«L’Impero è la pace», dichiarò Luigi Bonaparte il 9 ottobre 1851 dinnanzi agli abitanti di Bordeaux, quando, almeno in teoria, la Seconda Repubblica francese era ancora in piedi, ma un nuovo Napoleone si apprestava a reclamare il trono perduto dallo zio.
Ironicamente soprannominato le Petit Napoleon da Victor Hugo, Luigi era un abile politico che seppe infervorare il popolo e sfruttare a suo favore il lustro del passato, ma non possedeva l’acume militare da grande condottiero di Napoleone Bonaparte.

A metà Ottocento, si affacciò sul panorama politico europeo, ma non per dominarlo… Come si vedrà, fu succube degli eventi, di una rinnovata gloria troppo al di sopra delle sue capacità e di Otto Von Bismarck, una delle personalità più complesse del XIX secolo.
Da principe a rivoluzionario
Carlo Luigi Napoleone Bonaparte nacque a Parigi il 20 aprile 1808. Era il terzogenito di Luigi Bonaparte, re d’Olanda e fratello minore di Napoleone I. La sua infanzia fu abbastanza travagliata e non poté godere della tranquillità degna di un rampollo della famiglia imperiale.
Dopo la disfatta di Waterloo in Francia fu restaurata la monarchia, e il 12 gennaio 1816 i funzionari del nuovo governo vararono una legge che bandiva dal Paese ogni membro della famiglia Bonaparte. Luigi fu costretto all’esilio e vagò per l’Europa insieme a sua madre, Hortense d’Olanda. Si stabilirono prima in Svizzera, poi in Germania e, infine, nel 1823 approdarono a Roma.

L’ambiente romano giovò al quindicenne Luigi, che si avvicinò agli ideali rivoluzionari italiani. Insieme al fratello maggiore, nel 1831 aderì alla Carboneria e imbracciò le armi per perorare la causa dell’Unità. Le autorità austriache e papali li braccarono e i due Bonaparte furono costretti a nascondersi prima a Bologna e poi a Forlì, dove il maggiore dei due contrasse il morbillo e morì.
Luigi, invece, si sottrasse all’arresto, si ricongiunse alla madre e insieme partirono per la Francia in cerca di protezione. Nel frattempo, in patria, Luigi Filippo d’Orleans aveva sostituito Carlo X sul trono. A differenza del suo predecessore era un sovrano molto più liberale e Hortense gli chiese udienza. Nell’incontro, il re accolse la richiesta della donna di poter soggiornare a Parigi, a patto dell’anonimato. Madre e figlio vissero nella capitale fino al 5 maggio ma, quando iniziarono a circolare voci sulle loro identità, furono nuovamente costretti all’esilio. Dopo una breve parentesi in Inghilterra, Luigi si accasò in Svizzera, dove, nel 1832, ottenne la cittadinanza e cominciò a meditare su un possibile ritorno in Francia. Nel corso della sua breve permanenza a Parigi, il futuro imperatore aveva constatato quanto il popolo fosse ancora legato al ricordo del grande Napoleone, dell’artefice di un impero temuto da tutte le più grandi potenze europee.
Si convinse che, pur di riavere un Bonaparte al vertice della piramide, i francesi sarebbero insorti contro la monarchia e, il 29 ottobre 1836, marciò su Strasburgo con un reggimento e occupò gli uffici burocratici. Secondo i suoi piani, da lì in avanti i ribelli avrebbero avanzato fino a Parigi e raccolto nuovi volontari per strada, come nel ritorno da Elba del 1815 dello zio. Il colpo di stato, invece, si risolse in un nulla di fatto e Luigi fu arrestato.
Luigi Filippo d’Orleans sapeva che un processo pubblico avrebbe fornito un’eccessiva visibilità al giovane rivoluzionario, magari infervorando gli animi dei bonapartisti, perciò accolse le suppliche di Hortense, che ancora una volta intercedette per il figlio, e optò per un semplice esilio negli Stati Uniti.
Luigi sbarcò a Norlfok, in Virginia, il 20 marzo 1837, ma il suo soggiorno in America fu molto breve: sua madre si era ammalata e versava in gravissime condizioni. Si procurò un passaporto falso, tornò in Svizzera e accorse al capezzale di Hortense, poi spentasi il 5 ottobre. L’anno successivo si trasferì a Londra e, più deciso che mai a rimettere la famiglia Bonaparte al potere, preparò un secondo colpo di stato. Nel 1840 armò un piccolo contingente di circa 60 soldati, con il quale si imbarcò, con l’intento di approdare al porto di Boulogne, ma le autorità locali intercettarono e bloccarono la nave. Questa volta il monarca francese non ebbe alternative e processò il giovane Bonaparte, che fu condannato all’ergastolo nella fortezza di Ham. Tuttavia, il 25 maggio 1846, il suo medico personale riuscì a farlo evadere e si recò in Inghilterra.
Dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero
Nel frattempo, in Italia il re aveva ridimensionato i poteri della corona a favore del popolo e aveva promulgato lo Statuto Albertino. La notizia alimentò gli animi rivoluzionari in Francia; Luigi Filippo abidicò e nacque la Seconda Repubblica.

I moti del ’48 furono l’evento chiave che permise al futuro Napoleone III di prendere il potere. Nel disordine politico intravide la sua grande possibilità; quindi, tornò a Parigi e annunciò al presidente del governo provvisorio, Alphonse de Lamartine, di avere come unica ambizione di servire la propria nazione. Si candidò alle elezioni dell’Assemblea costituente del 4 giugno e ne fu eletto rappresentante, ma Lamartine conosceva il suo passato rivoluzionario e pressò il Parlamento affinché rendesse esecutiva la legge dell’esilio dei Bonaparte del 1832. La richiesta fu rifiutata e, giocando d’astuzia, Luigi rinunciò al mandato e lasciò la capitale per osservare in disparte lo scorrere degli eventi.
Fra il 22 e il 26 giugno, a Parigi scoppiarono una serie di insurrezioni della classe operaia, prontamente sedate dal governo, che gli spianarono la strada al consenso quasi unanime dei ceti bassi. Il 10 e 11 dicembre concorse alle elezioni per la carica presidenziale, le prime a suffragio universale maschile, e i francesi lo elessero con il 74% dei voti. Tale successo è facilmente attribuibile al ceto dei contadini che, memori delle gloriose gesta legate al cognome Bonaparte, auspicavano una nuova epoca d’oro per la nazione.

Sebbene la costituzione del ’48 limitasse ampiamente i poteri del presidente, Luigi diede subito grande lustro alla sua figura: assunse lo sfarzo imperiale, indossò un’uniforme militare con un tricorno piumato e la Légion d’honneur.
In politica estera esordì intervenendo nei disordini italiani e si guadagnò la fiducia dei cattolici francesi. La brevissima Repubblica Romana guidata da Mazzini aveva deposto Papa Pio IX e l’apporto della Francia fu fondamentale per la restaurazione del potere temporale della Chiesa.
Nel 1851 Luigi era consapevole della popolarità acquisita e scelse di sfidare la legge costituzionale, che prevedeva un unico mandato presidenziale di quattro anni. Dapprincipio tentò di ottenere dall’Assemblea la possibilità di ricandidarsi, ma non ci riuscì e, il 2 dicembre, nell’anniversario dell’incoronazione di suo zio, procedette a un colpo di stato.
Sciolse l’Assemblea Nazionale, i soldati occuparono i punti strategici delle città e ogni forma d’insurrezione fu repressa sul nascere. I principali oppositori del voltafaccia politico furono i repubblicani, fra cui Victor Hugo che, inizialmente suo sostenitore, si sentì tradito e abbandonò la Francia. Nei primi mesi del 1852 modificò la costituzione: il presidente avrebbe goduto di maggiori poteri, poteva essere rieletto e l’Assemblea fu ripristinata con grandi ridimensionamenti.
A quel punto, a Luigi non restò che sferrare l’affondo finale per ultimare i suoi ambiziosi progetti. Esattamente un anno dopo il colpo di stato, nel medesimo anniversario legato alla gloria della famiglia Bonaparte, il 2 dicembre 1852, nacque il Secondo Impero di Napoleone III.
La questione italica
La prima preoccupazione del nuovo imperatore fu quella di restituire alla Francia una certa influenza nel panorama europeo. Per far ciò, era necessario smantellare, o quantomeno indebolire, il sistema di alleanze creatosi dopo la disfatta di Waterloo.
Nel 1815, all’indomani della definitiva caduta di Napoleone I, nel celebre congresso di Vienna, Inghilterra, Prussia, Austria e Russia avevano ridisegnato il Vecchio Continente affinché tutti i sovrani deposti tornassero sui rispettivi troni e vigesse un equilibrio capace di stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di egemonia.
Napoleone III intravide la sua grande occasione nella questione russo-ottomana, che sfociò nella Guerra in Crimea del 1853-56. Si schierò al fianco degli ottomani insieme al regno di Sardegna e all’Inghilterra; l’Impero fu artefice della disfatta dello zar e acquisì una maggior rilevanza politica.

In seguito, Luigi accolse la richiesta d’aiuto da parte di Camillo Benso, conte di Cavour, (forse propiziata dall’influenza della sua amante, Virginia Oldoini) e, insieme, dichiararono guerra all’Austria, dando inizio alla Seconda Guerra d’Indipendenza italiana. Il successo franco-piemontese si ebbe il 24 giugno 1859, nella sanguinosa battaglia di Solferino e San Martino, e l’11 luglio, insieme a Francesco Giuseppe I d’Austria, Napoleone sottoscrisse il trattato di Villafranca, che pose fine alle ostilità.

Il sovrano francese era preoccupato che la guerra potesse continuare a lungo e negoziò un armistizio che concedeva al Regno di Sardegna l’annessione della sola Lombardia. Anche Vittorio Emanuele II firmò, ma il presidente del consiglio Camillo Benso non fu affatto contento: stando ai suoi piani, la guerra avrebbe dovuto sradicare completamente la presenza degli austriaci nel Nord Italia.
Pur senza l’appoggio diretto della Francia, la campagna per l’unificazione proseguì e il 17 marzo del 1861 Vittorio Emanuele divenne re d’Italia. Tuttavia, mancavano all’appello ancora il Veneto, Trieste e il Lazio, e Napoleone si ritrovò a essere, al contempo, alleato e nemico del neonato regno. Da un lato, avevano combattuto fianco a fianco nella Seconda Guerra d’Indipendenza; dall’altro, era pur sempre il garante del potere temporale del papa.
Nel 1862 Garibaldi tentò la presa di Roma e l’Impero intervenne militarmente. Le truppe francesi fermarono quelle garibaldine e si posero a difesa di Pio IX, rimanendo di stanza nella città eterna fino al 1870, anno della Breccia di Porta Pia.
La guerra franco-prussiana e la caduta
Nel frattempo, la Prussia del cancelliere Otto Von Bismarck aveva iniziato un processo di unificazione del mosaico germanico ai danni dell’Austria. Viste le perdite subite nel duplice intervento nella questione italica, Napoleone non poté dare man forte agli Asburgo per fermare i piani dei tedeschi che, avvalendosi di una grande superiorità militare, cominciarono ad accrescere la loro egemonia a discapito delle altre grandi potenze. L’Imperatore temeva la pericolosità della Prussia e tentò invano di tessere una serie di alleanze difensive: l’Austria rifiutò; Vittorio Emanuele II, pur essendo favorevole, dovette tirarsi indietro a causa del malcontento popolare nei confronti di Napoleone, reo di aver protetto il papa a discapito dell’Unità italiana.
La situazione franco-prussiana precipitò nel 1870 a causa di una disputa dinastica.
Il trono di Spagna era vacante dal 1868 e Bismarck avvallò la candidatura di Leopoldo di Hohenzollern, cugino di Guglielmo I. Napoleone si dichiarò contrario: politicamente parlando, un membro della famiglia reale tedesca a capo della Spagna avrebbe messo la Francia in seria difficoltà. Da abile statista qual era, Bismarck proseguì con astuzia nei suoi intenti e, consapevole di poter tessere le fila di un complesso gioco di poteri, cercò di scatenare una guerra che avrebbe favorito la nascita del nuovo Reich.
Dal canto suo, Luigi inviò un ambasciatore alla corte di Guglielmo per chiedere in via ufficiale il ritiro della candidatura di Leopoldo e questi, pur con cortesia, affermò di non poter fare promesse a nome del suo governo. Bismarck intercettò il dispaccio che conteneva la risposta e lo manipolò in modo tale da suscitare una reazione negativa e di sdegno. Per l’Impero, quella della Prussia era una grave offesa e l’opinione pubblica, con animo infiammato, pretese l’inizio delle ostilità.
Luigi sapeva a cosa sarebbe andato incontro, ma non aveva altra scelta e, il 19 luglio 1870, dichiarò guerra alla Prussia. Anche se l’esercito di Guglielmo poteva contare su un evidente vantaggio numerico, il popolo francese era piuttosto fiducioso.
Pur malato e in età non più giovane, Napoleone assunse personalmente il comando delle truppe e il 28 luglio partì insieme ai suoi uomini, lasciando alla moglie Eugenia il ruolo di reggente.

Il corso della guerra rispettò in pieno le previsioni di Napoleone. La Francia subì numerose sconfitte e si dimostrò nettamente inferiore alla Prussia, ma l’Imperatore, pur meditando di ripiegare a Parigi per salvare ciò che rimaneva dell’esercito, cedette alle pressioni della moglie – vittima anche lei, come del resto la stragrande maggioranza dei francesi, di una visione troppo mitizzata del marito e del Secondo Impero – e perseverò in un conflitto già perso in partenza.
L’atto finale si ebbe nella battaglia di Sedan quando, il 2 settembre, a fronte dell’ennesima capitolazione, Napoleone issò bandiera bianca e si consegnò ai prussiani.

Divenne un prigioniero di Bismarck e lo statista lo costrinse a trattare e firmare una resa con termini assolutamente svantaggiosi. La notizia della disfatta di Sedan giunse a Parigi il 4 settembre e si narra che l’imperatrice Eugenia rimase incredula quando seppe che il marito aveva preferito consegnarsi al nemico piuttosto che cercare la morte in battaglia.
Nel frattempo una folla prese d’assedio il Palazzo Borbonico, dove l’imperatrice risiedeva, e la obbligarono a rifugiarsi presso il dottor Thomas W. Evans, il suo dentista statunitense, che ne favorì la fuga clandestina in Inghilterra.
Il Secondo Impero francese aveva ufficialmente cessato di esistere
Quanto a Napoleone, durante la prigionia nel castello di Bellevue ricevette la visita di Guglielmo II. Nel colloquio, dichiarò a quest’ultimo che era perfettamente cosciente di come sarebbe andata la guerra e che, pur non volendola, era stato costretto dall’opinione pubblica e dal governo. Infine, fu rilasciato il 19 marzo e si recò in esilio in Inghilterra con la moglie e il figlio.
La decaduta famiglia imperiale si stabilì in una villa chiamata Candem Palace, nella periferia di Londra. Luigi, ormai anziano e sempre più malato, ebbe spesso la compagnia della regina Vittoria e si diceva stesse meditando anche su un possibile ritorno sulla falsariga della fuga da Elba dello zio.
Da tempo sofferente di patologie renali, morì all’età di 64 anni il 9 gennaio 1873.

Si concluse così la parabola discendente del “piccolo Napoleone”; un rivoluzionario ambizioso, ma privo delle capacità che fecero “grande” suo zio.