Pubblicato nel 1922, “Argonauti del Pacifico Occidentale” diverrà uno dei lavori più influenti nel panorama antropologico, oltre a, per usare le parole di F. Dei, “il manifesto e il paradigma di un nuovo modo di intendere la ricerca e di presentarne i risultati”. Frazer, il celebre autore del Ramo d’Oro, nella prefazione all’opera di Malinowski elogia immediatamente il suo metodo di lavoro, svolto “nelle migliori condizioni e nel modo calcolato per garantire i migliori risultati possibili”, conseguiti soprattutto grazie alla sua grande preparazione teorica, all’esperienza maturata durante il periodo di lavoro presso gli Aborigeni e i Maliu della Nuova Guinea.
Questi risultati saranno raccolti proprio nell’opera incentrata sui nativi delle Trobriand, presso i quali vivrà diversi mesi, osservandoli nella loro quotidianità, conversando con loro senza l’ausilio di interpreti (imparando quindi la lingua locale), ottenendo interviste mediante donazione di tabacco. Frazer apprezza molto il metodo dell’osservazione partecipante di Malinowski, non conforme ai metodi di studio degli altri antropologi ed etnografi, rei di soffermarsi più sul “lato più alto della natura umana”, che su qualsiasi altro aspetto.
Sotto, l’arcipelago delle Trobriand:
Il ricercatore polacco guarda i locali nel loro complesso. Sente il bisogno di utilizzare questo metodo, magari prendendo anche a esempio le cosiddette scienze esatte, molto apprezzate dal viaggiatore per la loro rigorosità. Non si può permettere che i “selvaggi” spariscano dal mondo senza che se ne conservi memoria. I tempi erano maturi, gli antropologi sempre più preparati, iniziavano a viaggiare, ma non ci si poteva fermare a osservazioni oggettive parziali, bisognava scavare più a fondo, lavorare di più nonostante la difficoltà a trovare finanziamenti. Va precisato che tali gruppi non stavano “scomparendo” solo a causa di genocidi e malattie, ma si stavano pian piano trasformando, soprattutto sotto gli influssi occidentali. Questo mutamento, però, è sempre avvenuto, anche se forse in misura minore. Le società isolane non erano chiuse ermeticamente: viaggiavano, interagivano fra loro e si influenzavano a vicenda. Nulla di naturalmente immobile.
La ricerca, dunque, doveva sventare la dipartita. E lo doveva fare occupandosi “della totalità di tutti gli aspetti sociali, culturali e psicologici della comunità, poiché sono così intrecciati che nessuno può essere compreso senza prendere in considerazione tutti gli altri”. Sarà proprio questo che cercherà di fare durante la sua permanenza alle Trobriand, senza tagliare mai completamente, come spesso si crede, i legami col mondo moderno. Avrà sempre con sé la sua fedele macchina fotografica, il fonografo, gli strumenti antropometrici e altri accessori. Per non parlare dei romanzi che leggeva avidamente. Di fatto è questa la sua osservazione partecipante:
Vivere la quotidianità con i nativi, ma rimanendo sempre ancorato alla propria società
Non era diventato un Trobriander. La ricerca stessa lo teneva legato alla sua società di provenienza, in quanto condotta proprio per essa. Era lì per lavorare, finanziato da importanti istituti inglesi, e per raccogliere materiali etnografici da portare al mondo civilizzato. Non proprio quel, citando Fabietti, “simbolo dell’uomo avventuroso che, rotti i legami col proprio gruppo e lasciatesi dietro le spalle le convenzioni sociale, compie… la fuga dalla civiltà”.
Così Malinowski, sicuro delle sue convinzioni, si ritrovò “da solo” insieme ai selvaggi. Questi difatti non erano parte del “noi” occidentali, del “noi” anglofoni, del “noi” gentiluomini. Erano primitivi, appartenenti a un altro mondo, che andava studiato, protetto, forse un po’ disprezzato e trattato con sufficienza. Insomma, era da solo in mezzo ad altre persone, ad alieni.
“Immagina di trovarti improvvisamente circondato da tutte le tue attrezzature da solo su una spiaggia tropicale vicino a un villaggio nativo… Immagina inoltre di essere un principiante senza esperienze precedenti, senza nulla che ti guidi e nessuno che ti aiuti. Perché l’uomo bianco è temporaneamente assente, oppure incapace o non disposto a perdere tempo con te”.
Il ricercatore è “solo”. Lontano dal suo gruppo. Cerca di impiegare il suo tempo lavorando, entrando in contatto coi nativi, confrontandosi con lo sconforto, combattendo la noia con la lettura dei suoi inseparabili romanzi. La solitudine è quindi solo una percezione. Egli non è l’unico uomo del villaggio. E’ circondato da altre persone, alcune più curiose ed estroverse, altre più timide. Si cercano dei punti di contatto. E’ necessario, ha bisogno del contatto umano. Alcune parole, dei gesti, il tabacco. Si osserva il lavoro altrui, la pesca, la fabbricazione di manufatti, l’intreccio di tessuti, la cucina locale, la cura del corpo, le liti; si fanno domande.
Cos’è quello? Come si chiama questo? Come si fa?
Domande semplici, ma utili. Utili a rompere il ghiaccio, a ottenere le prime informazioni e ad affrontare le immediate difficoltà linguistiche. La lentezza nel creare i rapporti desiderati, però, porta con sé una certa dose di frustrazione. Il ricercatore è impaziente, vorrebbe capire, conoscere, entrare nella mente dei nativi. Si rende conto di come gli altri bianchi che avevano contatti con loro non li avessero mai conosciuti veramente, di come i loro approcci fossero superficiali e carichi di pregiudizi. Questo fa del ricercatore una sorta di pioniere, che non va a scoprire una nuova terra, ma una società nel suo complesso.
Si sveglia nella sua capanna, esce, contempla quel mare cristallino che già altri, prima di lui, hanno apprezzato, ma poi deve inoltrarsi nel villaggio per scoprire di che cosa è composto. I nativi girano coperti da un perizoma, conducono la loro semplice vita, lo osservano, parlano di lui. E’ il nuovo arrivato. Il bianco, l’elemento di disturbo, che cerca di uscire dalla sua sfera, di superare le prime timidezze, che non conosce le buone maniere.
Un po’ malaticcio, insonne, debole fisicamente. Quello che accusa dolori, che si fa iniezioni di medicinali per combattere i disturbi del sonno, quello che talvolta si lamenta di non riuscire a concentrarsi, che ha mal di testa, sessualmente frustrato, traboccante di desiderio.
Il nostalgico, che pensa ai suoi cari, alla guerra. Quella guerra che mieterà milioni di vite e che lo teneva bloccato in quella prigione paradisiaca. Era come vivere in un altro mondo. Era spesso irrequieto, arrabbiato, depresso. Trovava un po’ di conforto nel contemplare i meravigliosi e pittoreschi paesaggi terapeutici dei paradisi ai margini del Pacifico. Intrappolato in un eden privo di un Dio che lo potesse cacciare, anzi bloccato dall’infuriare della Grande Guerra, Malinowski vivrà l’avventura della sua vita. Un malinconico antieroe, depresso, iracondo, frustrato, ammiratore della natura e virtuoso protettore della memoria. Insomma, un uomo qualsiasi.
Sotto, Targa realizzata in suo onore dai bambini delle isole. Fotografia di Kadamwasila condivisa con licenza Creative Commons 4.0 via Wikipedia:
Letture consigliate e fonti:
Antropologia culturale, Fabio Dei
Storia dell’antropologia, Ugo Fabietti
Argonauti del Pacifico Occidentale, Bronislaw Malinowski
A diary in the strict sense of term, Bronislaw Malinowski.