Attila Flagello di Dio: com’era davvero il guerriero unno?

Da qualche parte, sulle rive di un fiume sconosciuto dell’Est dell’Europa, c’è una tomba simile a una scatola cinese: una bara di ferro ne contiene una d’argento, all’interno della quale ce n’è un’altra d’oro, dove riposano i resti di un condottiero che, solo a nominarlo, fa drizzare i capelli. La triplice bara e un immenso tesoro vengono sepolti in una fossa scavata nel terreno, in una notte senza luna, perché nessuno possa mantenere memoria del luogo. Gli schiavi che si occupano della preparazione della tomba vengono immediatamente uccisi dalle guardie, a loro volta probabilmente eliminate al loro rientro nel palazzo reale.

“Un silenzio di morte avvolse allo stesso tempo la salma deposta e coloro che la deposero…” scrive lo storico bizantino Prisco di Panion, che nutre una certa ammirazione per quell’uomo – lo ha conosciuto personalmente – poi passato alla storia come flagellum Dei, “flagello di Dio”, quello stesso che, dove passava, non faceva più crescere l’erba:

Attila re degli Unni

Attila secondo l’artista romantico francese Eugène Delacroix


L’erba invece cresce rapidamente sulla tomba di Attila, perché i cavalieri presenti alla cerimonia funebre calpestano più volte il terreno per nascondere le tracce della fossa. Una consuetudine dei popoli nomadi che provengono da oriente, rispettata anche per occultare la tomba di un altro guerriero che incute ancora paura con il suo nome, il mongolo Gengis Khan.

D’altronde gli Unni arrivano proprio dall’Asia, dalle lontane steppe siberiane (forse, ma sono solo supposizioni, derivano proprio da una tribù mongolica, gli Hsiung-Nu), anche se risalire alle origini etniche di questa tribù di guerrieri nomadi è assai complicato.

Sono un popolo bellicoso, passato alla storia come paradigma dell’inciviltà:

“Il popolo degli Unni… supera ogni limite di barbarie” secondo lo storico romano Appiano Marcellino, che inorridisce davanti a quell’abitudine di portare sempre lo stesso abito fino a che non è ridotto a brandelli, di non avere “una casa o una legge o uno stabile tenore di vita”, tanto rozzi “da non aver bisogno né di fuoco né di cibi conditi” visto che “si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne cruda di qualsiasi animale”.

Unni all’attacco

Appiano è certamente di parte, e probabilmente non ha mai avuto a che fare con un unno nemmeno da lontano, ma indubbiamente quegli uomini così diversi dai civilizzati romani, dovevano apparire ai sudditi dell’impero piuttosto inquietanti, anche solo nell’aspetto fisico, con quel loro cranio appiattito (artificialmente) e le cicatrici sul viso che i guerrieri si procurano in segno di lutto per i più valorosi tra loro morti in battaglia “piangendoli non con lacrime di donne ma con il sangue degli uomini” (come attesta lo storico bizantino Giordane).

L’impero romano d’occidente nel 395 d.C

Immagine di Ichthyovenator via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0

Attila dunque governa questo popolo bellicoso. Nel V secolo controlla un vasto impero ed è una costante minaccia per l’Impero Romano (sia a Oriente sia a Occidente), conquista per i posteri la fama di flagello di Dio, ma la sua figura storica potrebbe discostarsi, almeno in parte, da quella del sanguinario guerriero assetato di sangue.

Attila in un medaglione rinascimentale recante l’inscrizione “FLAGEL(L)VM DEI”


Attila è certamente un grande guerriero, ma anche un abile politico, che riesce a tenere unite (ma solo fino a che è in vita lui) disparate tribù non abituate a essere soggette a un solo capo. Oltre alle sue doti militari, Attila mostra un’abilita non comune a farsi pagare tributi in oro solo con la minaccia di muovere guerra a chi non si fosse sottomesso alle sue pretese (una sorta di “pizzo” ante-litteram). Eppure, nonostante si sappia molto delle sue imprese, poco ci è noto della sua vita personale, e per un buon motivo: non esistono fonti unne che raccontino qualcosa del loro grande imperatore e della loro storia.

Il flagello di Dio rimane dunque, nel racconto storico e nell’immaginario popolare, un personaggio terrificante, uno dei barbari che hanno contribuito alla dissoluzione dell’impero romano. Eppure, guardando a ciò che ha ottenuto durante il suo regno, la sua immagine potrebbe essere vista con occhi diversi: in fondo il suo impero, nel periodo di massima espansione, non dura più di otto anni, e non comprende, se non in minima parte, territori romani.

A cosa si deve allora la sua sinistra fama?

In parte, forse, alla sua appartenenza a quella bellicosa tribù di nomadi così esperti con il tiro con l’arco a cavallo, e al fatto di essere al fianco dei Goti nella disastrosa (per i Romani) battaglia di Adrianopoli, nel 378.

Ma il declino dell’impero romano è già iniziato, diviso com’è tra Occidente e Oriente, e con due imperatori che non fanno fronte comune davanti alla minaccia delle tribù germaniche che spingono sui confini, oltre il fiume Reno e il Danubio. Gli Unni si materializzano nella odierna Ucraina e occupano i territori dell’Ungheria. Dove passano loro, non cresce più l’erba!

  Attila l’Unno

Attila nasce intorno al 406 in una famiglia nobile: gli zii paterni Octar e Rua hanno guidato la calata degli Unni che, partiti dall’Asia Centrale, travolgono tutti i popoli che incontrano, fino ad arrivare ai confini dell’Impero Romano d’Occidente. Intanto, un altro gruppo di questi guerrieri nomadi mette a ferro fuoco l’Impero Romano d’Oriente:

“Ma proprio un anno fa, eccoti piombare su di noi, dalle più lontane regioni rupestri del Caucaso, dei lupi. (…) Quanti fiumi si sono visti cambiare l’acqua in sangue umano!” scrive il monaco romano Girolamo, poi divenuto santo.

Il piccolo Attila (nome che significa “piccolo padre” e potrebbe quindi essere un appellativo datogli in seguito), come tutti i bambini della tribù, impara a cavalcare ancor prima di camminare e prima dei 5/6 anni sa usare il micidiale arco unno, mentre galoppa in sella al suo cavallo.

Il re Rua, nei primi anni del 400, viene a patti con Roma, che concorda un tributo –  160 chili d’oro ogni anno – da versare agli Unni in cambio della pace. A garanzia del trattato, entrambe le parti si scambiano ostaggi di rango elevato, ed è così che Attila, probabilmente, trascorre qualche anno della sua infanzia nella città di Ravenna (capitale dell’Impero d’Occidente), dove ha modo di imparare qualcosa dei Romani, compresa la loro lingua.

A vent’anni comunque torna tra la sua gente, partecipa a diverse campagne militari e nel 434, quando Rua muore, diventa re insieme al fratello Bleda. Per qualche anno gli Unni e i Romani sono alleati, o meglio, la tribù barbara sostiene militarmente l’impero in alcune campagne contro i ribelli Burgundi e Visigoti. Intanto i due fratelli riescono a strappare un accordo anche con Teodosio II, che si vede costretto a raddoppiare il tributo pagato fino ad allora e a riconsegnare tutte quelle persone che dai territori governati dagli Unni si erano rifugiate nell’impero romano, compresi i due giovanissimi figli di Rua: temendo di essere uccisi perché potenzialmente aspiranti al trono, avevano chiesto asilo a Teodosio. Finiranno impalati sulle rive del Danubio, per “diserzione”.

Nel 445 Attila è rimasto da solo sul trono:

Bleda è morto, forse per mano sua

In pochi anni Attila mette insieme un impero che va dal Mar Baltico ai Balcani, dal Reno al Mar Nero. Dall’Ungheria, dove stabilisce la sua sede di comando, sferra attacchi contro i Romani d’Oriente e d’Occidente.

Massima espansione dell’impero unno (arancione chiaro), 451 circa

Ma quell’impero creato da Attila, in realtà non è un territorio che ha un’unità politica e amministrativa, è semplicemente una coalizione di tribù eterogenee che rimangono unite solo grazie alle doti militari del condottiero, e alla sua abilità nel trovare accordi vantaggiosi con i Romani. Quando Teodosio II, nel 447, si stanca di versare il tributo concordato, Attila mette ferro e fuoco i Balcani, passa per le Termopili e arriva sotto le mura di Costantinopoli, appena ricostruite dopo un devastante terremoto.

“La stirpe barbarica degli Unni in Tracia diventò talmente potente da conquistare oltre cento città, mettendo Costantinopoli quasi in ginocchio e facendo fuggire molti abitanti… Omicidi e spargimenti di sangue furono talmente numerosi da non riuscire a contare le vittime; occuparono chiese e monasteri e trucidarono monaci e giovani donne” scrive Callinico.

Teodosio è costretto a venire nuovamente a patti con Attila: accetta di pagare una multa pari a circa 2000 chili d’oro, mentre il tributo annuale arriva a quasi 700 chili. Ma non solo. Consapevole del pericolo rappresentato dal modo di vivere dei romani (troppi lussi, decadenza e corruzione), Attila pretende di creare una “terra di nessuno” lungo i confini, per impedire qualsiasi contatto fra Unni e Romani, insomma istituisce la prima “cortina di ferro” della storia. Solo gli ambasciatori romani possono recarsi a Margus (città oggi vicino a Belgrado), dove Attila ha la sua corte.

Lo storico Prisco è presente a un’ambasceria (che in realtà nasconde un tentativo di omicidio di Attila, nel 449) e ha modo di riferire qualcosa sul suo modo di vivere, sulle sue tante mogli, e sulla splendida corte dell’imperatore unno:

“Abbondanti pietanze erano state preparate per noi e per gli ospiti barbari e servite su piatti d’argento, ma Attila mangiò soltanto della carne da un tagliere di legno; inoltre, dimostrò in tutto una grande modestia: bevve da una coppa di legno, mentre agli ospiti furono dati calici d’oro e argento.”

L’immagine che Prisco tratteggia è quella di un uomo sobrio, che non indossa ornamenti preziosi e non fa sfoggio personale di ricchezza. L’avidità da lui dimostrata sembra piuttosto un mezzo per tenere buoni i tanti capi tribù, sempre in cerca di bottino, conquistato prima con semplici incursioni, poi con guerre locali e alla fine con la creazione di un impero. Impero che per radicarsi stabilmente avrebbe avuto bisogno di una macchina amministrativa che invece Attila non si preoccupa di istituire. Il suo potere è basato solo sulla guerra.

L’unno si mette in testa di pretendere la metà dell’impero romano d’occidente, muovendo da una circostanza “galante”, arrivata a proposito quando, probabilmente, ha già in mente di estendere il suo dominio fino all’Atlantico, muovendo guerra ai Visigoti (che occupavano parte della penisola iberica e della Francia).

La vicenda inizia nel 450 con Onoria, sorella dell’imperatore Valentiniano III, che ha la sua corte a Ravenna. La ragazza viene costretta a rimanere nubile, ma all’epoca dei fatti, quando ha una trentina d’anni, si ritrova ad aspettare un bambino dal suo amministratore, Eugenio.

Medaglione in vetro dorato del III secolo, di origine alessandrina, ma tradizionalmente creduto raffigurante Valentiniano III, la madre Galla Placidia e la sorella Giusta Grata Onoria

Valentiniano è furioso: fa giustiziare Eugenio e spedisce la sorella a Costantinopoli, dove nasce quel figlio illegittimo, subito sottratto alla madre. Per evitare altri problemi, l’imperatore obbliga la sorella a fidanzarsi con un senatore romano, Flavio Basso Ercolano, che evidentemente Onoria non gradisce, perché si spinge a scrivere una lettera ad Attila, chiedendo il suo aiuto e promettendogli una ricompensa. A suggellare il patto, la donna gli fa avere (tramite il messaggero, che sarà poi giustiziato da Valentiniano) il suo anello, che Attila scambia come un pegno per future nozze.

All’unno non par vero di vedersi servita un’occasione tanto ghiotta: accetta la proposta di matrimonio e chiede come dote la metà dell’impero romano d’occidente. Valentiniano è lì lì per ammazzare la sorella, e solo grazie all’intercessione della madre, Galla Placidia, si limita a mandarla in esilio. Poi fa sapere ad Attila che quella proposta non è valida, ma lui risponde che non intende rinunciare alle nozze e minaccia di marciare su Ravenna per prendersi ciò che gli spetta di diritto.

Si ostina su quella decisione (invia tre diverse ambasciate a Valentiniano) perché in realtà sta già preparando un’invasione verso occidente, visto che, dopo la morte di Teodosio II, il nuovo imperatore, Marciano, ha intenzioni bellicose nei suoi riguardi e ha, per giunta, interrotto il pagamento dei tributi.

Cosa abbia convinto Attila a una così massiccia campagna militare non è ancora chiaro. La scusa è la lettera di Onoria, ma alla fine ciò che è certo è il risultato: nel 451 Attila attraversa il fiume Reno a capo di un esercito numeroso e agguerrito, che porta morte e devastazione nei territori di Germania e Francia mentre le attraversa, nel suo percorso verso l’Atlantico. Lo ferma nei pressi di Orleans un suo ex amico ed alleato, il generale romano Flavio Ezio (detto, per il suo valore, “l’ultimo dei Romani”), che ha trovato anche il sostegno di Teodorico, re dei Visigoti.

Quella dei Campi Catalaunici è una battaglia epica – anche se forse non così decisiva come sostenuto da alcuni storici – dove scorrono fiumi di sangue, e che finisce con la vittoria dei Romani, anche se assomiglia più a un pareggio: Ezio si ritira quando, morto Teodorico sul campo, viene abbandonato dai Visigoti, ma Attila, che forse teme una trappola, si ritira a sua volta.

Spostamenti dei due eserciti nella campagna di Gallia di Attila, 451.

Immagine di Mapmaster via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0

Su questo finale gli storici hanno fatto diverse ipotesi: Ezio e Attila sono stati grandi amici, probabilmente sono cresciuti insieme quando il romano era ostaggio degli Unni, e dimostrano il loro rispetto reciproco in questo modo. Peccato per quei 160.000 morti rimasti nella piana di Chalons. Chi non crede a una così grande cavalleria tra i due ex-amici, ipotizza che Ezio abbia consentito il ritiro di Attila perché temeva un rafforzamento dei Visigoti, antichi rivali di Roma. In questo modo il generale romano prende i classici “due piccioni con una fava”: Attila se ne torna in Ungheria e i Visigoti nei loro territori.

A smentire, in un certo qual modo, la prima ipotesi, c’è il ritorno di Attila in Italia, nel 452. Gli Unni si ripresentano con un esercito ancora più numeroso e agguerrito, e mirano al cuore dell’impero, vogliono arrivare fino a Roma.

Conquistano con difficoltà Aquileia, e poi Padova (i fuggiaschi dalle due città trovano scampo nella laguna e contribuiscono a fondare i primi insediamenti di Venezia) e quindi Milano, dopo che molte città si arrendono senza combattere. La calata degli Unni sembra inarrestabile, tanto che Valentiniano abbandona Ravenna e si rifugia a Roma. L’imperatore romano manda un’ambasciata per trattare la pace. Intanto Attila, che ha fermato la sua marcia e rimane in attesa sul Po, inizia a preoccuparsi: Ezio sta muovendosi con il suo esercito, da Ravenna, mentre l’imperatore Marciano si prepara a chiudere la ritirata sul confine sloveno.

Le due parti si incontrano sul Mincio. Tra gli incaricati del difficile compito c’è anche il papa Leone I che, secondo leggenda, riesce a fermare Attila mostrandogli un crocefisso: è il “grande miracolo”. Roma è salva grazie a un intervento divino e al coraggio del papa, che il grade Raffaello mostra, in un affresco, protetto dai santi Pietro e Paolo.

Incontro tra Leone il Grande e Attila, Affresco, 1514, Stanza di Eliodoro, Palazzi Pontifici, Vaticano:

Comunque siano andate le cose, Attila prende armi e bagagli e se ne torna in Ungheria, probabilmente perché i suoi soldati stanno morendo decimati dalle malattie (è scoppiata una pestilenza che ammorba l’intera penisola) e per i pochi viveri.

Poco dopo il suo rientro, nel 453, Attila muore improvvisamente, la notte seguente a una festa che celebrava un suo nuovo matrimonio con una principessa, Ildiko, forse di stirpe germanica. Le cause dell’improvvisa dipartita sono ancora sconosciute: secondo Giordane “si era arreso a una gioia eccessiva” e morì per una emorragia che gli aveva riempito i polmoni di sangue.

Ma c’è chi non esclude un omicidio, addirittura per mano della neo-sposa

Comunque siano andate le cose, la morte di Attila segna la fine del suo grande impero, che nel giro di pochi anni si disintegra. Nonostante questo, le conseguenze sulla tenuta dell’Impero d’Occidente, ormai in pieno declino, furono devastanti, tanto che, nel 476, il barbaro Odoacre (forse di origine unna) depone l’ultimo imperatore, Romolo Augusto, mettendo la parola fine al mondo antico e dando inizio al Medioevo. Anche se questo, sicuramente, Odoacre non poteva proprio immaginarlo.


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