“Andarsene lontano/ con il nostro macinino/
una pizza e un po’ di vino/io e te/ che bello la domenica…”
Chiunque sia stato bambino alla metà degli anni ’70, difficilmente ha dimenticato la canzone di Domenico Modugno che inizia con questi versi. Era la sigla finale di una effimera trasmissione di varietà trasmessa di domenica pomeriggio (dovrebbe essere “Insieme, facendo finta di niente”, condotta da Maurizio Costanzo), poi fu pubblicata su 45 giri come lato B di “Il maestro di violino”, tutto nel 1976. È una canzone che racconta con parole semplici e immagini vivide l’essenza delle domeniche di una volta, quando eravamo più poveri ma anche più felici, e quindi ci sembra di essere stati più ricchi.
A chi conosce (o ricorda) solo il XXI secolo può sembrare che il XX sia distante anni luce e, in confronto, chi conserva ricordi nitidi di allora, fa la figura di un alieno che non proviene da un altro mondo, ma da un altro tempo.
Domenico Modugno al Festival di Sanremo del 1959
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Nel 1976 la vita in Occidente era molto diversa da quella condotta nei non molti decenni di pace che il XX secolo aveva lasciato. La diffusione dei segni del benessere (come l’automobile o gli elettrodomestici) seguita agli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, con gli effetti del Piano Marshall e degli altri investimenti per la ricostruzione dell’Europa, aveva cambiato nettamente la quotidianità di quasi tutte le persone comuni.
Non ne aveva cambiato, invece, la percezione della realtà e le aspettative. Per quanto possa sembrare incredibile, se andiamo a leggere le memorie di chi è vissuto negli anni ’20 e negli anni ’30, spesso non sono molto diverse da quelle di chi è vissuto mezzo secolo dopo. Sì, c’era l’influenza della cultura importata dall’America, la sensazione (non per tutti, ma solo per quelli che stavano più attenti) di vivere in quello che Marshall MacLuhan aveva chiamato il “villaggio globale” dalle comunicazioni rapidissime, ma anche delle notizie rapidamente superate. Ma, per il resto, non si ragionava molto diversamente.
Dovremmo sempre tenerlo presente, quando ripensiamo alla sofferenza e agli orrori che dovettero patire moltissime persone comuni negli anni delle due guerre mondiali, “li sospiri e li lamenti de la gente che se scanna per un matto che comanna” della “Ninna Nanna de la guerra” di Trilussa. Perché tutto ciò che accadde riguardò gente come noi, che viveva le cose esattamente come le avremmo vissute noi.
Tank americani passano vicino al Colosseo – 1944
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Uno scrittore olandese, Simon Kuper, appassionato di calcio, di Storia e del quartiere ebraico di Amsterdam, lo Jodenbuurt, dopo aver visto un filmato sulla vita in quell’area, risalente agli anni ’30, restò colpito dalla povertà degli abitanti, al punto da pensare a “una Calcutta fredda”. Successive ricerche sui documenti rimasti e le interviste dei sopravvissuti alla Shoah, gli diedero invece un quadro molto diverso della realtà.
Jodenbuurt ad Amsterdam, 1889 – dipinto di Eduard Alexander Hilverdink
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Gli ebrei di Amsterdam erano poveri, ma ingegnosi. E sfruttavano, per migliorare la propria situazione, anche le novità più moderne. Ad esempio, il campionato di calcio. Che in Olanda, benché il professionismo sia stato introdotto solo nel 1954, era già seguitissimo negli anni ’20.
Gli ebrei di Amsterdam erano troppo poveri per potersi permettere delle squadre di calcio importanti, ma il ghetto si trovava a soli 3 km dal campo su cui la principale squadra di Amsterdam, l’Ajax, si allenava e giocava le sue partite.
Per ragioni che non sono state mai del tutto comprese, la dirigenza dell’Ajax ha sempre negato di avere avuto un qualsiasi legame con lo Jodenbuurt: invece Kuper – sull’argomento ha scritto un bel libro: “Ajax, la squadra del ghetto”- sostiene che la comunità ebraica, prima della Shoah, rappresentò una componente importantissima della sua tifoseria.
Het Houten Stadion, prima sede dell’Ajax – 1917/18 circa
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Le partite di campionato si giocavano di domenica, che per gli ebrei è un normale giorno lavorativo. I tifosi della squadre ospiti dell’Ajax scendevano dal treno alla stazione di Weesperpoot, il cui piazzale ospitava già le bancarelle di molti venditori ambulanti ebrei; per raggiungere il campo da gioco dovevano attraversare lo Jodenbuurt, dove trovavano tutti i negozi aperti. Per i commercianti del ghetto, le partite dell’Ajax erano dunque un’occasione di grandi affari.
Quando i tifosi si erano avviati verso il campo, molti ebrei del ghetto li raggiungevano, su un tram a vapore che partiva ogni mezz’ora e veniva chiamato “Il killer di ‘t Gooi” per la facilità con cui andava soggetto a guasti e incidenti sulla linea.
Judenstraße ad Amsterdam, di Max Liebermann – 1906

La passione dello Jodenbuurt per l’Ajax era rafforzata dal fatto che, per quasi tutti gli anni ’20, il capitano della squadra fu l’unico giocatore ebreo in organico. Era un ragazzo nato a New York da immigrati olandesi, nel 1902, ed era tornato in Olanda per giocare a calcio in un campionato vero, dato che negli USA il “soccer” era considerato uno sport di serie B. Edward Hamel, detto Eddy, era un’ala destra veloce del genere di Stanley Matthews, abile nel cross e nell’assist, ma poco portato alla conclusione, tanto che il suo curriculum parla di soli 8 gol segnati in 125 partite disputate. Era un trascinatore in campo, un uomo-spogliatoio nel pre e nel post partita e gli ebrei dello Jodenbuurt erano particolarmente fieri di lui, anche se la sua condizione economica relativamente benestante gli permetteva di vivere in un quartiere signorile anziché nel ghetto.
Edward Hamel
Immagine via Wikipedia – Giusto uso
La conclusione degli incontri non significava la fine degli affari per gli abitanti dello Jodenbuurt. Un sigaraio di nome Swaap, attraverso un complicato giro di telefonate, riusciva a conoscere tutti i risultati della giornata di campionato, come in un primitivo “Tutto il calcio minuto per minuto”. Naturalmente, li rivelava solo ai clienti, altrimenti non sarebbe rientrato nell’investimento. Più tardi, quando si era raccolta una piccola folla intorno al negozio, mandava qualche addetto fuori a scrivere i risultati su una lavagna.
A questo punto, gli ingegnosi abitanti dello Jodenbuurt erano pronti per il colpo finale. Entro sera, da una delle tipografie del ghetto, usciva quello che forse è il primo giornale sportivo della Storia, il “Cetem” (“Risultato”), con i resoconti di tutte le partite e, in particolare, di quella dell’Ajax. Inutile dire che le copie del “Cetem” andavano a ruba.
Il “Cetem” si trasformò poi in un normale settimanale illustrato (nel quale, comunque, le notizie sportive trovavano sempre spazio) e non si sa che fine abbia fatto durante la guerra e la Shoah, perché ne sono rimaste poche copie in giro, l’ultima datata 19 marzo 1944, quando l’Ajax pareggiò 3-3 con il Rotterdam. Dopo la guerra riprese le pubblicazioni con una redazione non più di ebrei e cambiò il nome in “Zondagavondblad” (“ll giornale della domenica sera”), ma chiuse nel 1950.
Alcuni superstiti della Shoah presenti al fatto ricordano che, nel 1938, subito dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, una squadra viennese, l’Admira, si recò ad Amsterdam per giocare un incontro con l’Ajax. I viennesi si presentarono con il saluto nazista e lo stadio li sommerse di fischi. In segno di protesta, diversi spettatori se ne andarono prima che cominciasse l’incontro. Non erano tutti ebrei. Forse tra loro c’erano alcuni degli operai e impiegati che nel febbraio 1941 avrebbero sostenuto un giorno e mezzo di sciopero per protestare contro le deportazioni degli ebrei: un caso unico nel panorama europeo del periodo.
Truppe tedesche entrano ad Amsterdam – 1940

Ciò che accadde dopo l’invasione tedesca, all’Olanda e ai suoi ebrei, è stato ampiamente raccontato. Non tutti gli olandesi ebbero lo stesso coraggio degli scioperanti di febbraio, anzi (è sempre Kuper a ricordarlo), il numero di collaborazionisti fu vergognosamente alto e finì per annoverare anche figure di rilievo della cultura, come il musicista Jonny Heyckens, celebre autore di canzoni e commedie musicali (oltre a una “Serenata” che ha grande successo ancora oggi) che, subito dopo la guerra, fu arrestato e morì in carcere a 60 anni, nel 1945.
Jonny Heyckens nel 1932
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Tra le tante vittime della Shoah in Olanda, c’è anche Eddy Hamel, il ragazzo americano che trascinava i compagni alla vittoria ed era l’idolo del ghetto. Hamel, finita precocemente la carriera per un infortunio, era diventato allenatore delle squadre giovanili dell’Ajax. Come cittadino americano, avrebbe dovuto essere risparmiato, ma i nazisti non andavano tanto per il sottile. Un suo amico, Leon Greenman, divise il suo destino fin quasi alla fine. Anche Greenman avrebbe dovuto essere risparmiato, perché in possesso di doppia cittadinanza, inglese e olandese. Anche lui fu catturato con la famiglia, come Hamel, nell’ottobre del 1942. I due furono poi deportati a Birkenau, separati dalle loro famiglie, nel gennaio del 1943. Eddy Hamel resistette fino al mese di aprile del 1943. A tradirlo fu un dente cariato. Si formò un ascesso alla bocca e questo bastò, nonostante fosse un uomo ancora forte, a farlo selezionare per la camera a gas. Greenman sopravvisse e, una volta liberato, scoprì che sua moglie e il figlio di due anni, insieme alla moglie di Hamel e ai loro due gemelli di cinque anni, erano stati uccisi tutti ad Auschwitz nel febbraio del 1943.
Un altro giocatore olandese ebreo, Meijer Stad dello Xerxes di Rotterdam, nato nel 1919, riuscì a sopravvivere miracolosamente alla deportazione e a una strage. Dopo essere stato per diversi mesi al lavoro coatto in una miniera di sale, durante gli ultimi giorni di guerra fu caricato con i suoi compagni su un treno merci e portato in aperta campagna. Qui, le SS aprirono i vagoni, fecero uscire i prigionieri e si misero a sparare all’impazzata su di loro. Stad, nonostante dieci ferite, non morì. Aveva perso conoscenza ed era stato dato per morto ma le donne (anche loro prigioniere) incaricate di portare i cadaveri al vicino lager di Buchenwald, per distruggerli nell’inceneritore, si accorsero che era ancora vivo e, con un coraggio prossimo all’incoscienza, lo trasportarono all’infermeria del lager. Qui, un altro prigioniero, un francese che era stato docente universitario di chirurgia, gli estrasse le pallottole dal corpo con un coltellino, senza anestesia e in condizioni igieniche terribili. Stad sopravvisse ugualmente.