Esiste una leggenda, forse una delle più belle e toccanti tra le molte narrate in Sicilia, che prende il nome dal suo protagonista, la leggenda di Colapesce. Diffusa in molte versioni anche nel napoletano, questa leggenda, che il più grande studioso di tradizioni popolari siciliane Giuseppe Pitrè definì una delle più narrate dagli storici, teologi, letterati, poeti e novellieri di tutti i tempi, anima ancora oggi, dopo quasi mille anni, una suggestione sonora, malinconica e viva. Essa è narrata in molte varianti e declinazioni, impossibili da citare tutte, che si diramarono dai primi racconti popolari risalenti al XII secolo.
La Leggenda di Colapesce
Essa parla di un giovane che in un tempo ormai lontano viveva a Messina. Il suo nome era Nicola, ma tutti erano soliti chiamarlo Cola. Cresciuto in una capannina che si affacciava sul mare, il cuore del giovane Cola palpitava sin dai suoi primissimi battiti per un grande e dolce amore: quello per il mare. Ogni giorno al suo risveglio, gli occhi di Cola galoppavano veloci sulla linea luccicante delle onde che si sparpagliavano leggere nella distesa blu che, morbida come seta animata dal vento, si estendeva dinanzi alla sua capanna.
Quel mare turchino, profondo e limpido che si apriva glorioso ed eterno, si era legato alle note più commosse del gentile animo del fanciullo ed egli, ormai vinto dalla sua folle passione, non poteva più immaginare un sol giorno lontano dalle sue acque.
Anno dopo anno era divenuto maestro di quel mare che era ormai la sua casa. Ne aveva indagato gli abissi, navigato i misteri, abitato la natura incolta e le sommerse bellezze. Il suo desiderio di vivere costantemente in quelle distese ricche ed avvolgenti ne aveva aguzzato l’ingegno. Aveva così escogitato il modo di restarvici giornate intere facendosi inghiottire, senza remore alcuna, dai grandi pesci che vivevano in quelle acque.
Il suo entusiasmo era tale che quando tornava a terra la sua voce ripercorreva veloce tutte le scoperte che i suoi occhi avevano compiuto. I suoi racconti erano così passionali e vividi che la famiglia se ne disperava. Non solo egli prediligeva il mare alle fatiche che invece i suoi fratelli erano chiamati a compiere per guadagnarsi l’umile lor pane, ma egli, perso in un languore impellente generato dalla sola vista delle sue distese cobalto, impazziva al solo vederne pescate le creature. E quanto orrore doveva dunque averlo accecato ogni giorno, giacché la sua era per ironia del fato, una famiglia di pescatori. Così, quando nelle ceste del pescato egli trovava i pesci ancora vivi, egli correva piangente e ansante a rigettarli in mare. Un dì la madre se ne accorse. Gli disse allora “bel mestiere che sai fare tu! Tuo padre e i tuoi fratelli faticano per prendere il pesce e tu lo ributti nel mare! Peccato mortale è questo, buttare via la roba del Signore. Se tu non ti ravvedi, possa anche tu diventare pesce!“.
In Sicilia è costume antico dire che quando i genitori maledicono i figli, il cielo li ascolta, esaudendone prontamente l’infelice augurio. Ebbene leggenda vuole, che poco dopo le tristi parole della madre, il giovane Colapesce, iniziasse a tramutarsi ora dopo ora e giorno dopo giorno, in un essere più simile a un pesce che a un uomo. La sua pelle mutò la propria consistenza facendosi sempre più squamosa e scivolosa, le sue mani e i suoi piedi si allungarono, assumendo sempre più le sembianze di lunghe e lucide pinne.
Ad ogni dove non si parlava d’altro che dell’uomo divenuto pesce, e la sua fama fu tale che lo stesso sovrano ne sentì un dì il racconto. Il sovrano in questione sarebbe stato re Ruggero II (altre leggende dicono invece fosse re Federico II di Svevia) il quale, colto da grande stupore e desiderio di assistere al bizzarro portento, si recò laddove Cola era solito trascorrere i suoi giorni. Ed ecco che lo vide, il mitico Colapesce, la leggenda di ogni mare, mostrarglisi innanzi gentile e curioso.
Il sovrano non aveva voluto dar retta alle parole che acclamavano con grande ardore il talento del giovane che gli stava innanzi e volle subito metterlo alla prova. Gettò in mare una coppa d’oro. “Vai e prendila in fondo al mare” gli disse. Cola non si fece attendere. Si tuffò in pieno mare e rapido come un pesce riemerse vincente con la coppa che aveva subito ripescato.
Il re ne fu sorpreso e forse, per non dar subito prova delle virtù che in egli aveva riconosciuto, lo sottopose a una nuova prova. Prese la sua preziosa corona e la gettò in un punto ancor più profondo del mare. Colapesce si rigettò prontamente in acqua, ma mentre nuotava per giungere alla corona scorse qualcosa che lo stupì grandemente. Tre ampie ed alte colonne stavano alla base della Sicilia sostenendola compiutamente; tuttavia di queste una era gravemente consumata da un fuoco che copioso ardeva tra Messina e Catania.
Con quale stupore il re accolse una tale notizia!
Egli cadde vittima di una disperazione inconsolabile per l’impossibilità di porre rimedio al pericolo che terribile gravava sulla sua terra. Chiese allora al giovane di fare qualcosa, poiché egli era l’unico capace di salvare la sua isola.
Ma cosa poteva dunque fare Cola per salvare la sua amata terra dal crollo ormai imminente?
Un’idea tremenda lo illuminò prontamente. Non vi era peraltro altra soluzione se non quella di gettarsi egli stesso laddove il danno era ormai compiuto.
Così, con animo pronto e mesto, sacrificò fiero la sua vita stessa
Si immerse laddove il precipizio era più grave e si mise al posto della colonna ormai frantumata. Si dice allora che da quel giorno egli sia ancora lì, a vegliare e sostenere con il suo stesso corpo la Sicilia. Per questo per tanti è lui il primo vero eroe siciliano.
Un’altra versione della leggenda narra invece che il re, quando fu informato dell’esistenza di un fuoco sì palpitante e vivo nel cuore degli abissi non se ne capacitò e ne pretese una prova.
Colapesce certo non poteva consegnare quel fuoco al sovrano con le sue stesse mani e si rifiutò di compiere un simil gesto. Ecco allora che il re lo apostrofò con parole ruvide e graffianti “sei tu forse un codardo? Hai dunque paura?“. E allora il re, per convincere il giovane a immergersi, gettò in mare anche l’anello della principessa che gli stava accanto, che subito si fece triste vedendo il suo prezioso disperso in quelle acque smisurate.
Colapesce vedendo il volto triste della ragazza, disse allora: “Maestà, vedete questo pezzo di legno? Io mi tufferò con esso e se lo vedrete rimontare a galla bruciato, vorrà dire che il fuoco esiste, come io dico; ma vorrà anche dire che io sarò morto, poiché il fuoco avrà bruciato me con esso“.
Così, presosi di coraggio si gettò in acqua. Tutti rimasero silenziosi in attesa che Colapesce riemergesse. Attesero e attesero a lungo ma di egli nulla si accennava all’orizzonte. All’improvviso si vide però qualcosa riemergere dalle acque: era il pezzo di legno, ed era bruciato.
Un’altra versione della leggenda narra invece della chiazza di sangue che poco dopo colorò il punto esatto nel quale Colapesce si era gettato. Un’altra versione ancora parla invece di un sacchetto di lenticchie che egli avrebbe portato con sé in fondo al mare, annunciando che se quel sacchetto fosse riemerso, avrebbe significato che egli, il giovane Colapesce non avrebbe più fatto il suo ritorno dai quei fondali.
Al di là delle sue molte varianti, la leggenda dice che Colapesce è lì sotto, in mezzo a quel fuoco che ancora arde intenso tra Messina e Catania. Egli è rimasto sempre lì da quel giorno, mettendosi egli stesso al posto della colonna danneggiata. È lui che ha sacrificato la sua vita per sorreggere e far vivere la sua amata terra.
Quando allora la terra trema non v’è da stupirsi, poiché è lui, il caro Colapesce che stanco per la grande fatica cambia la spalla con cui con vigore sorregge la sua calda terra. È lui che resta laggiù, ancorato all’animo di quei fondali marini; a guardia dell’isola da lui infinitamente amata affinché essa non sprofondi.
Non vi è solo eroismo e sacrificio, ma come ogni leggenda essa contempla più simboli, la coppa d’oro del re ad indicare la ricchezza, la corona il potere e l’anello della giovane principessa, l’amore.
Una leggenda antica come la storia di questa terra e del suo mistero, che ha saputo ispirare scrittori, artisti e musicisti e che ben esprime a suo modo il fascino di quell’attaccamento che viscerale lega ogni siciliano alla sua terra ed al suo mare a cui nemmeno Renato Guttuso ha saputo resistere; realizzandone un’opera che ben omaggia lo stupore delle sirene accortesi del supplizio cui Colapesce stava per andare incontro:
Nella sua bellissima versione riadattata dai Calandra & Calandra, la ballata cantata da Otello Profazio (cantautore e cantastorie dialettale):