Negli anni ’30 del secolo scorso nessun editore vuole pubblicare un libro-intervista dell’antropologa afroamericana Zora Neale Hurston. E così sarà per altri 80 anni.
Nel 1931 la Hurston frequenta il Barnard College, dove è allieva di Franz Boas, uno dei pionieri dell’antropologia, che le affida il compito di intervistare le persone di origine africana che ancora vivono nel sud degli Stati Uniti. Lei stessa è crescita a Eatonville, in Florida, che non è un sobborgo di neri ai margini di una città di bianchi, ma una comunità afroamericana indipendente.
Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:
Zora Neale Hurston
Hurston scova in Alabama l’ultimo superstite dell’ultima nave negriera approdata negli Stati Uniti. E’ Cudjo Lewis, del popolo Yorupe, che viveva nell’attuale Benin, reso schiavo nel 1860, quando ha all’incirca 19 anni. Dal racconto dell’ex schiavo ricava un libro, Barraccoon, che sarà pubblicato solo nel 2018.
Cudjo Lewis, 1914 circa
La storia di Cudjo Lewis
Kossola, il nome originale di Cudjo, è felice quando gli anziani lo portano a caccia: impara a tirare con l’arco, a riconoscere le tracce degli animali e può finalmente tornare al villaggio con qualche preda. Tutta un’altra cosa rispetto a quando si diverte con i fratelli a chi corre più veloce, o raccoglie ananas, banane e noci di cocco. E’ felice perché adesso è un guerriero, come i suoi fratelli maggiori. Il capo villaggio dice che li ha resi coraggiosi e forti, così nessuno oserà far loro guerra. Passano “quattro o cinque stagioni della pioggia”, Kossola diventa grande e forte, può correre tutto il giorno senza stancarsi.
Il re del Dahomey però non ha paura di nessuno, lui che ha un corpo scelto di indomite amazzoni e guerrieri armati con armi da fuoco francesi. Sono soliti fare incursioni annuali, questi guerrieri del Dahomey, a caccia di persone da vendere ai negrieri che ancora lucrano sulla tratta degli schiavi tra Africa e Stati Uniti, malgrado sia contro la legge da qualche decennio.
Hanno marciato tutta la notte i Dey (i guerrieri del Dahomey), che arrivano all’alba al villaggio, quando Kossola ancora dorme. Sente urlare, si affaccia fuori e vede nemici armati e donne soldato che “uccidono così velocemente con il coltello” da non lasciare scampo. Tutti corrono verso la foresta ma vengono catturati, compreso il capo-villaggio, che finisce con la testa tagliata da un’amazzone perché rifiuta un accordo con il re del Dahomey.
I prigionieri camminano per tre giorni sotto “un sole così caldo”, finché arrivano in riva all’oceano, che nessuno di loro ha mai visto.
Mappa disegnata da Cudjo Lewis per illustrare la cattura e il viaggio verso la schiavitù
Lì ci sono delle baracche, i Barracoon, dove sono rinchiusi in tanti, ma divisi per Nazione. Dopo tre settimane arriva un uomo bianco che sceglie gli uomini e le donne da portare via sull’ultima nave negriera, la Clotilda.
Kossola affronta, insieme a un centinaio di prigionieri, quel terrorizzante viaggio per mare, su acque agitate che fanno tanto rumore e ringhiano come “migliaia di bestie”, mentre a volte il vento urla ancora più forte. Qualche volta la nave sembra arrivare fino in cielo, per poi sprofondare in fondo al mare. Sono 70 giorni di paura, dolore e rimpianto, poi la Clotilda arriva nel Golfo dell’Alabama. Gli schiavi rimangono sotto coperta fino a notte, poi vengono portati in una palude per alcuni giorni, per eludere la sorveglianza delle autorità governative.
Il capitano della Clotilda, William Foster, lavora per Timothy Meaher, uomo d’affari di Mobile (Alabama) che si vanta di poter far arrivare schiavi dall’Africa, nonostante la legge lo vieti. Le autorità sanno di quel “carico” in arrivo, ma loro la fanno franca perché riescono a nascondere i prigionieri e fanno affondare la Clotilda.
I prigionieri vengono separati e quel distacco è doloroso quanto quello straziante dalla loro terra. Piangono perché, come confessa Kossola, “il nostro dolore sembra così pesante che non possiamo sopportarlo. Penso che forse muoio nel sonno quando sogno la mia mamma.”
Kossola diventa Cudjo, perché il suo padrone non sa pronunciare il suo nome
E comunque tutte quelle persone dal “colore della mammella” (Kossola intende del latte) non capiscono quando lui parla, ma intanto impartiscono ordini con la frusta.
Cudjo passa cinque anni in schiavitù, finché i soldati yankee sbarcano a Mobile. Mangiano gelsi dagli alberi mentre loro, ignari della Guerra Civile e della sconfitta sudista, ancora faticano come schiavi per Meaher. Sono quegli uomini in divisa blu ad informarli che ora sono liberi, che non devono rimanere lì a lavorare senza paga, che possono andare dove vogliono.
Ma il problema è proprio quello: dove andare?
Cudjo e gli altri vorrebbero tornarsene a casa, risparmiare qualche soldo e pagarsi il viaggio verso l’Africa. Accarezzano questo sogno per un po’, poi capiscono che non è realizzabile: costa troppo quella traversata verso la loro terra così lontana, dove comunque sono stati ridotti in schiavitù dai loro “fratelli” neri.
Un gruppo di ex-schiavi di Meaher, incluso Cudjo, lavora nei mulini, nelle segherie, nelle case dei bianchi, e dopo qualche anno riesce a comprare un po’ di terra dal vecchio padrone. Quegli uomini ormai liberi fondano un villaggio, Africantown. E’ una “città nera” indipendente, dove vivono solo persone che provengono dall’Africa, che parlano nella loro lingua, seguono antiche regole tribali e si esprimono con molta difficoltà in inglese.
Cudjo Lewis con la moglie Abache, anche lei arrivata in Alabama con la Clotilda
Hurston, seguendo l’insegnamento di Boas, quando trascrive i racconti di Cudjo, usa il suo linguaggio: un inglese “dialettale” parlato dalla popolazione di colore. L’editore rifiuta il lavoro, chiedendo che sia riscritto in un inglese corretto. Hurston non accetta e non vedrà mai la pubblicazione di Barracoon, che nemmeno gli intellettuali afroamericani dell’epoca apprezzano, proprio per quel linguaggio che, secondo loro, amplifica il divario fra neri e bianchi, riducendo a caricatura (per il divertimento dei bianchi) la cultura afroamericana.
L’altro aspetto spinoso del libro, che infastidisce gli afroamericani dell’epoca, è quella testimonianza tanto incontestabile quanto drammatica, della responsabilità di alcune popolazioni africane nella tratta degli schiavi: la descrizione delle “atrocità che gli africani hanno inflitto gli uni agli altri” (dalla prefazione di Barracoon, Alice Walker) non può che essere “una lettura straziante”.
Straziante come molte verità che pochi hanno il coraggio di raccontare
Il libro di Zora Neale Hurston è stato pubblicato anche in Italia con il titolo “Barracoon: l’ultimo schiavo”.