Nell’estate del 1990 il giovane Cristopher McCandless salì sulla sua Datsun B210 gialla dell’82 e abbandonò il tetto della casa di famiglia. La società alienante e materialista in cui viveva lo disgustava e necessitava di un viaggio d’espiazione che lo portasse lontano dagli agi della routine borghese. Una mattina partì e andò in cerca di sé stesso. In auto o a piedi, dall’Ovest statunitense al Messico, e, infine, nelle terre selvagge dell’Alaska.

In una lettera che inviò al suo amico Ron riassunse tutta la base filosofica della sua avventura on the road.
“[…] Troppe persone vivono circostanze infelici, eppure non prendono l’iniziativa di cambiare le cose perché sono condizionate da una vita di sicurezze, conformismo e tradizionalismo. […] Non c’è gioia più grande di avere un orizzonte costantemente diverso, vedere ogni giorno un sole nuovo e differente. Se vuoi avere di più dalla vita, Ron, dovresti […] adottare uno stile di vita movimentato. […] Scappa dalla città e mettiti sulla strada. Ti garantisco che sarai felice di averlo fatto, ma temo che ignorerai il mio consiglio. […] Non sistemarti, non stare fermo in un solo posto. Muoviti, sii nomade, fai in modo di vedere un orizzonte nuovo ogni giorno. […] Dobbiamo solo avere il coraggio di ribellarci al nostro stile di vita abituale e scegliere di vivere in modo non convenzionale”.
E Christopher, in effetti, si ribellò eccome, ma il destino non gli riservò un lieto fine. Il suo viaggio durò solo due anni; la sua vita 24 primavere. Ma prima di arrivare all’epilogo partiamo da principio.
Christopher Johnson McCandless nacque a El Segundo, in California, da Willelmina e Walter McCandless. Quando aveva sei anni la NASA offrì un lavoro a suo padre e la famiglia si trasferì prima a Washington DC, poi ad Annandale, in Virginia.

Christopher fu uno studente modello e nel 1986 si diplomò a pieni voti alla Wilbert Tucker Woodson High School di Fairfax. Si iscrisse alla Emory University di Atlanta, dove conseguì una laurea con lode in storia e antropologia nel maggio del 1990.

Il futuro gli sorrideva. Aveva alle spalle una famiglia benestante e un curriculum scolastico di tutto rispetto, ma non era ciò che voleva. Oltre alla comprovata natura filosofico-esistenziale del suo viaggio, nel 2014, sua sorella minore Carine ha pubblicato il libro The Wild Truth, che chiarisce un altro aspetto importante della biografia del fratello. Stando al suo racconto, la loro infanzia fu traumatica. Walter McCandless era un uomo alcolizzato e purtroppo sfogava la propria violenza nei confronti della moglie, che, a sua volta, si rifaceva sui figli. Ai tempi del college Christopher scrisse a Carine:
“Quando sarà il momento giusto, in modo molto brusco e veloce eliminerò completamente i nostri genitori dalla mia vita. Non saranno più i miei genitori… Chiuderò i rapporti con loro, una volta per tutte, per sempre”.
E, infine, lo fece. Dopo la laurea, il 15 maggio donò tutti i suoi risparmi, circa $24.000, alla Oxfam International, un ente benefico impegnato nella lotta contro la povertà, e salì sulla Datsun senza voltarsi indietro.

Imboccò le Highway statunitensi verso ovest, ma ebbe qualche problema. La sua auto aveva l’assicurazione scaduta e non era certo in ottime condizioni. Vari guasti lo costrinsero a numerose soste forzate, ma, in un modo o nell’altro, al tramonto dell’estate raggiunse l’area ricreativa del lago Mead, al confine fra il Nevada e l’Arizona. Vi sostò per qualche giorno, finché un’inondazione improvvisa guastò il motore della Datsun e la rese inutilizzabile.

Rischiava una multa o, nel peggiore dei casi, un arresto; quindi, si sbarazzò della targa e abbandonò l’automobile. Tenne con sé i documenti di riconoscimento, ma bruciò gran parte dei soldi che aveva e s’incamminò in direzione nord-ovest con soli $300. Quelle poche provviste a sua disposizione iniziarono a scarseggiare e grazie all’autostop giunse al cospetto della Sierra Nevada, un’imponente catena montuosa della California, dove trascorse tutto l’inverno del 1990.

Si unì ad altri vagabondi e con loro visse alla giornata, scassinando e derubando le varie capanne con provviste sparse per le alture. Nei primi mesi del 1991 ripartì e, sempre con l’autostop, si spostò prima in Arizona, poi nel South Dakota, dove ottenne un impiego come operatore di montacarichi nella modesta cittadina di Carthage. Per mesi la sua brama d’avventure sembrò placarsi, ma un giorno sparì all’improvviso e lasciò un bigliettino al suo superiore.
“Camminare è troppo facile con tutti questi soldi. Le mie giornate erano più eccitanti quando ero senza un soldo e dovevo cercare cibo per il mio prossimo pasto… Ho deciso che vivrò questa vita per un po’ di tempo a venire”.

Christopher non era più un sedentario, un figlio del materialismo e del consumismo; preferiva avere lo stomaco vuoto piuttosto che il portafogli pieno. Il suo cammino on the road lo portò in Colorado, dove usò tutti i soldi che aveva guadagnato a Carthage per acquistare una pistola e un kayak. Salì a bordo della sua modesta imbarcazione e cominciò a navigare il fiume Colorado. Ovviamente non aveva alcun permesso e, in poco tempo, si sparse la voce di un giovane senza patente nautica né esperienza che era stato visto a più riprese nel fiume. Le autorità gli diedero la caccia ma Christopher non si fermava mai e non riuscirono a rintracciarlo o intercettarlo. Col vento in poppa arrivò al confine col Messico e sfruttò uno stramazzo della diga di Morelos per accedere illegalmente allo stato del Centro America.

Quando s’imbatté in una serie di cascate dovette abbandonare il kayak e tornò sulla terra ferma. Si stabilì nel villaggio di El Golfo de Santa Clara, nella provincia di Sonora, ma pochi giorni gli bastarono per convincersi che il Messico non era adatto al suo pellegrinaggio. Fece dietrofront e cercò di tornare negli Stati Uniti; tuttavia, gli agenti doganali lo arrestarono per possesso di arma da fuoco. L’episodio fu solo un piccolo incidente: gli confiscarono la pistola, lo tennero in custodia per qualche giorno e lo lasciarono andare. Sempre con l’autostop si recò di nuovo a nord, prima nel South Dakota, poi a Fairbanks, in Alaska.
Lì ebbe inizio l’ultimo capitolo della sua vita

Molti testimoni raccontarono di averlo visto girovagare per la zona. Aveva assunto uno pseudonimo, Alexandre Supertramp; diceva di non avere famiglia, viaggiava con un grande zaino in spalla e appariva come un giovane trasandato e sporco.
Il 28 aprile del 1992 un elettricista del posto, Jim Galles, gli offrì un passaggio. Come da consuetudine il giovane si presentò con il nome di Alex e lungo il viaggio gli rivelò i suoi piani. Voleva trascorrere qualche mese nella natura incontaminata del parco nazionale di Denali, ma Jim gli fece notare che aveva troppa poca esperienza e troppe poche provviste per sopravvivere nelle terre selvagge dell’Alaska. Il ragazzo, però, era irremovibile. Gli propose, almeno, di fermarsi ad Anchorage per comprargli un’attrezzatura migliore, ma Christopher rifiutò e Jim lo lasciò lungo lo Stampede Trail, un percorso accidentato adiacente al parco di Denali appena fuori la cittadina di Healy.
Fu l’ultimo essere umano a vederlo vivo

Quando si addentrò nella fittissima radura della zona Christopher aveva con sé circa 4 chilogrammi di riso, un fucile semiautomatico Remington, alcuni romanzi, un manuale di botanica e vari effetti personali, fra i quali un diario e una macchina fotografica. I suoi mezzi di sussistenza furono la caccia agli animali selvatici, quali istrici, scoiattoli, pernici e oche canadesi, e la raccolta di piante o bacche non tossiche, che sceglieva con cura grazie al libro della dottoressa Priscilla Russel Kari che aveva con sé. Le difficoltà non mancarono e il giudizio di Jim Galles si rivelò un triste presagio perché la natura incontaminata dell’Alaska era una sfida molto insidiosa per l’inesperienza di Christopher. Ad esempio, attraverso il suo diario sappiamo che il 9 giugno del 1992 uccise un alce, ma non riuscì a conservarne la carne, che si deteriorò nel giro di pochi giorni.

Una tappa significa della sua avventura nel parco di Denali fu quando, sempre in primavera, attraversò il fiume Teklanika, uno dei principali ostacoli del posto. Guadagnò la riva opposta e approdò in una zona isolata, dove rinvenne un autobus abbandonato che sfruttò come dimora di fortuna.

La storia del Magic Bus, come lo ribattezzò Christopher, è molto interessante. Si trattava del Fairbanks City Transit System Bus 142, un autobus K-5 del 1946, prodotto dalla International Harvester. In origine i mezzi erano tre e la Yutan Construction Company li aveva messi a disposizione di quegli operai che, negli anni ’60, avevano lavorato agli aggiornamenti stradali dell’area. Nel decennio successivo la compagnia li rimosse tutti, tranne il Magic Bus, al quale, però, smontarono il motore. Quando la storia di Christopher divenne di pubblico dominio, e lui un’icona dei giovani in cerca d’avventure, il Magic Bus si trasformò un’ambitissima, e pericolosissima, meta di pellegrinaggio.

Per più di 20 anni le guardie forestali hanno avuto un gran bel da fare. Ci sono state numerose missioni di soccorso e ben due persone sono morte nel tentativo di attraversare il Teklanika. Per tali ragioni, il 18 giugno del 2020, un elicottero ha prelevato il Magic Bus e lo ha rimosso dalla zona. Il successivo 24 settembre il Museum of the North dell’università dell’Alaska ha annunciato l’allestimento di una mostra che possa offrirlo al pubblico senza alcun pericolo.

E ora, torniamo a Christopher.
Nel luglio del 1992 decise di tornare alla civiltà e percorse a ritroso il tragitto d’andata di due mesi prima, ma quando si trovò dinanzi al Teklanika non riuscì ad attraversarlo. Lo scioglimento del vicino ghiacciaio di Cantwell, infatti, ne aveva innalzato le acque e aumentato la velocità del flusso. Christopher non aveva una mappa topografica del parco e non sapeva che a circa 800 metri di distanza c’era una funivia abbandonata che poteva sfruttare per la traversata. Attorno a lui vi erano vaste e sconosciute radure in cui gli era impossibile orientarsi; quindi, tornò indietro per aspettare un momento migliore e guadagnarsi l’altra riva.
Così, ebbero inizio i suoi ultimi giorni

Nel suo diario le annotazione giornaliere divennero la testimonianza di tutte le difficoltà a cui andò incontro. Cominciò a sentirsi debole, affaticato e, soprattutto, affamato. Con la macchina fotografia si scattò alcune foto, di cui due sono emblematiche. In una si riprese seduto e allegro fuori dal Magic Bus; nell’altra sorrideva e salutava con in mano un bigliettino, poi rinvenuto, con su scritto: “Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica”.

Christopher era magro e denutrito e il modo in cui salutava con in mano quel messaggio fu una sorta di commiato fotografico, come se già sapesse il destino che lo attendeva.
Quando capì che i morsi della fame lo stavano logorando, appese un cartello fuori al Magic Bus.
“Attenzione possibili visitatori. SOS. Ho bisogno del vostro aiuto. Sono ferito, vicino alla morte e troppo debole per uscire. Sono tutto solo, questo non è uno scherzo. In nome di Dio, vi prego, restate a salvarmi. Sono fuori a raccogliere bacche nelle vicinanze e tornerò questa sera”.
Purtroppo, non passò nessuno. Il suo diario mutò d’aspetto e l’ultima annotazione fu “bellissime bacche blu”. In seguito, si limitò a contrassegnare i giorni dal 108° al 112°; a partire dal 113° tutto tacque. Oltre al mese di agosto, non sappiamo ora e data esatta del suo decesso. Il 6 settembre del 1992, un gruppo di cacciatori s’imbatté nel Magic Bus e, quando vi entrarono, ne rinvennero il cadavere in decomposizione, avvolto in un sacco a pelo. Secondo l’autopsia, il giovane era morto per le conseguenze di una gravissima malnutrizione e pesava appena 30 kg.
Nel 1993 il saggista e alpinista Jon Krakauer visitò il Magic Bus e scrisse un articolo per la rivista Outside. La storia di Christopher, però, lo appassionò a tal punto che, nel 1996, pubblicò Into the Wild, poi trasposto sul grande schermo in un film omonimo diretto da Sean Penn. È interessante notare che è solo grazie alle ricerche di Krakauer se sappiamo come morì davvero Christopher.

La teoria sulla malnutrizione era più che plausibile, ma c’era qualcosa che non lo convinceva. Il 30 luglio del 1992, infatti, il giovane aveva scritto sul suo diario un appunto che diceva: “Estremamente debole. Colpa dei semi di patate. Gran difficoltà a reggermi in piedi. Ho fame”.

Nei suoi sopralluoghi al parco di Denali, Krakauer notò la presenza dei semi della Hedysarum alpinum e della Hedysarum mackenzii, rispettivamente una patata selvatica e una pianta di piselli con un alcaloide tossico. Christopher aveva con sé un manuale di botanica, dove l’autrice specificava la pericolosità della seconda, e gli parve inverosimile che se ne fosse cibato o l’avesse confusa con la prima. D’altro canto, la nota sul diario era abbastanza esplicita e consultò un professore di biochimica della vicina università di Fairbanks per far luce sulla vicenda. Le analisi furono inconcludenti e la Hedysarum alpinum non presentava alcun alcaloide tossico.

Nel 2012, però, giunse in suo soccorso lo scrittore Ronald Hamilton, che ne appoggiò la tesi e gli parlò di un curioso episodio della Seconda guerra mondiale. Nel campo di concentramento di Vapniarca, in Ucraina, il medico ebreo Arthur Kessler si rese conto che alcuni prigionieri avevano perso molto peso e avevano notevoli difficoltà a deambulare. Scoprì che tali circostanze erano dovute al pane prodotto con i semi del Lathyrus sativus, un legume tossico noto fin dai tempi di Ippocrate. Da quando i nazisti avevano introdotto quella pietanza nella misera dieta degli ebrei internati questi avevano iniziato a soffrire di latirismo, una sindrome neurotossica causata dall’aminoacido ODAP.

L’aiuto di Hamilton fu prezioso per Krakauer, che tornò a studiare il caso McCandless e ordinò degli esami specifici sull’Hedysarum alpinum, per capire se vi fosse traccia dell’ODAP. Si scoprì che al suo interno l’amminoacido in questione era presente in una quantità tale da poter intossicare un ragazzo nella situazione di Christopher. A una persona sana non avrebbe fatto niente, ma in chi soffriva di malnutrizione provocava disturbi e paralisi agli arti inferiori.
In definitiva, ecco l’esatta ricostruzione degli ultimi giorni di Christopher McCandless
Grazie al manuale di botanica il giovane evitò il pisello selvatico, ma si cibò dei semi della patata. La sua dieta non era certo ricca e l’assunzione prolungata dell’alpinum lo debilitò fino a immobilizzarlo quasi del tutto. A poco a poco non poté più camminare e procacciarsi da vivere. Morì invalido e affamato.

Nel corso degli anni la sua figura è diventata un simbolo giovanile e grazie agli articoli, ai saggi, ai documentari e ai film incentrati su di lui, Christopher continua a vivere nell’immaginario comune. Ancora oggi c’è chi lo idolatra e chi lo giudica con severità. Forse era solo un ragazzo allo sbando che ebbe la presunzione di dominare la natura selvaggia senza i mezzi necessari per farlo. Krakauer non è mai stato di quest’avviso e ha sempre appoggiato l’idealismo di Christopher. In più di un’occasione ne ha difeso la memoria e lo ha descritto, in linea di massima, come un giovane che “voleva essere il primo a esplorare un punto vuoto sulla mappa“. E, forse, il prosieguo del pensiero dello scrittore statunitense è il perfetto riassunto di quello spirito libero che è stato Christopher McCandless.
“Nel 1992, tuttavia, non c’erano più punti vuoti sulla mappa, non in Alaska, né da nessuna parte. Ma Chris, con la sua logica idiosincratica (una metaforica allergia alla società; n.d.r.), ha trovato una soluzione elegante a questo dilemma: si è semplicemente sbarazzato della mappa”.

Non tutte le storie hanno un lieto fine, ma quella di Christopher la si può guardare sotto un altro punto di vista, attraverso quel sorriso che esibì nei suoi ultimi autoscatti, quando già era esile, quando già stava morendo di fame. Un saluto alla società, un bigliettino con un addio e una constatazione: “Ho avuto una vita felice”.
NOTA DELL’AUTORE – Tutte le foto di Christopher sono di proprietà della Christopher Johnson McCandless Memorial Foundation e, in assenza di una licenza Creative Commons, non possono essere riportate in quest’articolo. Per vedere la foto di Christopher che saluta con in mano il suo biglietto d’addio vi lascio il link dell’articolo sul The New Yorker dove Krakauer spiega le sue scoperte sulla causa di morte del ragazzo. Cliccate qui