Giornalista appassionata, scrittrice colta, patriota indomita, permeata di un’aura di fascinazione e di mistero: questo, e molto altro, Cristina Trivulzio fu. Nata a Milano il 28 giugno 1808 da due famiglie di illustre stirpe, venne battezzata con una schidionata di nomi: Maria Cristina Beatrice Teresa Barbara Leopolda Clotilde Melchiora Camilla Giulia Margherita Laura.

Il padre Gerolamo muore giovanissimo quando lei ha quattro anni e sua madre Vittoria Gherardini si risposa con Alessandro Visconti d’Aragona il quale, non solo si legherà a lei con affetto paterno, ma le trasfonderà i suoi profondi ideali patriottici che lei, una volta divenuta adolescente, abbraccia con fervore, dedicandosi nel contempo agli studi umanistici.
Nel 1823 incontra il ventiquattrenne Emilio Barbiano di Belgiojoso, affascinante e scapestrato, dallo sguardo corsaro e dai modi galanti e rimane affascinata dalla sua audacia e dalla sua avvenenza. Lui è colpito da quella quindicenne alta e flessuosa, dal lungo collo che sorregge un volto di porcellana incorniciato da lucidi capelli neri e illuminato da malinconici occhi, ma ancor di più è attratto dal suo ingentissimo patrimonio. Nonostante molti provino a dissuaderla dallo sposarlo, Cristina non vuole sentir ragioni e le sontuose nozze si celebrano il 24 settembre 1824.
Il matrimonio però si rivela ben presto infelice e questo non giova alla sua salute: le crisi epilettiche di cui soffre fin da bambina si fanno sempre più frequenti, il corpo, già magrissimo, si fa diafano, lo sguardo spiritato. Scopre inoltre di essere affetta dalla sifilide, regalo del suo scriteriato marito che la tradisce impunemente, e allora, dignitosamente, chiede la separazione.
È sconfortata e umiliata, ma reagisce convogliando il suo ardore verso gli ideali patriottici che il suo patrigno le aveva inculcato; si iscrive alla Giovine Italia di Mazzini e alla Carboneria e la sua intelligenza vivace e progressista, l’allure misteriosa e la sua foga patriottica conquistano molti intellettuali votati alla causa risorgimentale. Cristina è un’attivista militante e munifica e invia clandestinamente somme cospicue ai patrioti per acquistare armi e sovvenzionare rivolte; l’Austria per ripicca comincia a diffondere di lei l’immagine di una femme fatale dai molti amanti, crudele e viziosa.
A Parigi, dove arrivò nel 1831, e dove all’inizio si ritrova «senza casa, senza tetto, senza cassa e senza letto» perché il governo austriaco le blocca tutti i beni che possiede nel milanese, scrive articoli infiammati a favore della causa risorgimentale e diventa editrice lei stessa di giornali coraggiosi, come l’Ausonio in cui trovano spazio letteratura, informazione scientifica e politica.

Con la sua bellezza perturbante da angelo smarrito, la fissità raggelante dei suoi grandi occhi neri, il volto pallido e malinconico da vergine preraffaellita, turba i sogni di molti, a cominciare da Alfred de Musset, visconte alcolizzato e poeta nevrotico, bello come un Apollo e sulfureo come Mefistofele, che rimase folgorato appena la vide: «Ha due occhi terribili di sfinge, così grandi che io mi sono perso e non mi ritrovo più.» Ma lei, principessa d’avorio dalla fosca bellezza, non si concederà mai alle sue voglie febbrili facendolo diventare pazzo di desiderio: «Mi conduceva per mano sulla soglia del suo giardino segreto. Poi mi chiudeva il cancello in faccia» scriverà sconsolato.
Il 23 dicembre 1838 Cristina mette al mondo Marie da padre sconosciuto, nel mentre accoglie nel suo elegante salotto il meglio della cultura, della politica e della mondanità parigine, vestita immancabilmente di bianco e addobbata di lugubri coralli neri. Da lì passano tutti: Liszt (con cui intesse una breve e passionale relazione), Balzac (che ne è ossessionato e la definisce impenetrabile come la Gioconda), Hugo, Rossini, Stendhal (che si ispirò a lei nel creare il personaggio della duchessa Sanseverino nella Certosa di Parma), Bellini, Heine, che l’amò disperatamente per tutta la vita.
E lei, al pari di una capziosa Circe, cattura, stordisce, abbandona. Quando, dopo dieci anni, torna in Italia, prende dimora a Locate, vicino Milano, in una bella villa di campagna, e lì si prodiga a finanziare la costruzione di asili, orfanotrofi e scuole, suscitando gratitudine fra gli umili, critiche fra i ricchi e persino l’ostilità del perbenista Alessandro Manzoni che sprezzantemente scrisse: «Ha un cuore che saltella troppo.»
Proprio in questa dimora la polizia austriaca (che non aveva mai smesso di tenerla d’occhio), durante una perquisizione scopre in un armadio il cadavere imbalsamato del suo segretario e amante Gaetano Stelzi, morto di malattia. Lei, che pratica lo spiritismo, nella tomba aveva fatto seppellire al posto della sua salma un tronco d’albero, alimentando nei suoi detrattori la fama di donna sinistra e vampiresca.
Intanto la sua attività propagandistica a favore degli ideali patriottici italiani proseguiva incessante: in quel glorioso 1848 a Milano partecipa a quelle che saranno eternate come le Cinque giornate e l’anno dopo aderisce alla breve e infuocata Repubblica Romana guidata da Mazzini, Saffo e Armellini, mostrando ardore, intraprendenza e coraggio e dove, lacera e ferita, soccorre il giovane poeta Goffredo Mameli che le muore tra le braccia.
Da allora in poi sarà un continuo girovagare, errabondo e inquieto, un lento sprofondare nei flutti di uno spleen che le corrode l’anima: visita Grecia, Turchia, Anatolia, Palestina, Siria, Asia Minore, con accanto la sua amata figlia Marie e da questi viaggi riporta una serie di articoli illuminanti.
Comincia però anche la sua personale catabasi nel pozzo nero della droga: vestita di caffettani e turbanti, man mano diventa una bellezza intorbidata e spettrale, scampando per miracolo ad un attentato di un suo cameriere che tenta di pugnalarla al grido di
Muori perfida! Muori, scellerata!
Tornata definitivamente a Locate, scrive analisi lungimiranti e profonde quali “Osservazioni sullo stato attuale dell’Italia e il suo avvenire” e “Sulla moderna politica internazionale”, ma il crepuscolo della sua esistenza è assai triste: trascorre le sue giornate seduta in poltrona, annullandosi nell’oblio dell’oppio e cibandosi di niente, in una sorta di inesorabile horror vacui.
La mattina del 5 luglio 1871 la sua cameriera si avvicinò chiedendole se avesse bisogno di qualcosa. «Non so niente, non ricordo niente» furono le sue ultime parole.
Tratto dal libro Le Indomabili-33 donne che hanno stupito il mondo di Daniela Musini (Piemme), disponibile su Amazon.