Corso, Forese e Piccarda: i Donati nella Divina Commedia

Un documento che reca la data del 1277 rende noto ciò che una giovane fanciulla fiorentina, di nome Gemma Donati, avrebbe dovuto portare in dote al futuro marito, Dante Alighieri. I due si sposarono qualche anno più tardi, attorno al 1285. Eppure, in tutta la Divina Commedia, non c’è alcuna traccia della donna. Nonostante questa assenza singolare, la famiglia Donati occupa un posto di rilievo nel poema dantesco. Vengono infatti citati ben tre cugini di Gemma, collocati nei tre diversi regni ultraterreni, Inferno, Purgatorio e Paradiso: due fratelli, Corso e Forese, e una sorella, Piccarda. Ma chi erano costoro? Rispondendo a questa domanda, potremmo forse, perlomeno, farci un’idea dell’ambiente dal quale Gemma proveniva.

Cominciamo dal Paradiso. Nel Canto III, Dante vede apparire una schiera di anime, la cui immagine è talmente labile da sembrare un riflesso nell’acqua. Tra di esse, si fa avanti quella di Piccarda Donati. Fervida credente, Piccarda era entrata giovanissima nel convento di Santa Chiara a Firenze, allo scopo di farsi monaca, e aveva preso i voti. La ragazza, tuttavia, non poté restare a lungo al riparo fra le mura del monastero, e dovette, contro la sua volontà, rientrare “nel mondo”.

Suo fratello Corso, guelfo di parte Nera e Capitano del popolo a Bologna, fece infatti irruzione all’interno del chiostro, spalleggiato da un manipolo di sgherri, e la rapì per darla in sposa a un tale di nome Rossellino della Tosa, un altro esponente della parte Nera, un uomo rude e manesco. Per Piccarda fu un colpo durissimo, al punto che, come raccontano alcuni cronisti e commentatori dell’epoca, si ammalò e in breve tempo morì. Dante la colloca nel Cielo della Luna, dove dimorano le anime che non hanno adempiuto ai loro voti. La vediamo affiorare e svanire, cantando, come una pietra gettata nell’acqua profonda.

Raffaello Sorbi, Piccarda Donati fatta rapire dal fratello Corso (XIX sec.)

La presenza di Piccarda tra i beati del Paradiso, in realtà, era stata già annunciata a Dante da uno dei suoi fratelli, Forese. Ci troviamo nella sesta e penultima cornice della montagna del Purgatorio. Qui, alle anime di coloro che, in vita, avevano abusato di cibi e bevande, spetta una sorte spaventosa: dovranno trascorrere il periodo di purgazione che è stato loro assegnato consumandosi dalla sete e dalla fame, fino a rassomigliare a degli scheletri vaganti. Per questo motivo, non è Dante a riconoscere Forese, i cui tratti sono completamente sfigurati. Il Poeta scorge un’ombra che, dal «profondo de la testa» (Pg XXIII), gira gli occhi verso di lui, apostrofandolo, ed è solo dalla voce che Forese viene riconosciuto.

Forese Donati, figlio – come Corso e Piccarda – di Simone Donati, era stato in vita un uomo dai costumi liberali, ai limiti dell’eccesso. Amico di Dante fin da ragazzo, si era misurato con lui in una tenzone poetica: i due si erano cioè scambiati alcuni sonetti, rispondendosi per le rime con motteggi salaci, canzonature e allusioni. Dante rintuzza Forese rimproverandogli una ghiottoneria smodata, nonché di disertare tante e troppe volte le lenzuola della moglie. Forese replica insinuando che il padre di Dante, il cui fantasma gli era apparso di notte, fosse un sordido usuraio, e accusando Dante stesso di essere poco più che un pezzente. Comunque, al di là del tono irriverente dei sonetti, tipico della cosiddetta vituperatio iocosa, le accuse di Dante non dovevano essere del tutto peregrine se, a distanza di anni, Forese – morto nel 1296 – venne inserito dal Poeta tra gli altri golosi.

Incontro con Forese Donati, illustrazione di Gustave Doré

Prima di congedarsi da Dante, Forese fa una profezia sulla sorte del fratello Corso. Quest’ultimo, capo della fazione dei guelfi Neri, era stato uno dei maggiori responsabili delle discordie tra i cittadini di Firenze. Era nato nel 1250 e, come abbiamo visto, era stato Capitano del popolo e aveva sottratto con la forza la sorella Piccarda dal convento di Santa Chiara. Dotato di un temperamento focoso e ardito, Corso aveva comandato le milizie pistoiesi nella battaglia di Campaldino (1289). In seguito, aveva fomentato vari torbidi e tumulti.

Nel 1296, Guido Cavalcanti (il «primo amico» di Dante) cercò di ucciderlo sulla pubblica piazza. Dopo l’entrata a Firenze delle truppe di Carlo di Valois, nel novembre del 1301, Corso Donati fu lasciato libero di imperversare per la città, e poté così far scempio degli avversari di parte Bianca. Il suo potere crebbe a dismisura, grazie a un gioco politico spregiudicato che portava Corso a stringere alleanze ora con il popolo, ora persino con la fazione Ghibellina – tanto da ammogliarsi, in terze nozze, con la figlia del potente condottiero ghibellino Uguccione della Faggiola.

Ma, così come si era allungata la lista dei suoi possedimenti, allo stesso modo si era allungata anche quella dei nemici. Il 6 ottobre 1308, Corso venne accusato di tradimento e, incalzato da quelle stesse masse popolari che egli a lungo aveva vezzeggiato, e che ora erano state sobillate contro di lui, dovette rifugiarsi presso il convento di San Salvi, poco fuori Firenze. Qui fu stanato da un drappello di armigeri catalani, al soldo della Signoria, e passato infine a fil di spada.

Che destino profetizza per lui, l’ombra del fratello Forese? «Quei che più n’ha colpa, / vegg’io a coda d’una bestia tratto / inver’ la valle ove mai non si scolpa. / La bestia ad ogne passo va più ratto, / crescendo sempre, fin ch’ella il percuote, / e lascia il corpo vilmente disfatto» (Pg XXIV, vv. 82-87). Forese vede il fratello trascinato (tratto) da un cavallo verso il luogo dove la remissione dei peccati è impossibile, cioè verso l’Inferno.

Come fu morto il nobile grande cittadino di Firenze messer Corso de’ Donati, dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani (XIV sec.)Il cronista trecentesco Giovanni Villani (Cron. VIII 96) racconta che, quando venne catturato e condotto a cavallo a Firenze, Corso si lasciò cadere dalla sella, e fu dunque trafitto da un colpo di lancia. Altri antichi commentatori ci dicono che, una volta caduto a terra, Corso Donati venne trascinato per qualche metro dal galoppo del cavallo. Inoltre, in molti Comuni vigeva una legge secondo cui chi si macchiava di tradimento sarebbe stato legato ad un cavallo, e trascinato per il suolo fino al patibolo o fino alla morte. Infine, alcune leggende medievali narrano la tenebrosa sorte di alcuni peccatori, portati sulla groppa di un destriero direttamente nella bocca dell’Inferno.


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