I primi movimenti pacifisti furono duramente osteggiati nelle nazioni in cui comparvero.
Il volume “Guerra alla guerra” di Ernst Friedrich (la raccolta delle immagini di una mostra itinerante che dal 1924 portò a conoscenza dei tedeschi gli orrori della Grande Guerra, finché fu vietata dai nazisti e il suo curatore dovette riparare all’estero, fortunatamente portando con sé tutto il suo ricco repertorio iconografico), contiene delle impressionanti foto di obiettori di coscienza turchi impiccati dopo essere stati condannati per disfattismo.
Il filosofo Bertrand Russell, anche lui pacifista e obiettore, denunciò che, nei “campi di lavoro” nei quali venivano rinchiusi gli obiettori di coscienza inglesi, le condizioni di vita erano talmente dure che moltissimi ospiti finivano per morire di stenti o banali malattie (ammetteva di aver evitato un tale destino solo perché, in quanto aristocratico e appartenente a una famiglia importante, era stato trattato molto meglio).
Bertrand Russell nel 1916
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Ma, se non altro, le loro rivendicazioni e le continue denunce di abusi e crudeltà commessi durante i conflitti bellici, sensibilizzarono l’opinione pubblica (all’epoca praticamente limitata alle sole classi dirigenti e alla borghesia) sulla necessità di stabilire delle regole condivise che non rendessero le guerre dei macelli senza fine.
Da questa presa di consapevolezza nacquero le convenzioni internazionali, quella firmata a L’Aja nel 1907 e altre firmate a Ginevra in tempi diversi, che hanno in qualche modo “regolamentato” i due conflitti mondiali che hanno segnato il XX secolo.
Purtroppo queste convenzioni sono state più volte violate e la storia di queste violazioni e di ciò che ne seguì, in termini di denunce o scoperte successive, e complicate estradizioni e processi, è un argomento di tale complessità e vastità che occorrerebbero migliaia di articoli per trattarlo in maniera minimamente esauriente.
Un tema che però risulta relativamente poco trattato dalla storiografia è quello dei vuoti normativi e delle contraddizioni irrisolte che gli articoli di queste convenzioni lasciavano. Vuoti e contraddizioni che non di rado hanno portato ad atrocità che si è poi cercato di far passare per legittime, anche se la critica storica moderna non le giudica affatto tali.
Anche questo argomento è complesso e la sua piena comprensione richiederebbe una trattazione specialistica e multidisciplinare, per cui, volendo rimanere nei tempi e sui livelli di una normale esposizione divulgativa, è più opportuno limitarsi a un esempio particolarmente significativo.
Siamo nel 1916 ed è in corso, nella più vasta cornice della Grande Guerra, la guerra sottomarina degli U-Boot tedeschi per bloccare i rifornimenti provenienti dagli USA, allora neutrali, a Francia, Regno Unito e Alleati. Com’è noto, questa strategia fallirà perché otterrà soprattutto l’effetto di mobilitare l’opinione pubblica statunitense, inizialmente restia a far coinvolgere il proprio Paese nel conflitto, contro i tedeschi, rei di affondare le loro navi e di uccidere quindi civili americani. E alla fine saranno proprio i tedeschi, insieme ai loro alleati austriaci, a doversi arrendere, quando la macchina industriale che sosteneva lo sforzo bellico era arrivata al collasso per mancanza di rifornimenti.
Una squadriglia di U-Boot a Kiel nel 1914
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Gli U-Boot tedeschi avevano l’ordine di attaccare qualunque nave civile sospettassero di trasportare armi o altro materiale utile alla causa bellica. Se le navi in questione battevano la bandiera di un Paese neutrale, i comandanti tedeschi si assumevano ogni responsabilità delle conseguenze, perché gli attacchi ai civili erano espressamente vietati. Ma, se le navi erano inglesi, la situazione era molto più complessa.
Infatti, i capitani delle navi mercantili inglesi si trovavano, letteralmente, tra l’incudine e il martello. Da un lato, avevano ricevuto dall’Ammiragliato il preciso ordine di non farsi prendere e, se fosse stata impossibile la fuga, di resistere in ogni modo agli attacchi dei sommergibili, ad esempio attraverso lo speronamento. Era infatti espressamente previsto, per il capitano di un mercantile che non avesse opposto resistenza, il deferimento in giudizio per codardia di fronte al nemico.
Da un altro punto di vista, secondo la convenzione in vigore, il civile che avesse combattuto apertamente il nemico sarebbe stato processabile da questo con l’accusa di terrorismo e quindi passibile della pena capitale.
In altri termini, i capitani delle navi mercantili inglesi si sarebbero trovati a rischio di processo, condanna ed esecuzione capitale per aver resistito agli attacchi, ma anche per non averlo fatto.
In questa situazione matura la vicenda di Charles Fryatt
Fryatt è un uomo di mare nel senso più stretto del termine. Nato a Southampton nel 1872, figlio di un marinaio, si può dire che abbia imparato a navigare prima ancora che a camminare. È anche un marinaio molto preparato, che fa carriera rapidamente come ufficiale sulle navi civili. Dal 1892 è entrato nei ranghi di una importante compagnia marittima, la Great Eastern Railway, e dal 1913 presta servizio come comandante di navi passeggeri.
Charles Fryatt
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Viene assegnato a una tratta comoda, quella che va dal porto di Harwick, nell’Essex, a quello di Hook of Holland, vicino Rotterdam. Un viaggio secondo una rotta Ovest-Est e viceversa, che si compie in meno di una giornata, in una zona in cui il mare raramente riserva brutte sorprese. La tratta è servita da diverse navi della compagnia e lui comanda quella che è in servizio quando è di turno.
La guerra, ovviamente, cambia tutto.
Il 3 marzo 1915, mentre è al comando della SS Wrexham, viene attaccato da un U-Boot. Forzando i motori fino a raggiungere una velocità intorno ai 30 km/h, molto superiore a quella massima consentita al sommergibile, riesce a sfuggirgli dopo un inseguimento durato due ore e mezza, lungo circa 74 km. Quando arriva a Rotterdam ha quasi fuso i motori, ma la nave è tutta intera.
Per la compagnia si è comportato bene, e in premio gli arriva un orologio d’oro con un’iscrizione commemorativa
Dopo qualche giorno, un altro U-Boot lo attacca, mentre è al comando della SS Colchester, e anche stavolta si dà alla fuga e semina il nemico arrivando a Rotterdam senza nessun danno.
Il 28 marzo, la storia si ripete, ma stavolta in circostanze molto sfavorevoli. La nave comandata da Fryatt, la SS Bruxelles, si ritrova il sommergibile davanti e non dietro, cosa che complica moltissimo la manovra di sganciamento e allontanamento. Allora Fryatt, senza aspettare di essere preso d’assalto, cannoneggiato o silurato, dà esecuzione alle direttive dell’Ammiragliato e punta la prua verso il nemico, tentando di speronarlo. Stavolta sono i tedeschi, quelli dell’U-33, a scappare, senza peraltro aver subito il minimo danno dall’attacco.
La notizia del fatto arriva nel Regno Unito e Fryatt riceve in premio un altro orologio d’oro commemorativo, stavolta dall’Ammiragliato, insieme a una pergamena e a una citazione durante una seduta della Camera dei Comuni.
I tedeschi, invece, se la legano al dito
I regolamenti dell’Ammiragliato britannico prevedono che le navi in viaggio di notte rispettino il più assoluto oscuramento per rendersi invisibili al nemico, ma a volte capita che la disposizione sia disattesa da qualcuno a bordo. Nella notte del 23 giugno 1916, qualcuno sulla SS Bruxelles, che sta viaggiando di nuovo al comando di Fryatt, lascia accesa una luce di troppo e, stavolta, la nave si ritrova circondata da 5 cacciatorpediniere e catturata con tutto l’equipaggio.
La nave viene trasportata prima a Zeebrugge, poi a Bruges (sarà riutilizzata con il nome di Brugge, poi autoaffondata nel 1918, recuperata dagli inglesi, rimessa in servizio come Lady Bruxelles e infine demolita nel 1929). L’equipaggio viene internato nel campo di prigionia di Ruhleben, vicino Berlino. Tutti vengono perquisiti e addosso a Fryatt vengono trovati i due orologi commemorativi ricevuti in premio.
SS Bruxelles affondata a Zeebrugge, ottobre 1918
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Il 16 luglio, i giornali tedeschi annunciano che il capitano inglese prigioniero Charles Fryatt sarà giudicato per terrorismo, essendo responsabile dell’attacco e dell’affondamento dell’U-33. Già questa notizia è una enorme menzogna, perché l’U-33 naviga ancora ed è regolarmente in servizio nel Mar Nero. Ma i tedeschi vogliono “dare l’esempio”, secondo il principio “colpirne uno per educarne cento”, che è la più solenne idiozia mai partorita nella storia della propaganda, perché con queste azioni si riesce solo a spaventare chi è già spaventato, mentre con tutti gli altri si ottiene l’effetto esattamente contrario.
Giudicano quindi Fryatt in un processo farsa che si svolge nel municipio di Bruges il 27 luglio, processo che dura pochissimo, durante il quale il capitano inglese non viene neppure ascoltato. La condanna è ovviamente quella capitale. Il Kaiser la conferma quasi in tempo reale e la sentenza viene eseguita tramite fucilazione in un’area isolata del porto di Bruges, alle 19 dello stesso giorno. Poi Fryatt viene frettolosamente seppellito, insieme ad altri “terroristi” belgi, fuori della città.
Fieri del loro capolavoro, i tedeschi annunciano anche l’avvenuta esecuzione con un proclama redatto in tre lingue (olandese, francese e tedesco) e firmato dall’ammiraglio Schroder, comandante del porto di Bruges.
Avviso di esecuzione in tedesco, olandese e francese
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Gli inglesi, com’è prevedibile, non la prendono bene.
Il 31 luglio, il premier Asquith, riferendo sul fatto alla Camera dei Comuni, parla espressamente di “atroce crimine contro le nazioni e gli usi della guerra” ed esprime il desiderio di vedere puniti con ogni mezzo i responsabili. Il presidente della Great Eastern Railway, Hamilton, denuncia invece “l’omicidio puro e brutale” di un suo dipendente. La stampa inglese usa toni pesantissimi per commentare la notizia, ma anche quella dei Paesi neutrali non è da meno.
L’effetto della condanna di Fryatt, come si diceva prima, è esattamente l’opposto di quello che i tedeschi pensavano di ottenere. Nelle settimane successive alla sua esecuzione, nel Regno Unito si assiste a un boom di arruolamenti volontari di gente che non vede l’ora di farla pagare ai suoi assassini.
I marinai inglesi scrivono con la vernice “da parte del capitano Fryatt” sui proiettili di cannone che spareranno contro i tedeschi
Sorgono in tutto il Paese monumenti alla memoria del capitano ucciso, il più importante dei quali è una lapide ben visibile vicino alla stazione di Liverpool Street a Londra. Né le autorità si dimenticano della famiglia dell’uomo, che era sposato e aveva sette figli, tra i quali sei femmine. Ad essi e alla vedova sono concesse due pensioni, una di 250 sterline annue dalla compagnia e una di 100 sterline annue dal governo (il re scrive loro una lettera di proprio pugno). L’orfanotrofio della Royal Merchant Seaman offre borse di studio ai figli. L’unico figlio maschio di Fryatt diventerà anche lui marinaio, continuando la tradizione di famiglia.
Memoriale al capitano Charles Fryatt alla stazione di Liverpool Street a Londra
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Finisce la guerra e il primo ambasciatore inglese inviato nel Belgio liberato dai tedeschi, Walter Townley, si dà un gran da fare per recuperare le salme di Fryatt e di Edith Cavell (un’infermiera inglese nata nel 1865 e fucilata dai tedeschi a Schaerbeeck il 12 ottobre 1915, dopo essere stata condannata per aver aiutato dei prigionieri a fuggire. Oggi è ricordata con un imponente monumento che si trova in St. Martin Place, accanto a Trafalgar Square) e le riporta in patria in pompa magna insieme a quella del Milite Ignoto.
L’8 luglio 1919 si svolge un solenne servizio funebre in memoria del capitano nella cattedrale di Saint Paul, poi la salma viene traslata ad Harwich, dove risiedeva da vivo, e sepolta nella Chiesa di Tutti i Santi, dove riposa ancora oggi.
Nella Germania sconfitta, invece, si fanno i conti con quanto successo, ma molto all’acqua di rose. Nello stesso 1919, il nuovo governo tedesco costituisce una commissione giuridica per stabilire se la condanna di Fryatt fosse o meno legittima. La conclusione è gattopardesca: la condanna era legittima, ma è stato assolutamente inopportuno procedere alla sua esecuzione. Non tutti sono d’accordo, però: due dei nomi più illustri della commissione, Eduard Bernstein e Oskar Cohn, intervistati al riguardo, definiscono la condanna di Fryatt “un ingiustificabile omicidio giudiziario”.
Parole che in quel momento suonano paradossali ma in realtà si riveleranno tristemente profetiche. I due giuristi sono entrambi ebrei, ma non vivranno abbastanza da subire la Shoah (Bernstein muore nel 1932, Cohn nel 1934). Dopo il 1945, la Repubblica Federale Tedesca annullerà migliaia di condanne capitali pronunciate dai tribunali durante il regime nazista e incriminerà, se viventi, chi le ha pronunciate, proprio con l’accusa di “omicidio giudiziario”.
A Fryatt viene dedicato un film prodotto in Australia nel 1917. I canadesi gli intitolano invece il Monte Fryatt, alto 3361 m.
Un dettaglio significativo della mentalità dei tempi è che i familiari di Fryatt, temendo ritorsioni nei loro riguardi (è possibile che avessero subito delle minacce) se l’Inghilterra fosse stata invasa dai tedeschi, cambiarono il loro nome in Luckett, per non essere facilmente rintracciati. L’ultima figlia del capitano, Dorothy, è morta a 102 anni nel 2016.