Alcune pietanze non sono meri preparati dalla saporite fattezze, ma emblemi della cultura di un popolo, del suo costume e della sua tradizione; una fonte d’orgoglio tale da generare una gelosa custodia delle sue note più intime e caratteristiche.
Parliamo in questo caso di un piatto che genera spesso simpatia:
l’Arancina
Se vi è capitato di visitare la Sicilia non avrete potuto non notare le invitanti palle di riso che trionfali scrutano i passanti dalle vetrine di ogni rosticceria, attendendo di essere scelte ed assaporate.
Prelibatezze entrate nel mito di questa terra, come dimenticare il protagonista dei romanzi di Andrea Camilleri, Montalbano, così ghiotto di questa specialità sicula?!
Ma le ignare arancine sono in realtà poste da secoli al centro di una curiosa diatriba che non sembra poter trovare ancora soluzione. Chi si è recato in questa terra, non ha potuto non notare la buffa rivalità che tuttora coinvolge le bellissime Palermo e Catania, allorquando viene posta la domanda:
si dice “arancino” o “arancina”?
A tal proposito la letteratura è ricca di interessanti interpretazioni che assegnano di volta in volta punti alla prima e poi alla seconda ipotesi, lasciando eppure irrisolto l’enigma sulla loro più corretta origine e denominazione.
Lo storico Gaetano Basile l’ha definita “una palla di riso che resiste ai secoli” e si può dire che mai definizione fu più corretta. La sua genesi, nella sua versione non ancora matura, sarebbe difatti legata alla dominazione saracena in Sicilia, collocandone l’origine tra il IX e l’XI secolo, allorquando, in occasione dei banchetti, gli arabi erano soliti porre al centro delle tavole, vassoi ricolmi di semplice riso, intriso con lo zafferano ed arricchito di verdure e piccole porzioni di carne.
Era un tempo in cui il pomodoro era ancora un qualcosa di sconosciuto e impensato. Esso fece difatti la sua comparsa in Sicilia intorno al 1850, con il suo arrivo dalla lontana America, dando avvio a quel processo di “pomodorizzazione” che ha ampiamente investito la tradizione culinaria dell’isola. Il pomodoro, inizialmente privilegio della sola nobiltà siciliana, arricchì la ricetta delle famose arancine, regalando alla sua originaria ricetta, quella una mistura di sapori e profumi inconfondibili ed ammalianti.
Sotto, arancini conici di Messina, fonte Wikipedia:
Inoltre, fu solo in seguito che questa pietanza venne modellata di modo da formare una sfera. La panatura di questa pallina di riso risalirebbe difatti, secondo alcuni, all’epoca Medievale di Federico II, ovvero a quando il trasporto della deliziosa pietanza ebbe a divenire un’incombente necessità. Tramite la panatura della sfera di riso, diveniva pertanto possibile assicurarne non solo il trasporto durante i viaggi o le battute di caccia, ma anche la prolungata conservazione.
Questi globi croccanti di riso e ragù , per via della loro semplice composizione, si prestavano inoltre ad essere ampiamente consumati come cibo di strada da coloro che lavoravano nei campi, diffondendosi largamente quale cibo popolare prediletto.
Secondo quanto esposto nel testo sulla gastronomia araba in Occidente (Liber de ferculis) di Giambonino da Cremona nel XIII secolo, era inoltre abitudine degli arabi, chiamare le loro polpette con nomi ispirati ai frutti dalle forme affini e sarebbe stata dunque la somiglianza con la succosa e dorata arancia, ampiamente diffusa sull’isola, ad aver determinato il nome di questo particolare piatto.
Seppure l’Accademia della Crusca si sia pronunciata stabilendo la corretta denominazione dell’arancina al femminile, per via dell’analogia col delizioso frutto, la contesa resta tuttora accesa. In alcune regioni d’Italia si è soliti chiamare il frutto al maschile, per cui sarebbe appropriata anche questa ulteriore versione del termine.
Curioso scoprire che molto probabilmente, in principio, esso era un dolce a base di riso. Difatti nel “Dizionario siciliano-italiano” di Giuseppe Biundi (del 1857) alla voce “arancinu”, si leggeva: “vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia”.
Le prime avvisaglie di una versione salata del timballo di riso, si scorgono invece nel “Nuovo vocabolario siciliano-italiano” di Antonino Trina (del 1868), in cui restano assenti però le componenti di pomodoro e carne (probabilmente inserite in un momento successivo).
Ma parte le differenze nel nome, la sostanza non cambia. Cambia per lo più la forma. La classica forma appuntita (volta forse a riproporre le linee dell’Etna) della parte orientale e quella pienamente sferica, nella parte occidentale dell’isola.
Palermo e Catania si contendono così la vittoria sugli arancini migliori e questo non fa altro che spronare la fantasia degli arditi contendenti, intenti giorno dopo giorno ad indagare nuove versioni del suo gustoso ripieno.
Alle proposte salate si uniscono poi quelle dolci; come ad esempio nel caso delle arancine ripiene di cioccolata e crema gianduia.
Arancina Day
Ma giorno di gloria di questa speciale pietanza non può essere altri che il 13 Dicembre, giorno di Santa Lucia. A riprova della sua importanza nel tessuto sociale siciliano, il 13 Dicembre è difatti tradizione palermitana festeggiare la Santa astenendosi dal consumo di cibi a base di farina, dando spazio al consumo affannato delle strepitose arancine; assaporate in ogni loro forma e dimensione. Un’usanza questa che ha del curioso e che si intreccia con le passate gesta della Santa, per via di un particolare episodio.
Santa Lucia, nacque nel 283, circa, a Siracusa. Sulla sua vita disponiamo di ben poche fonti certe. Il suo racconto consta di due versioni principali: quella greca e quella latina.
È dalla versione greca che si assumono le origini aristocratiche della Santa che, avendo perduto giovanissima l’amato padre, decise un giorno di recarsi in pellegrinaggio presso il sepolcro di Sant’Agata col desiderio di chiedere una grazia per la madre gravemente malata. In tale occasione, la giovane Lucia vide in un’apparizione Sant’Agata, la quale, con un moto di lieto stupore le chiedeva perché ella cercasse nella sua intercessione aiuto, quando ella stessa (Lucia) era invero in grado di compiere il miracolo. La Santa le preannunciò inoltre le difficoltà che ben presto si sarebbero palesate nel suo tortuoso cammino ed il futuro patronato che Lucia avrebbe avuto in seguito, sulla città di Siracusa.
La guarigione della madre si compì ben presto e Lucia, in ragione di ciò, decise di consacrare corpo e anima a Cristo. Iniziò a donare tutti i propri averi compiendo opere di carità, ma ciò non fu ben visto dal suo promesso sposo, il quale ben presto, esacerbato dalla sconvolgente condotta della giovane Lucia, decise di denunciarla come cristiana al governatore Pascasio, destinandola così ad un processo certo ed impietoso.
Per via dei decreti di persecuzione di Diocleziano contro i cristiani, ella venne ripetutamente torturata, condannata a supplizi e sofferenze, eppure nulla poté mai intaccare la grazia e la fermezza della sua fede. Come ella ebbe a dire, qualsiasi violenza fisica il suo corpo avesse potuto subire contro la sua volontà, la sua mente ed il suo spirito sarebbero rimasti casti, incontaminati e puri.
Ma la fortezza del suo cuore dedito a Dio, non poté far altro che innescare la definitiva condanna del governatore Pascasio. Così senza possibilità di salvezza alcuna, ella fu infine condannata alla decapitazione; condanna avvenuta invece tramite “jugulatio”, ovvero taglio della gola, secondo gli atti latini.
Ancor prima di morire, ella annunciò la destituzione di Diocleziano e la pace per la Chiesa cristiana, entrando in seguito nel culto cattolico come la protettrice della vista.
Ma quale allora la connessione con il simpatico timballo di riso?
Il culto siracusano e siciliano particolarmente vivo per questa Santa, traggono origine dal voto fatto alla Santa nel 1646, in occasione di una grave carestia che colpì disastrosamente proprio Siracusa durante la dominazione spagnola in questi luoghi.
Sotto, festa di Santa Lucia, fotografia di Salvatore Cannizzaro tratta da Wikipedia e condivisa con licenza CC BY-SA 3.0:
Quando ormai ogni speranza era perduta, il miracolo avvenne sotto le spoglie di una nave carica di frumento che salvò la vita della popolazione che aveva per mesi sofferto la fame.
Quel dì, la popolazione consumò il frumento così, bollendolo semplicemente e trasformandolo per l’appunto in cuccìa (un dolce a base di grano bollito e crema di ricotta).
In memoria di ciò ogni anno, il 13 Dicembre, pane e pasta sono banditi, lasciando spazio, a furor di popolo alla cuccìa e alla strepitosa arancina!