La peste, sinonimo di morte e distruzione. Non si sa esattamente quando la terribile malattia sia comparsa per la prima volta nella storia, se ne riscontrano però tracce nel bacino del Mediterraneo molto prima della civiltà romana. Nell’Iliade venne menzionata una generica pestilenza, inviata come punizione agli Achei dal dio Apollo, durante l’assedio di Troia, così come in Persia e in Mesopotamia nelle fonti scritte e artistiche in diverse occasioni.
Vaso attico 480-470 a.C. con scena di un intervento chirurgico a un bubbone, ora al Louvre. Fotografia di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Oggi si ritiene che, ad esempio la peste che colpì Atene nel V secolo a.C, fosse in realtà un’epidemia di vaiolo o di tifo, se non di morbillo o addirittura ebola.
Peste – dal latino pestis, λοιμός in greco – era un vocabolo usato per indicare una sventura o rovina, o una grande malattia a seconda del contesto. Un’usanza che continuò nell’Alto Medioevo, durante il quale ogni pandemia veniva chiamata con termini che rimandavano sempre alla peste (febris pestilentialis, morbus pestiferus, mortalistas pestis) o più genericamente pestilentia.
Trionfo della morte, ora in galleria regionale di Palazzo Abbatellis, Palermo (1446). Fotografia di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Storicamente, solo quella che poi venne chiamata Peste di Giustiniano fu sicuramente causata dal virus Yersinia Pestis. Scoppiò a Costantinopoli verso la metà del VI secolo d.C. e da lì, viaggiando principalmente sulle navi, si diffuse in tutte le città portuali e poi nel resto dell’Europa.
Il bacillo della peste passa all’uomo dagli animali, o meglio, dalla pulce dei ratti, che viene ospitata da diversi tipi di roditori. Il vero problema è che può essere trasmessa anche da uomo a uomo.
Zecca dei ratti Xenopsylla cheopis. Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
La peste di Giustiniano non è così conosciuta come le successive epidemie – la morte nera del ‘300 e la cosiddetta peste manzoniana del ‘600 – e tuttavia non fu certo meno devastante e terribile. Tutto l’Impero ne subì le conseguenze.
Ottobre del 541 d.C.: Giustiniano, sovrano dell’Impero Romano d’Oriente, era assolutamente deciso a scacciare dall’Italia i Goti, dopo la vittoriosa campagna d’Africa che aveva segnato la definitiva sconfitta dei Vandali. La peste però condizionò in grande misura gli avvenimenti della Guerra gotica (535-553), con gli Ostrogoti di Teodorico che, durante la crisi dovuta alla peste, riuscivano a contrastare le forze stremate di Giustiniano.
Mosaico di Giustiniano in Basilica San Vitale a Ravenna. Immagine di Petar Milošević condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia
I bizantini vinsero comunque quella disastrosa guerra, ma Giustiniano non riuscì veramente nel suo intento: il drastico calo della popolazione provocò uno stato di abbandono proprio di quei territori appena riconquistati, che presto vennero invasi dai Longobardi.
Sotto, in rosso l’Impero Romano d’Oriente e in verde le conquiste di Giustiniano:
La diffusione del morbo
Cominciò tutto nel porto di Pelusio, sulla foce orientale del delta del Nilo: le piccole imbarcazioni che senza sosta, dalle regioni più interne del paese portavano merci destinate a tutto l’impero, senza saperlo avevano a bordo un terribile carico di contagio e di morte. Contagio che si propagò sia verso ovest, nelle regioni del Nord Africa, sia verso est, nel Vicino Oriente.
Raggiunse Costantinopoli nel 542, in una primavera non carica di profumi ma di miasmi pestiferi, e lì rimase per quattro lunghissimi mesi.
Sembrava che il morbo non avesse fretta nel suo viaggio mortifero: si spostava lentamente dalle città della costa per raggiungere via via quelle più interne. Si fermava in ognuna fino a che non aveva raccolto la sua messe di morti, e poi piombava a mietere a vittime in quella vicina. Così almeno raccontano lo storico Procopio di Cesarea e il vescovo di Efeso, Giovanni.
Procopio di Cesarea scrive: “… non ha abbandonato un dato luogo fino a che non fosse giunta a contare un numero adeguato di morti, e in modo da corrispondere esattamente a tale numero ha colpito anticipatamente fra coloro che abitavano nei dintorni. E questo morbo ha iniziato sempre a diffondersi dal litorale e da là è andato verso l’interno.”
Quando la peste arriva a Costantinopoli, nonostante gli abitanti fossero già a conoscenza delle conseguenze del morbo, una coltre di terrore avvolge la città, e con ragione.
La capitale dell’impero è ricca e vivace, densamente popolata, piena di botteghe e luoghi di ritrovo: la situazione ideale per un rapido diffondersi dell’epidemia.
E difatti il numero dei morti aumenta di giorno in giorno, fino a raggiungere una cifra che varia tra le 5.000 e le 10.000 vittime quotidiane.
I cadaveri non si contavano più, e non si trovava posto per seppellirli.
Ricostruzione grafica della Costantinopoli imperiale all’epoca di Giustiniano. Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Nella fase iniziale dell’epidemia la città riuscì in qualche modo ad arginare il problema, ma presto il numero dei morti divenne talmente alto da provocare un collasso nel sistema: gli addetti alla raccolta e alla sepoltura dei cadaveri non erano sufficienti per quell’enorme mole di lavoro.
L’imperatore Giustiniano cercò diverse soluzioni, partendo dalle tombe private, che furono riempite di cadaveri. Poi fece scavare delle enormi fosse comuni, pagando profumatamente chiunque fosse disponibile ad eseguire quel macabro lavoro. Ogni fossa poteva contenere migliaia di cadaveri, ma ad un certo punto nei cimiteri non ci fu più terreno sufficiente. I becchini iniziarono a scavare dove potevano, fuori le mura della città, ma presto anche lì non ci fu più posto. Come in un orrido girone dantesco non ancora scritto, i cadaveri venivano gettati dall’alto all’interno delle torri di guardia delle mura, fino a raggiungere la cima. Una volta riempite, le torri venivano poi richiuse, trasformate in gigantesche tombe che potevano contenere i cadaveri, ma non impedire il diffondersi di quel nauseabondo odore di morte che andava ad ammorbare ogni angolo della città.
Torre fortificata delle mura. Fotografia di Antonio cali 66 condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia
Mappa di Costantinopoli con le mura dall’alto. Immagine di Jniemenmaa condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia
Verso il terzo mese di epidemia la città era arrivata alla saturazione, e da molto tempo più nessuno si preoccupava di onorare i morti. Ormai l’unica preoccupazione era quella di trovare un modo per liberare la città dai cadaveri. Erano tempi mali estremi e di estremi rimedi, e l’ultimo fu quello di gettare i morti in mare, giù dalle mura dove queste si affacciavano sull’acqua. La bella e ricca Costantinopoli, capitale dell’impero bizantino, non è ormai altro che un’enorme cimitero.
Miniatura del XV secolo che mostra la parte di Costantinopoli affacciata sul mare. Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
Con tutta la buona volontà che potevano metterci, nessun medico dell’epoca riuscì a trovare un rimedio: impossibile capire l’andamento della malattia, diverso in ogni paziente, così come interpretare i sintomi nel loro reale valore.
Anche sezionare i bubboni, secondo l’insegnamento di Ippocrate, e poi i cadaveri per capire come avesse agito il morbo, non portò a nulla. E non solo per le scarse conoscenze dell’epoca, ma perché certe malattie non si sono potute debellare fino a che non sono entrati in uso, molti secoli dopo, gli antibiotici.
Procopio racconta così la reazione della comunità medica bizantina: “Ora alcuni dei medici erano disorientati perché i sintomi non erano comprensibili, ammesso che la malattia si concentrasse nel gonfiore bubbonico, e decisero di studiare i corpi dei morti. E aprendo quel gonfiore, trovarono una specie sconosciuta di carbonchio che si era sviluppata all’interno di loro.”
Malati di peste in cura. Immagine di pubblico dominio condivisa via Altervista
Senza una spiegazione scientifica, per giustificare quella terribile pestilenza non si trovò di meglio che rifugiarsi nell’imponderabile: la peste era una punizione divina per i peccati dell’umanità. Cambiò il modo di vivere di molte persone, che da peccatori impenitenti si trasformarono in religiosi osservanti, mentre divenne ovunque consuetudine partecipare alle processioni per chiedere perdono a Dio.
La pestilenza terminò all’inizio del 544, e Giustiniano sancì il passato pericolo con la novella costitutio 122, aggiunta al Corpus Juris Civilis. Per i paesi del Mediterraneo quel terribile flagello era quasi vinto, ma non completamente debellato: si presentò ogni 12-15 anni in varie regioni dell’Europa fino al 750, anno in cui scomparve.
L’effetto demografico della peste
Difficile stabilire quante persone morirono a causa della peste. La sola Costantinopoli forse perse all’incirca la metà dei suoi abitanti (da 200.000 a 300.000, a seconda delle stime), e nel resto dei territori dell’impero forse morì un quarto della popolazione.
Studi più recenti, rapportati all’area in cui si diffuse la peste, messa a confronto con l’epidemia del XIV secolo, stimano i numeri delle fonti contemporanee un po’ esagerati, anche se alla fine le diverse ondate della malattia, tra il 541 e il 700 d.C, spazzarono via oltre la metà della popolazione.
Alcuni ricercatori dell’università Macmaster, in Canada, sequenziando un batterio di peste bubbonica trovato in un cadavere rinvenuto cinquant’anni fa nel sud della Germania, speravano di trovare alcune risposte alla misteriosa scomparsa del morbo che causò la peste di Giustiano, e che riapparve solo nel XIV secolo, quando scoppiò la terribile ondata di Peste Nera.
La ricerca, pubblicata dalla rivista The Lancet, conferma che lo scheletro è quello di uomo morto nel 570 d.C a causa della peste.
Yersinia Pestis. Immagine di pubblico dominio condivisa via Wikipedia
I ricercatori non hanno però trovato quello che si aspettavano: il ceppo all’origine della peste di Giustiniano nulla ha a che fare con le successive epidemie.
Resta insoluto l’interrogativo sul perché quel particolare ceppo sia improvvisamente sparito, e su come il batterio, che vive nei ratti, sia mutato fino trasformarsi in una fonte di mortale infezione per l’uomo.