Curzio Malaparte: l’Ossimoro Vivente

“Ossimoro vivente” così Curzio Malaparte fu definito da Marcello Veneziani. Un uomo che era una contraddizione in termini. Le sue idee non erano catalogabili, rifiutava un’ideologia, non accettava tutto il pacchetto preconfezionato di idee. Lui aveva le sue idee, lui era lui, estremista, unico ed egocentrico. Longanesi disse di lui che “in un matrimonio avrebbe voluto essere la sposa e in un funerale il morto”. Fascista e antifascista, reazionario e rivoluzionario, italianissimo e anti italiano, da Mussolini a Togliatti, da Farinacci a Lenin e Mao.

Uno scrittore geniale per alcuni, apprezzato più all’estero che in Italia, e un voltagabbana per altri, amato o odiato ma mai indifferente, come in fondo non avrebbe mai voluto essere.

 

Kurt Erich Suckert era nato a Prato il 9 giugno 1898 da padre tedesco e madre italiana. Nel 1914 a soli 16 anni Kurt, interventista convinto e deluso dalla neutralità italiana, si arruolò volontario nella Legione Garibaldina, parte della Legione Straniera Francese. Nel 1915 con l’entrata in guerra dell’Italia passò agli Alpini e combatté in Italia e in Francia. La guerra lo segnò psicologicamente, dovette finire un suo amico straziato da una granata dopo ore di sofferenze atroci, e fu provato fisicamente quando subì un attacco con l’Yprite che gli danneggiò irreparabilmente i polmoni.

Della guerra scrisse nel suo primo libro “Viva Caporetto” dove sostenne che la disfatta fu un atto di ribellione dei soldati, valorosi, contro l’inettitudine e incompetenza degli ufficiali di grado superiore che mandavano al macello la truppa standosene nelle retrovie.

Il libro gli valse l’accusa di vilipendio delle forze armate e la prima edizione venne sequestrata

Il libro venne poi ripubblicato con il titolo “La rivolta dei santi maledetti”. Nel 1920 aderì al movimento fascista, forse partecipò anche alla Marcia su Roma nel 1922, di sicuro era uno dei fascisti più rivoluzionari, quelli che venivano definiti “i fascisti di sinistra” come Marinetti e i futuristi, corrente alla quale aderirono molti antifascisti degli anni a venire.

Nel 1925 italianizzò il suo nome in Curzio e scelse come cognome Malaparte per umoristica paranomasia con Napoleone Bonaparte.

Lipari 1934:

Da allora Curzio Malaparte fu lo suo pseudonimo col quale firmò tutte le sue opere. Malaparte si sentiva un fascista, un vero fascista, per lui il fascismo doveva essere una rivoluzione, ammirava Mussolini, in fondo erano così simili, rivoluzionari, istrionici, egocentrici e ambiziosi, amanti del giornalismo e delle donne, ma il fascismo stava cadendo in mano ai borghesi e questo gli era intollerabile. Nel 1928 pubblicò il libro “Don Camaleo” dove Mussolini veniva definito un camaleonte, che poteva adattare comportamento e idee in base alle circostanze. Il libro venne sequestrato e cominciarono i dissidi con il Duce.

Nel 1929 divenne direttore de “La Stampa” e fu definito anche dagli avversari la miglior penna del fascismo, ma venne licenziato 2 anni dopo accusato di essere vicino ai fascisti di sinistra del giornale “Critica fascista” di Giuseppe Bottai.

Malaparte alpino

Nel 1931 pubblicò in Francia il libro “Tecnica del colpo di stato”, dove propendeva per un rovesciamento del potere che venne interpretato come un’opera sovversiva contro lo stato attuale, mentre Malaparte sosteneva che era esattamente il contrario, il fascismo doveva continuare ad essere rivoluzionario, come era stato lo stesso Mussolini dei primi anni e quello doveva essere il nuovo stato da sostenere. Il libro non venne pubblicato in Germania e Unione Sovietica e neppure in Italia per esplicita richiesta di Hitler, che veniva criticato e ridicolizzato. Malaparte fu tra l’altro sempre un grande avversario del nazismo e delle persecuzioni ebraiche.

Nell’ottobre 1933 venne arrestato per scritti contrari al regime, questa volta se la prendeva con Balbo che secondo lui mirava a sostituire Mussolini, e dopo un mese a Regina Coeli fu condannato a 5 anni di confino a Lipari ma già nell’estate 1934 fu trasferito a Ischia e poi a Forte dei Marmi al soggiorno obbligato ma a piede libero. Dopo 2 anni e mezzo di confino fu liberato grazie all’intercessione di Galeazzo Ciano, suo amico, ma restava controllato dall’OVRA (Opera Volontaria di Repressione Antifascista).

Al confino di Lipari:

Non si sposò mai, nonostante innumerevoli storie. Solo una relazione iniziata nel 1935 con la vedova di Edoardo Agnelli, Virginia Bourbon del Monte, madre di Giovanni, Susanna e Umberto lo portò vicino al matrimonio, ma nel 1936 gli Agnelli minacciarono di levare i figli a Virginia: non volevano in famiglia un personaggio tanto scomodo inviso alle alte cariche del fascismo da loro sostenute.

Nel 1936 fece costruire la sua magnifica villa a Capri , il suo rifugio, che divenne salotto di artisti e intellettuali e nel 1938 fu inviato del Corriere della Sera in Africa e in Unione Sovietica.

Contrario alle leggi razziali, assunse Moravia e Saba, entrambi di origini ebree, fra le fila della sua redazione della rivista “Prospettive” fondata nel 1937.

Fu poi proprio Moravia a definirlo, dopo la guerra, un “voltagabbana fascista”; ma un voltagabbana cambia idea per il proprio tornaconto, mentre Malaparte con le sue idee riusciva solo a inimicarsi i vecchi amici e conservare i vecchi nemici.

Nel 1940, con il grado di Capitano, fu mandato su fronte greco per divenire poi corrispondente di guerra del Corriere della Sera nel 1941 al seguito dei tedeschi in Jugoslavia e in Ucraina.

Per aver descritto crudamente quello che avveniva in entrambi i paesi fu poi rimandato al confino, anche se venne prontamente liberato e inviato in Unione Sovietica e in Polonia, da dove fu presto allontanato dal comando tedesco per le descrizioni di quanto avveniva nel Ghetto di Varsavia.

Malaparte a Capri, sulla terrazza della villa con uno dei cani bassotti (Pucci, Cecco o Zita)

Rientrato in Italia dopo la caduta di Mussolini, fu arrestato dai badogliani nel settembre del 1943 per il suo passato fascista. Malaparte fu salvato dagli Alleati e si schierò con il Regno del Sud per venir poi arrestato in novembre dal controspionaggio alleato, questa volta con l’accusa di spionaggio per il suo passato di corrispondente di guerra a fianco dei tedeschi e per le sue origini. Per le sue conoscenze venne comunque reclutato dal controspionaggio con il quale collaborò fino alla fine della guerra.

A Capri scrisse il suo romanzo più famoso “Kaputt”, iniziato nel 1941 e finito nel 1944, dove raccontava i fatti vissuti mischiati con voli di fantasia, un volume fortemente anti tedesco, duro e crudo sulle atrocità della guerra e della persecuzione ebraica.

Come ufficiale dell’esercito nel 1944-’45 si trovò a Napoli, dove scrisse l’altro suo famosissimo romanzo “La Pelle”. Sparava a zero sui napoletani e sul loro istinto a salvarsi la pelle a ogni costo, descriveva la terribile pratica della prostituzione minorile, e per anni non poté rientrare a Napoli per le minacce subite, ma non risparmiava la Chiesa e neppure gli Alleati per il loro trattamento verso la popolazione italiana, i tedeschi e i repubblichini perché, per lui, anche i vinti andavano rispettati. Ce n’era per tutti, anche per i vivisettori sotto i quali, non si sa se sia vero o falso, finì il suo adorato cane Febo. Malaparte era un grande amante degli animali ma non solo, gli erano intollerabili la violenza e la sofferenza degli esseri viventi, di qualunque razza fossero e da qualunque parte stessero.

Nel 1944 Malaparte fu contattato da Togliatti per una collaborazione al giornale ”l’Unità”. Il segretario del Partito Comunista chiese qual era la posizione degli intellettuali italiani verso il comunismo, e Malaparte rispose: “gli intellettuali che erano andati a braccetto con Mussolini sarebbero andati a braccetto anche con lui” e così l’uomo detestato da Gramsci e dai comunisti divenne collaboratore del giornale del PCI.

Il 29 Aprile del 1945 Malaparte era a Piazzale Loreto insieme al colonnello Cumming del controspionaggio, ed entrambi furono disgustati dallo scempio dei cadaveri di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, e dopo quell’episodio scrisse “Muss, ritratto di un dittatore” e questo è il passo che descrive le sue sensazioni e la sua mente: “Non m’importava nulla che avesse sbagliato, che avesse coperto l’Italia di rovine, che avesse trascinato il popolo italiano nella più atroce miseria. Mi dispiaceva per tutti gli italiani, ma non per quella sudicia folla. (…) Era una folla non di vittime innocenti, ma di complici. Non m’importava nulla che quella sudicia folla avesse le case in rovina, le famiglia disperse, e fosse affamata, poiché una simile folla se l’era meritato. Tutti erano stati suoi complici. Fino all’ultimo. Anche quelli che lo avevano combattuto erano stati suoi complici fino al momento della disgrazia. (…) Qualunque fosse la ragione che aveva mutato quella folla in una sudicia turba che l’aveva spinta a sporcare di sputi e di feci il suo cadavere, non m’importava nulla. Ero in piedi sulla jeep, stretto tra quella folla bestiale. Cumming mi stringeva il braccio, era pallido come un morto, e mi stringeva il braccio. Io mi misi a vomitare. Era l’unica cosa che potessi fare. Mi misi a vomitare nella jeep“.

E concludeva con la frase:

Ti voglio bene, perché io voglio bene agli uomini caduti, umiliati

Nel dopoguerra si dedicò al teatro e al cinema, e nel suo unico film “Il Cristo proibito” il suo pensiero agnostico si era ammorbidito, e riprese col giornalismo, sempre critico e caustico e come sempre pronto a inimicarsi parecchia gente.

Sul set delle riprese del film:

Nel 1956 fece un viaggio in Cina e ne rientrò affascinato, ma cominciavano i segni della malattia, un tumore ai polmoni già danneggiati dai gas di Ypres e non certo migliorati con il fumo. Ricoverato in ospedale per lunghi mesi, andarono a fargli visita Togliatti e le più alte cariche dello stato, e qui ricevette la tessera del PCI offertagli da Togliatti, che conservò insieme a quella offerta del PRI e lui, da sempre mangiapreti e agnostico si avvicinò alla religione. Morì il 19 luglio 1957 a Roma in compagnia di padre Virginio Rotondi. Fedele fino all’ultimo al suo modo ossimorico di vivere la vita.

Primo piano di Malaparte fotografato nel letto della clinica, Roma, 1957

Nel testamento voleva che la sua villa diventasse “una casa di ospitalità, di studio e di lavoro per gli artisti” ma il testamento venne impugnato dai parenti che vinsero la causa ed è tuttora di loro proprietà. Malaparte è sepolto in un mausoleo sul Monte Le Coste, detto Spazzavento, a Prato come da suo desiderio.

I suoi tanti libri sono stati recentemente ripubblicati dalla Adelphi, verrà riscoperto anche in Italia?

Si ignora tutto di me, e però si dicono e si scrivono di me le cose più inverosimili. Non sono né un eroe né un martire. Sono stato in prigione per ragioni letterarie, non politiche. Non si vuol capire che io sono verso gli antifascisti ciò che sono stato verso i fascisti, che ho il più alto disprezzo per i politicanti, di non mi importa quale partito, che non mi interesso che alle idee, alla letteratura, all’arte. Che sono un uomo libero, un uomo al di là di tutto ciò che agita questa povera massa di uomini”.

Curzio Malaparte, Diario di uno straniero a Parigi.


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