni come quella di Amherst), appassionate missive sentimentali a quello che appare quasi con certezza un amante, riferimenti solidissimi alla cultura del tempo.

La Emily che scrive le lettere è una donna che appartiene quasi più al XX secolo che a quello in cui è vissuto

Ma chi era, veramente, Emily Dickinson? La più recente e documentata biografia, “Come un fucile carico” di Lyndall Gordon, scritta dopo aver consultato una quantità di nuovi documenti riemersi, ce la racconta così.

Nella prima metà del XIX secolo, i Dickinson sono una famiglia benestante, molto in vista ad Amherst. Uno di essi, Edward, nato nel 1803, un uomo religioso e operoso ma molto ambizioso (sarà avvocato e poi anche deputato al Congresso), sposa la pia e remissiva Emily Norcross, pure di buona famiglia. Nel 1829 nasce Austin, il 10 dicembre 1830 nasce Emily, nel 1833 nasce Lavinia. Non ci saranno altri figli, anche per la salute cagionevole della madre, ma tutti e tre arriveranno all’età adulta. Nessuno dei tre è una figura banale: al di là del talento di Emily, Austin sarà avvocato e politico come il padre, Lavinia sarà una originale zitella come la sorella, geniale nella sua perenne immaturità.

Sotto, Lavinia Dickinson:

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Emily, da giovane, è una bravissima studentessa, che ambisce a intraprendere una carriera di insegnante in uno dei tanti collegi per ragazze di buona famiglia, prima di fare un buon matrimonio. Riesce particolarmente bene nelle materie scientifiche e infatti progetta di proseguire gli studi in quel campo. Ma, mentre si sta preparando a entrare nell’università, succede qualcosa che cambia tutto. Ufficialmente si parla di una malattia agli occhi (sarà visitata da un celebre oftalmologo di Boston), che la costringe a rientrare a casa dopo solo pochi mesi di collegio. In alcune lettere, poi, scriverà che l’atmosfera bigotta del collegio e l’obbligo di sottoscrivere delle dichiarazioni di fede religiosa per superare gli esami le hanno fatto passare la voglia di andare avanti. Tuttavia, sembra esserci dell’altro.

La casa dei Dickinson:

Fonte immagine: Daderot via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

Lyndall Gordon, nelle sue ricerche, si imbatte in una circostanza mai notata prima dagli studiosi. Nella famiglia Dickinson non sono rari i casi di epilessia. Un cugino di Emily, Zebina Montague, nato nel 1810, ha dovuto lasciare gli studi universitari per colpa di questa malattia e trascorrerà tutta la vita praticamente recluso in casa ad Amherst (muore nel 1881). Uno dei nipoti di Emily, Ned, primogenito di Austin, ne soffrirà durante la breve vita (1861-98). E questi sono i casi noti, perché Emily ne parla nelle sue lettere. Saltano fuori anche delle ricette mediche a nome di Emily, contenenti preparazioni farmaceutiche che a quel tempo si usavano, tra l’altro, anche per combattere l’epilessia. Sempre a quel tempo, si era soliti far vestire gli epilettici di bianco, perché durante le crisi potevano sporcarsi molto e gli abiti bianchi erano più facili da lavare. Uno dei sintomi che preannunciano le crisi epilettiche sono particolari disturbi visivi, gli scotomi. Se tre indizi fanno una prova, ne abbiamo addirittura quattro:

E’ l’epilessia la spiegazione della volontaria reclusione domestica di Emily

Ciò non toglie che, forse, Emily si innamorò veramente di qualcuno quando era ragazza. Nelle sue lettere cita due figure maschili che avrebbero esercitato una grande influenza su di lei, il professore Leonard Humphrey, che divenne giovanissimo il direttore della scuola da lei frequentata, e l’avvocato Benjamin Franklin Newton, per un certo periodo praticante nello studio di Edward Dickinson. Entrambi sono destinati a una fine molto precoce: Humphrey, nato nel 1824, muore nel 1850 e lei annuncia brevemente in una dolente lettera a un’amica “Il mio maestro è andato a dormire”. Ben Newton, nato nel 1821, ha con lei un rapporto ancora più profondo, di amicizia ma forse anche oltre, ed è un peccato che non resti nulla della corrispondenza tra i due. Tuttavia, scopertosi tubercolotico, lascia Amherst per una località più salubre e, con grande delusione di Emily, sposa una donna molto più grande di lui che accetta di fare da infermiera a un uomo infermo. Muore ugualmente, nel 1853.

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Il vero grande amore della giovinezza di Emily, lo sappiamo perché le sono dedicate molte poesie di quel periodo, è però Susan Gilbert, una ragazza nata nel suo stesso anno (1830) di modeste origini (una famiglia benestante andata in rovina) e dalla condotta irreprensibile, che i Dickinson quasi adottano, tenendo in casa loro sin dall’adolescenza. La natura dell’amore di Emily per Susan ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, ma è un dato di fatto che la poetessa si impegni soprattutto a convincere il fratello Austin a sposarla. L’idea è condivisa da tutta la famiglia e, dopo un po’ di titubanze, Austin (un ragazzo prestante, intelligente, autorevole, considerato per tutta la vita l’uomo più affascinante di Amherst) accetta. Dal matrimonio nasceranno tre figli, ma non sarà un’unione felice.

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Emily fa vita quasi esclusivamente domestica (ma non da reclusa, visto che la casa di Austin e Susan è adiacente a quella dei genitori Dickinson, separata appena da un giardino, e lei va spessissimo a trovarli) ma non è certo isolata dal mondo. Legge avidamente i tanti giornali che il padre porta in casa (le lettere sono piene di riferimenti ad attualità e politica) e, non potendo recarsi personalmente in libreria, ordina una miriade di libri scrivendo direttamente agli editori. Legge centinaia di opere dei suoi contemporanei, soprattutto quelle di scrittrici inglesi come George Eliot, Elizabeth Gaskell o le sorelle Bronte, per le quali ha una vera adorazione. Una delle sue ultime letture, tanto anelata (ha tempestato gli editori di lettere per averla, nonostante le sofferenze della malattia che la condurrà alla morte), è una biografia di Emily Bronte. Conosce tutti i principali intellettuali americani del tempo, ha letto tutto di loro.

Altro che solo la Bibbia, Shakespeare e Milton!

Le poesie che scrive fin da ragazza inizialmente circolano solo per Amherst. La sua fama cresce, però, grazie al fatto che Susan e Austin tengono in casa propria una sorta di salotto letterario, come si usava a quel tempo. Emily non partecipa (stare in mezzo alla gente, al centro dell’attenzione, la terrorizza, e ora sappiamo anche perché) ma le sue poesie sono lette, copiate, diffuse. Qualche giornale locale si azzarda a pubblicarne qualcuna, che non sfugge agli occhi degli addetti ai lavori. Emily tuttavia si arrabbia a vederle stampate, non perché non abbia dato il permesso, ma perché prima di uscire sono state sconvolte. Questo inconveniente la perseguiterà per tutta la vita: anche quando amici intellettuali influenti le procureranno contatti con editori importanti, i contratti di pubblicazione non si concretizzeranno mai per la sua resistenza a far manomettere i testi da redattori intenzionati a renderli più appetibili per il pubblico.

Sotto, William Austin Dickinson nel 1850:

Infatti, Emily scrive in un modo mai visto prima, pressoché privo di punteggiatura. I suoi versi hanno già un proprio ritmo interiore (questa caratteristica li ha sempre resi una sfida difficile e avvincente per i traduttori) e non necessitano di altro se non di rapidi tagli operati tramite delle lineette orizzontali. Purtroppo i tempi di e.e.cummings o di Jack Kerouac sono lontanissimi e inimmaginabili: nella mentalità del tempo, una poesia così proposta è illeggibile. Anche quando usciranno postume, nelle prime edizioni, le poesie saranno pesantemente manomesse, per poi essere riproposte nella forma originaria solo in seguito.

La sua fama cresce fino a portarle in casa, come visitatori (con alcuni dei quali avrà strette amicizie, segnate da fitte corrispondenze), alcuni dei più noti intellettuali del tempo: il predicatore Charles Wadsworth, il giornalista Samuel Bowles, il politico Thomas Higginson, paladino dell’abolizione della schiavitù, la scrittrice di romanzi besteller Helen Hunt Jackson (che si impegnerà, inutilmente, per mediare tra Emily e gli editori in modo da arrivare finalmente alla pubblicazione dei versi).

Sotto, Thomas Higginson:

Dopo la morte del padre, nel 1874, per Emily e Lavina si aggiunge la responsabilità di badare alla madre sempre più invalida, che durerà per 8 anni. Ma, intanto, è successo un fatto nuovo, che sconvolgerà le loro vite.

Austin, che è tesoriere della Amhest Academy, il college locale, e prende tutte le decisioni relative a questo, ha assunto come docente di matematica un giovane e ambizioso astronomo, David Todd. Questi è un ottimo scienziato e un altrettanto valido docente, ma anche un incallito donnaiolo. La moglie di Todd, Mabel Loomis, è una ragazza di origini modeste, che sfoga i suoi complessi di inferiorità sociale facendo l’intellettuale alla moda. Chiude un occhio sui tradimenti del marito purché lui le garantisca una vita agiata. Tra Austin e David Todd si stabilisce un rapporto padre-figlio (tra i due ci sono 26 anni di differenza) e Mabel diventa assidua frequentatrice della casa dell’affascinante, maturo avvocato. Talmente assidua che, a un certo punto, Susan la prende in odio e la mette al bando.

Nel 1883 si consuma una terribile tragedia. Il figlio minore di Austin e Susan, Gilbert, un piccolo genietto di otto anni, si ammala improvvisamente di tifo e muore in pochi giorni. Sarà una botta spaventosa anche per Emily, che va a visitarlo mentre è in agonia e, tornando a casa, ha una terribile crisi che la lascerà a lungo invalida. Per Austin, che stravedeva per il bambino, è un dolore che apparentemente la moglie non capisce: Susan è una bigotta fredda e dura, che sicuramente ama i figli ma lo dimostra il meno possibile. Al contrario, Mabel Loomis è tenera e comprensiva, con lei Austin può anche lasciarsi andare al pianto, senza essere per questo considerato un uomo senza spina dorsale. Austin e Mabel diventano amanti, con la tacita approvazione di David, che è coerente nella sua mentalità da libertino e, inoltre, da quel momento farà una carriera ancora più brillante e otterrà ogni sorta di finanziamenti grazie all’appoggio incondizionato di Austin.

La storia andrà avanti fino alla morte improvvisa di Austin nell’estate del 1895. Mabel lascerà una quantità di lettere e diari in cui si augura che Susan muoia il prima possibile, lasciando Austin libero di sposarla dopo aver divorziato da David, e a volte sembra addirittura progettare ipotetici e ingenui “delitti perfetti” per togliere da mezzo la rivale senza lasciare tracce. Purtroppo per lei, Susan sopravviverà per 18 anni al marito. In compenso, riuscirà a diventare in qualche modo intima di Emily, soprattutto perché Austin sfrutta la disponibilità della grande casa dei genitori per incontrarla senza dare adito a pettegolezzi in città. L’erede è lui, le sorelle nubili sono solo sue ospiti. Gli piaccia o no, Emily e Lavinia devono reggergli il moccolo. Emily, ancora fedele a Susan, si rifiuta di incontrare l’intrusa, che non vedrà mai dal vivo (anche se poi racconterà sempre il contrario). Però Mabel la blandisce con una tale insistenza che, per togliersela da torno, Emily accetta di regalarle molti suoi scritti, che le fa recapitare dai domestici.

La situazione familiare si è complicata ulteriormente perché qualcuno è entrato anche nella vita di Emily. Si chiama Otis Lord, è un anziano vedovo, un magistrato nato nel 1812, amico di Edward Dickinson. Lord è un uomo colto e gentile che condivide gli interessi della poetessa e accetta tutte le sue stranezze con un pizzico di umorismo (ad esempio, poiché lei mangia poco ed è molto magra, la soprannomina “Jumbo” come l’elefante del circo che ha visitato Amherst). Più tardi, salteranno fuori pettegolezzi sui due sorpresi ad amoreggiare su un divano, ma la cosa certa è che Lord le presenta una vera proposta di matrimonio ed Emily prende tempo. Purtroppo, sfinito da un impegnativo processo, Lord ha un collasso e muore improvvisamente nella primavera del 1884: da questo dolore, Emily non si riprenderà più. Due mesi dopo ha una crisi in seguito alla quale resterà definitivamente invalida.

Sotto, Otis Lord:

Muore due anni dopo, il 15 maggio 1886, di una malattia renale (i referti parlano di “morbo di Bright”, che però all’epoca era una sorta di calderone in cui finivano quelle che oggi sono riconosciute come affezioni diverse). È una fine molto dolorosa, che Emily affronta lucidamente, al punto da annunciarla, subito prima di sprofondare nel coma, in un biglietto alle amate cugine Frances e Louisa Norcross, con cui ha scambiato lettere per tutta la vita: “Cuginette, Richiamata. Emily”. “Richiamata” (“Called back”) è il titolo di un bestseller del periodo, uscito nel 1883, firmato Hugh Conway (pseudonimo di Frederick John Fargus): l’ultimo libro da lei letto.

Fino a che è in vita Austin, si parlerà delle poesie di Emily ma ne usciranno poche, in edizioni di qualità discutibile. Dopo il 1895, si scatenerà, invece, la guerra di successione tra le sue due vedove di Austin, visto che sia Susan sia Mabel rivendicano il ruolo, e sarà combattuta anche a colpi di pubblicazione di inediti di Emily, o direttamente in possesso delle due, o ottenuti (generalmente con l’inganno) dall’ingenua Lavinia. Le due si affronteranno anche una serie di sequestri di edizioni di libri di poesie di Emily (che sono puntualmente dei bestseller, a quel tempo la poesia si leggeva molto) e soprattutto in una complessa, durissima causa legale, nel 1897-98. A farne le spese sarà soprattutto l’innocente figlio epilettico di Austin e Susan, il sensibile Ned che Emily amava moltissimo. Si innamora di una ragazza, Alix Hill, che lo ricambia: ma, agli occhi della madre, Alix ha l’atroce torto di aver lavorato a un’edizione delle poesie di Emily per conto di Mabel. La dura opposizione della madre fa naufragare il fidanzamento. Subito dopo, a Ned tocca assistere allo spettacolo dei suoi familiari (Susan e Lavina in primis) che si scannano in tribunale. Il suo cuore fragile (soffriva di angina dopo aver avuto la scarlattina da bambino) non regge e ha un attacco che lo porterà a morire, nel maggio del 1898, dopo due settimane di sofferenze.

Copertina della prima edizione di “Poems”, pubblicata nel 1890:

Dopo la morte di Susan, nel 1913, sarà la figlia superstite, Martha Dickinson, a raccogliere il testimone della lotta all’odiata Mabel. Quando questa muore a sua volta, nel 1932, la faida prosegue perché anche questo testimone viene raccolto dalla figlia di Mabel e David, Millicent Todd. Le due donne continuano a scrivere libri per affermare la legittimità delle pretese delle proprie madri nel dichiararsi vere eredi di Emily Dickinson. Tra gli scritti di Susan, quelli di Mabel, quelli di Martha e quelli di Millicent, è difficilissimo distinguere il vero dall’esagerato e dall’inventato, mentre il materiale originale in loro possesso viene veramente centellinato all’attenzione degli studiosi. La scomparsa di Martha nel 1943 e quella di Millicent nel 1968 raffreddano un po’ la contesa. Nessuna delle due lascia eredi diretti e la seconda, pur avendo avuto molto tempo più tempo a disposizione per esprimere le proprie posizioni senza alcun cotraddittorio, a un certo punto si è dedicata ad altro (è stata una scienziata di un certo livello, pioniera dell’ambientalismo americano). A occuparsi di Emily sono sempre più studiosi qualificati e disinteressati, grazie ai quali possiamo finalmente scoprire la realtà di una figura straordinaria sotto ogni aspetto.


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