L’Africa, il continente nero e selvaggio come veniva chiamato un tempo, è rimasto un luogo in gran parte misterioso e sconosciuto all’incirca fino alla metà dell’800. C’erano certo già state colonizzazioni e basi commerciali sulle coste, incursioni a caccia di schiavi, ma il suo cuore era ancora intatto, mai raggiunto dall’uomo bianco. Poi arrivano loro, due leggende nella storia dell’esplorazione africana, e tutto cambia: sono David Livingstone (1813-1873) ed Henry Morton Stanley (1841-1904).

Livingstone, ad esempio, mentre esplora il corso del fiume Zambesi alla ricerca di un percorso da trasformare in rotta commerciale, è il primo europeo a trovarsi di fronte allo spettacolo del Mosi-oa-Tunya, il fumo che tuona, che poi lui chiamerà patriotticamente Cascate Vittoria, in onore della regina britannica.

Stanley – dopo aver ritrovato il dottor Livingstone, del quale si erano perse le tracce da qualche anno mentre era alla ricerca delle sorgenti del Nilo – nel 1878 accetta l’incarico di quel macellaio coronato che fu Leopoldo II del Belgio, per porre le basi del futuro e famigerato Stato libero del Congo, non una colonia ma addirittura una proprietà privata del monarca.

Sono le loro storie edulcorate ad influenzare, addirittura a un centinaio d’anni di distanza, i bambini della metà del ‘900, che ancora sognavano di fare, da grandi, gli esploratori. Un sogno infantile, dovuto certo al fascino esercitato dall’avventura, ma ignaro delle enormi difficoltà, dei rischi estremi e, ovviamente, dei retroscena politici e degli interessi economici perversi nascosti dietro tutte le grandi esplorazioni.
Livingstone e Stanley, l’uno scozzese e l’altro gallese, hanno in comune le origini umili, tanto che le loro storie possono essere annoverate tra quelle che nella cultura anglo-americana vengono chiamate “rags to riches”, dagli stracci alla ricchezza.

David Livingstone
David Livingstone, secondo di sette figli, nasce in una famiglia povera che vive in una sola stanza in un triste caseggiato per operai, a Blantyre, in Scozia. Ad educarlo secondo l’etica del duro lavoro, dell’impegno anche religioso e del valore dell’istruzione ci pensa il padre, fervente cristiano e severo catechista domenicale. David lavora nel cotonificio del paese, insieme al fratello maggiore, fin da quando ha 10 anni, ma questo non gli impedisce di proseguire con la sua formazione scolastica, e quando viene a sapere che sarebbero necessari dei medici missionari da destinare in Cina si impegna nello studio di teologia e medicina. Nel 1838 entra a far parte della London Missionary Society, ma la prima guerra dell’oppio manda a monte il suo progetto di partire per l’oriente.
Quando incontra il missionario Robert Moffat, si convince che è l’Africa la sua vera destinazione, e così arriva a Città del Capo il 14 marzo 1841.
Inizia un’avventura pluridecennale, alla scoperta di territori inesplorati e indigeni da convertire, tra mille insidie della natura e malattie tropicali. In realtà Livingstone, per quanto disorganizzato, è assai più valido come esploratore che come missionario, visto che in tutto il suo apostolato riesce a convertire un solo indigeno…
Un giorno viene quasi sbranato da un leone, ma poi lo cura la giovane figlia di Moffat, che finisce per sposare e con la quale avrà quattro figli, anche se la sua priorità sarà sempre l’Africa.

Si era messo in testa che la trinità formata da cristianesimo, commercio e civiltà fosse il cardine dello sviluppo africano, perché coltivava la speranza che aprire nuove vie commerciali fosse il modo per debellare la piaga della tratta degli schiavi, esercitata all’epoca da mercanti arabi.

Tornato in Inghilterra diviene una celebrità con la pubblicazione dei suoi diari, cosa che gli consente di organizzare una seconda missione lungo lo Zambesi, fiume che lui riteneva interamente navigabile e quindi adatto agli scambi commerciali. Imbarcazioni che si sfasciano per le cateratte, chinino insufficiente e guerre intestine tra tribù locali rendono la spedizione un vero inferno, tanto che il medico al seguito definisce Livingstone “fuori di testa e un leader molto pericoloso”.

Insomma, la missione si rivela un fallimento, funestata anche dalla morte della moglie, e Livingstone fatica molto a organizzare un altro viaggio esplorativo (ormai non fa più parte della London Missionary Society), ma alla fine ci riesce: a inizio del 1866 inizia l’avventura della ricerca delle sorgenti del Nilo (non convinto della tesi sostenuta da due esploratori britannici, Burton e Speke, che il fiume avesse origine dal lago Vittoria), accompagnato solo da una squadra di indigeni, che lungo il percorso via via lo abbandonano, mentre lui perde provviste e medicine ed è sempre più stanco e ammalato. Per sopravvivere è costretto ad unirsi alle carovane di schiavisti arabi, assiste a dei massacri che lo inorridiscono, tanto da convincerlo ad abbandonare la sua ricerca. E comunque, grazie a tutto quel periglioso girovagare per l’Africa, tra piogge tropicali, paludi e malattie di ogni genere, riesce a mappare vaste aree fino ad allora sconosciute. Ancora una volta è il primo europeo a vedere il lago Bangweulu, “dove il cielo d’acqua incontra il cielo”, e molti altri luoghi ignoti.


Ad ottobre del 1871 Livingstone riesce a raggiungere Ujiji, sul lago Tanganika, ma nessuno lo sa: ormai da anni è considerato disperso o morto, perché i suoi dispacci non hanno mai raggiunto Zanzibar, la sede del governatore britannico.
E qui entra in scena Henry Morton Stanley – avventuriero e poi giornalista – inviato speciale del New York Herald, che nel 1871 riceve dall’editore un ordine: “Trovate Livingstone!”, o perlomeno le prove della sua morte.

A marzo del 1871 Stanley è a Zanzibar, dove raduna una squadra di 192 (o forse 111) portatori e inizia un lungo cammino, qualcosa come 1100 chilometri attraverso la giungla.
Come da prassi, non mancano malattie (dissenteria, malaria, vaiolo), attacchi di indigeni, diserzioni da parte dei portatori, e poi morti, tanti morti, così tanti che la carovana, dopo sei mesi, conta appena 34 persone, nonostante siano arrivati dei rimpiazzi. Alla fine, il 10 novembre 1871, dopo 236 giorni di viaggio, Stanley arriva a Ujiji, dove, tra la folla di indigeni che gli va incontro spicca l’unico uomo bianco, piuttosto malandato. Leggenda vuole che il giovane esploratore (all’epoca trentenne) si sia avvicinato a Livingstone tendendogli la mano, e lo abbia salutato con la famosa frase:
“Dr. Livingstone, I presume?”
ovvero “Dottor Livingstone, suppongo?”.

Saluto formale, adatto se i due di fossero incontrati sulla porta di un club londinese per gentiluomini, ma che in mezzo alla giungla, dopo essere scampati alla morte decine e decine di volte, suona un po’ ridicolo. E in effetti pare che non sia vero: nessuno dei due esploratori lo racconta nei rispettivi diari, ma esce in un articolo dell’Herald mesi dopo l’avvenimento. La spiegazione potrebbe essere legata a una sorta di complesso d’inferiorità di Stanley – forse in un esagerato tentativo di mostrare estrema dignità anche in situazioni difficili – che porta sulle spalle il peso di un infanzia particolarmente difficile e, forse, le cicatrici mal rimarginate di abusi subiti da bambino.

Difficile dirlo con certezza, perché la storia dei primi anni di vita di Stanley (nome assunto in seguito), così come l’ha raccontata lui, sembra essere un misto tra realtà ed esagerazione, condita da qualche bugia.
Henry Morton Stanley
Certamente lui è un figlio illegittimo (registrato nella chiesa locale come “John Rowlands, Bastard”), abbandonato dalla madre, poco più che adolescente, alle cure del nonno. Purtroppo però il nonno muore quando lui ha 5 anni, e dopo un breve periodo presso alcuni parenti, viene lasciato al St. Asaph Union Workhouse, più simile a una casa di correzione che a un orfanotrofio. Pare che qui il piccolo John abbia subito ogni genere di abusi, sia dall’alcolizzato direttore della struttura, sia dai ragazzi più grandi. L’unica nota positiva di quei drammatici anni è l’accesso allo studio: il ragazzo segue con profitto le lezioni e si interessa in particolare alla geografia. Appena può, a quindici anni, lascia il St. Asaph, si arrabatta alla meno peggio fino a che, due anni dopo, si imbarca come mozzo in una nave diretta a New Orleans.
Lì comincia la sua nuova vita, a partire dal nome Henry Stanley, che lui dice aver preso dal padre adottivo, tale Henry Hope Stanley, ma la faccenda non è chiara, e quasi certamente si tratta di una bugia, raccontata per liberarsi dallo stigma di bastardo.
Comunque sia, nel 1861 (è in corso la guerra civile) Stanley si arruola nell’Esercito Confederato poi, dopo essere caduto prigioniero, combatte dalla parte degli Unionisti e, nel 1864 entra nella Marina dell’Unione, ma ci resta meno di un anno, perché è alla ricerca di una vita più avventurosa.
Grazie all’incarico di redattore dei diari di bordo avuto in Marina, si reinventa giornalista free-lance, e riesce così a vivere svariate avventure: documenta l’occupazione dei territori del West da parte dei nuovi coloni, poi si sposta nell’Impero Ottomano, in Medio Oriente, in Etiopia e in Spagna, e ancora India e Caucaso, fino a che il New York Herald lo incarica di trovare Livingstone.

Dopo l’incontro i due esploratori si uniscono per cercare le sorgenti del Nilo, ma una volta scoperto che il lago Tanganika non aveva nessun collegamento con il lungo fiume sacro agli Egizi, le loro strade si dividono.

In considerazione della sua pessima salute, Stanley tenta di convincere Livingstone a tornarsene in Inghilterra, ma l’uomo non vuole abbandonare la sua ricerca e alla fine morirà in Africa, nel maggio 1873, senza aver realizzato la sua impresa. Il suo corpo imbalsamato viene avventurosamente rispedito in patria e Stanley sarà lì, nell’abbazia di Westminster, a portare la bara di quell’uomo che per breve tempo era stato suo amico.

Nel 1874 Stanley inizia la sua seconda avventura africana, con lo scopo di mappare la regione dei Grandi Laghi e trovare alla fine le sorgenti del Nilo, che si riteneva fossero più a sud del lago Vittoria.
L’esploratore, 33 anni e una giovanissima fidanzata in trepidante attesa a casa, compie un’impresa che dura 999 giorni ed è ben altro che un’avventura: i suoi tre compagni europei muoiono tutti, delle 228 persone partite con lui ne tornano solo 114, dopo aver sofferto la fame, attacchi di cannibali che li inseguono, armati di frecce avvelenate, al grido di “niama niama” (carne carne) e altri mille pericoli. A sostenerlo in quest’impresa è l’idea si ritrovare la dolce Alice (sei il mio sogno, la mia speranza, il mio faro, le scrive), ma al suo ritorno scopre che lei, nel frattempo, si è sposata…

Stanley compie l’impresa solo parzialmente, ma è comunque osannato come “chiaramente al vertice” tra tutti gli esploratori del 19° secolo, tanto duro nel carattere e nell’animo da essere soprannominato dai suoi portatori “Breaker of Rocks” (che rompe le rocce), certo imperfetto ma, secondo Tim Jeal, il biografo che ne ha recentemente rivalutato l’immagine, molto più “umano” di quanto considerato fino ad oggi.

Nella valutazione complessiva della sua immagine certo non aiuta quella terza missione, compiuta per conto di Leopoldo II, per “dimostrare che il bacino del Congo era abbastanza ricco da ripagare lo sfruttamento”.

Le esplorazioni di Stanley e le basi commerciali che fonda, alla fine portano alla fondazione dello Stato libero del Congo, con tutte le atrocità ad esso collegate. I membri di quella stessa spedizione si macchiano di tali abomini da lasciare disgustato e furente l’esploratore (basta ricordare l’episodio di James Jameson), che tuttavia nei suoi diari fa una considerazione: quegli uomini non sono “originariamente malvagi”, ma corrotti nel corpo e nella mente dalle difficoltà e dalle malattie, “le ombre, moralmente e fisicamente di ciò che erano stati nella società inglese.” Non per niente, si pensa che una delle ispirazioni di quel magnifico libro che è “Cuore di tenebra”, di Joseph Conrad, provenga proprio da qualche compagno d’avventura di Stanley o più genericamente dai commercianti d’avorio al soldo di Leopoldo II.
Comunque fossero nella realtà i due esploratori – razzista (e chi non lo era all’epoca?) e violento Stanley, o sinceramente convinto, in un’ottica tutta vittoriana, di spendersi per il bene degli indigeni Livingstone – certamente entrambi, con le loro scoperte geografiche e la mappatura di territori sconosciuti, contribuiscono molto più di altri esploratori a quel fenomeno noto come Corsa per l’Africa, che tra il 1881 e il 1914 porta sotto il controllo europeo fino a circa il 90% del continente.

Il colonialismo e le atrocità ad esso collegate (non solo in Africa) sono colpe incancellabili dell’Europa, che a tutt’oggi producono frutti avvelenati, anche se molti fingono di non saperlo.