Era lo zimbello di tutti i cercatori d’oro che sostavano a Weaverville, quando la California era diventata il nuovo Eldorado: lui era un piccoletto cinese chiamato John John (soprannome riservato a tutti gli immigrati cinesi durante la corsa all’oro) che per mesi aveva lavato i vestiti dei minatori senza chiedere alcun compenso. Ovviamente, gli scaltri cercatori ne approfittarono abbondantemente, sentendosi peraltro molto più furbi dello stupido cinese… Ma John John non era poi così sprovveduto e fece la sua fortuna senza troppa fatica e nessun rischio.
James W. Marshall fu l’uomo che diede il via alla corsa all’oro, in modo del tutto casuale. Probabilmente, se avesse saputo quali disastrose conseguenze avrebbero avuto per la sua vita, quelle pepite trovate nel fiume American sarebbero rimaste nel letto del corso d’acqua. Era il 24 gennaio del 1848 quando Marshall, che sovrintendeva alla costruzione di una segheria di cui era socio, si accorse che qualcosa luccicava sotto il pelo dell’acqua del canale adiacente. Dopo qualche verifica, fu certo che le pietre sfavillanti erano pepite d’oro.
Nel giro di un anno, tutto cambiò in California, da poco divenuta parte degli Stati Uniti. Gli operai di Marshall lasciarono il lavoro per dedicarsi alla ricerca dell’oro e la segheria fu abbandonata, mentre un’orda di avventurieri di ogni genere occupava il territorio, tanto che Marshall fu costretto a lasciare il suo appezzamento di terra: non si rifece mai più e alla fine morì in miseria, ma questa è un’altra storia…
La Gold Rush, o corsa all’oro, non portò in California solo cercatori d’oro che giungevano da tutto il mondo per fare fortuna: con loro arrivarono anche quanti cercarono di sfruttare quella febbre che aveva contagiato migliaia di persone. C’era chi metteva su negozi per fornire i cercatori, chi apriva saloon e bordelli, e poi ciarlatani, giocatori d’azzardo e avventurieri che cercavano di lucrare sui guadagni dei minatori. Per molti, fu più redditizio offrire servizi ai cercatori, piuttosto che tentare il colpo grosso inseguendo il sogno di trovare una ricca vena aurifera. Per inciso, pochi minatori divennero veramente ricchi, al contrario di Levi Strauss, ad esempio, che fece fortuna con le sue salopette di tela jeans…
Ogni cercatore pagava per dormire in un letto pulito, mangiare un pasto caldo, stare qualche ora in compagnia di una prostituta, e anche per farsi lavare i vestiti fangosi indossati mentre stava a mollo nei fiumi. Lavare gli indumenti dei minatori: questa fu la brillante intuizione del piccolo cinese di cui non si saprà mai il vero nome. John John, lo “zimbello di Weaverville” ripuliva i vestiti dei minatori non solo dal fango, ma anche dalla polvere d’oro rimasta intrappolata nei tessuti, e talvolta anche da minuscole pepite d’oro dimenticate nelle tasche.
Dopo un anno trascorso a Weaverville, il cinese fu visto in giro per la città di Sacramento, con indosso abiti eleganti… almeno secondo il racconto di John Hoffman, un cercatore che per trent’anni si spostò attraverso le sierras della California per trovare oro e argento. Pare che il piccolo lavandaio cinese abbia in seguito approfittato del senso di superiorità con il quale i bianchi trattavano i cinesi, ingannandoli nuovamente.
John John venne incaricato della costruzione di un edificio a Coulterville, e assunse, nominalmente, 18 suoi connazionali, per i quali riscuoteva altrettante paghe. In realtà gli operai erano solo dieci, ma i committenti non se ne accorsero mai, perché “tutti i cinesi sembrano uguali”, e i lavori procedevano spediti. John John non si approfittò solo dei bianchi, ma anche dei suoi operai, che dovevano versare a lui metà della paga, come compenso per il privilegio di lavorare con un imprenditore di tal guisa.
Forse, quella del piccolo cinese è solo una delle tante leggende nate intorno ai fuochi dei bivacchi, durante le lunghe notti sotto le stelle della California, o forse no… ma nessuno ormai sarà più in grado di appurarlo.
Quello che è certo, è che la corsa all’oro provocò un totale stravolgimento nella vita di quel territorio pigro e sonnolento che era la California dell’epoca: San Francisco, nel giro di due anni, tra il 1848 e il 1850, passò da 1.000 a 25.000 abitanti.
E mentre l’oro si faceva più difficile da recuperare, i minatori allargavano il loro raggio d’azione, cacciando i nativi americani, privati dei loro territori di caccia e di raccolta del cibo. Quelli che non furono massacrati (un numero che si stima tra le 9.400 e le 16.000 persone, compresi donne e bambini) morirono di malattie e di fame, perché non avevano più modo di procurarsi il cibo. Il primo governatore della California appoggiò lo sterminio: “Che una guerra di sterminio continui a essere combattuta tra le due razze fin quando la razza indiana si estingue…” Questo era, secondo la mentalità dell’epoca, il volere di Dio.