Secondo quanto affermava il discusso medico e antropologo Cesare Lombroso, la “donna delinquente” predilige commettere l’omicidio tramite avvelenamento. Questo metodo, secondo uno dei pionieri della moderna criminologia, metteva in risalto la predisposizione alla premeditazione del delitto, spinto da motivi passionali nella maggior parte dei casi. Le donne compenserebbero la minore fisicità e inclinazione alla violenza bruta con un approccio più distaccato nelle modalità, ma vissuto più intensamente.
Sotto, Cesare Lombroso:
Quelle che per i moderni criminologi sarebbero segni di una maggiore intelligenza di fondo (ricerca del veleno, preparazione, attesa, probabilità di successo, autocontrollo), per Lombroso, figlio della sua epoca, erano sintomi della netta inferiorità femminile (come affermava in “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale” nel 1927). Lo studioso arrivò al punto di giustificare tale deficit arrancando motivi biologici (la presenza delle ovaie) o sociali (presunta inclinazione alla prostituzione insita in certe donne).
Anche se molte delle intuizioni lombrosiane al giorno d’oggi fanno sorridere per la loro totale mancanza di razionalità, è innegabile che diverse assassine siano passate alla storia per i loro delitti commessi avvelenando le sventurate vittime. Un modus operandi che ha reso immortali nella cultura di massa le nostrane Lucrezia Borgia (la cui fama di avvelenatrice si deve in realtà all’omonimo dramma di Victor Hugo) e la prolifica Giulia Tofana, giustiziata nel 1659 con l’accusa di aver causato oltre 600 morti.
Sotto, Ritratto di donna (presunto ritratto di Lucrezia Borgia):
Al grande pubblico è familiare l’espressione Vedova nera, che in criminologia indica comunemente serial killer donne, agenti soprattutto in ambito familiare. Il termine deriva dal ragno velenoso così chiamato. La vedova nera (Latrodectus mactans), blocca le proprie vittime nella sua tela, per ucciderle iniettando del veleno. Uno dei tanti straordinari comportamenti del mondo animale cui nemmeno l’essere umano, seppur spinto da tutt’altre ragioni, può sottrarsi.
Il rapporto tra le donne e il veleno come arma di vendetta, emancipazione o semplicemente di piacere sconvolse persino l’antica Roma, cui risalgono le prime testimonianze di assassine seriali. Alcuni dei più interessanti casi di avvelenatrici sono giunti sino a noi grazie ad autori latini come Tito Livio o Giovenale. Nemmeno i potenti imperatori romani furono immuni a queste velenose storie d’amore e morte. In particolare a “far epoca” furono due casi di donne inserite nella nobiltà romana, e che ricorsero a veleni mortali per i loro scopi.
Sotto, Toeletta di una matrona romana, dipinto di Juan Jiménez Martín (1855-1901):
Uno dei primissimi casi è citato da Tito Livio in Ab Urbe Condita. È quello delle “avvelenatrici di Roma”, un gruppo di cortigiane che intorno all’anno 331 a.C. fu sospettato della morte di diverse personalità illustri, tra cui loro amanti e mariti. Denunciate da una schiava al magistrato Quinto Fabio Massimo, dalle ispezioni effettuate risultò che alcune nobildonne possedessero sostanze sospette. Grazie alla testimonianza della schiava, cui fu garantita protezione, il magistrato risalì a decine di donne potenzialmente coinvolte nel macabro misfatto.
Tra queste risaltano tali Sergia e Cornelia, cui fu intimato di dimostrare la propria innocenza bevendo le sostanze possedute in casa che esse asserivano essere semplici medicinali. Il risultato di questa “sfida” fu una rapida morte tra atroci dolori. Grazie alle numerose testimonianze raccolte successivamente da altre schiave, furono identificate molte altre possibili assassine, oltre un centinaio. Vennero condannate a morte a seguito di quello che oggi chiameremmo un maxi processo.
Ovviamente sia per la distanza temporale, sia per le conoscenze limitate dell’epoca, resterà un mistero se e quante persone siano davvero morte per mano delle “avvelenatrici”. In quegli anni Roma fu afflitta da una pestilenza mortale, i cui sintomi ed effetti difficilmente erano distinguibili da quelli causati da sostanze venefiche. Inoltre la nobiltà romana era dedita a scandali e complotti quotidiani; fattori che tuttora esercitano un certo fascino sul pubblico (e che avrebbero contraddistinto anche le corti rinascimentali).
Tra le più famose donne dell’antichità romana dedite al veleno vi era Lucusta, ragazza di origini galliche giunta nella Caput mundi forse come schiava. Gli avvenimenti che riguardano le sue vittime risalgono al I secolo d.C. Il suo talento nell’arte degli elisir e dei veleni rese i suoi servigi molto richiesti. Nell’emporio sul Palatino che gestiva era possibile reperire una gran varietà di sostanze, utili per sbarazzarsi silenziosamente di inconsapevoli vittime. Probabilmente era stata istruita dai druidi in giovane età, prima della sua comparsa a Roma. Di Lucusta ci è giunta la sinistra fama, ma questa figura resta avvolta dalla vaghezza tipica delle fonti antiche. Anche il suo vero nome è stato inghiottito dall’oblio, sostituito da un soprannome.
Menzionata da Giovenale nelle Satire (nonché da Alexandre Dumas nel suo Conte di Montecristo), Lucusta deve il suo posto nella storia alle “imprese” compiute, riguardanti alcuni tra i più importanti nomi della Roma antica. Agrippina minore si rivolse a lei per far avvelenare l’imperatore Claudio, morto nel 54 d.C. per aver mangiato funghi velenosi probabilmente reperiti dalla stessa Lucusta.
Sotto, Agrippina Minore, (49/50 d.C.). Museo Archeologico di Milano. Fotografia di Giovanni Dall’Orto, 13 marzo 2012 condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia:
Sempre al suo nefasto talento ricorse Nerone per eliminare Britannico, figlio del defunto imperatore (che aveva adottato proprio Lucio Domizio Enobarbo, futuro Nerone Claudio Cesare). Nerone concesse a Lucusta il perdono, evitandole la condanna a morte che le pendeva sulla testa per l’avvelenamento dell’imperatore Claudio. Probabilmente fu la stessa esperta di veleni che fornì a Nerone la sostanza con cui questi si tolse la vita durante le rivolte del 68 d.C. Un’altra vittima illustre consegnata alle cronache, ma si ritiene che furono numerose le morti dovute direttamente o per mano altrui a Lucusta.
Sotto, il rimorso dell’imperatore Nerone dopo l’assassinio di sua madre (1878) di John William Waterhouse:
Tra i protagonisti della rivolta vi era il generale Galba, futuro imperatore, che fece giustiziare brutalmente Lucusta non prima di averla fatta trascinare in catene per le strade della città. Come sia davvero stata uccisa e quali siano le vicende le riguardarono, resterà uno di quei segreti che le pieghe del tempo hanno reclamato per sé. In ogni caso, Lucusta ha il “merito” di essere la prima assassina seriale storicamente documentata. La prima di una lunghissima serie. Una scia di sangue giunta fino ai giorni nostri, che ha suscitato le più morbose attenzioni e le più ispirate pagine di cronaca nera.