11 aprile 1963 – Una lettera appena pubblicata, rivolgendosi all’umanità, invocava la pace mondiale. Era l’Enciclica “Pacem in Terris”, redatta dall’ormai moribondo Papa Giovanni XXIII, col supporto del docente Pietro Pavan. Quella che il Washington Post definirà “voce della coscienza del mondo”.
Erano gli anni della Guerra Fredda, gli anni ’60 di Kennedy e Chruščёv, del viaggio di Gagarin, del Muro e della Crisi di Cuba. King si apprestava a marciare su Washington, dove avrebbe pronunciato quelle potenti e semplici parole: I have a dream. Si era sfiorata la Terza – e auspicabilmente ultima – Guerra Mondiale, mentre i movimenti pacifisti chiedevano a gran voce il disarmo nucleare. Molte voci di illustrissimi personaggi echeggiavano in un mondo ormai definitivamente interconnesso. Tra queste spiccava senza dubbio quella di Papa Roncalli.
Papa Giovanni XXIII firma l’enciclica Pacem in Terris:
La Chiesa si collocava in una posizione difficile. Il suo universalismo, la sua Missione globale cozzava ma si inseriva nella bipartizione mondiale che teneva il pianeta in precario equilibrio. Era una terza entità che traeva forza da questa situazione, dalla necessità di ordine, quell’ordine già stabilito da Dio e minato dalle azioni dell’umanità, la quale doveva necessariamente, sotto la guida vaticana, riapprocciare la retta via mediante i doni che il Signore ci ha così generosamente concesso: “sapienza e bontà” coi quali raggiungere finalmente il tanto agognato obbiettivo, già indicato all’inizio dell’enciclica, la Pace in Terra.
Papa Giovanni XXIII:
“Con l’ordine mirabile dell’universo continua a fare stridente contrasto il disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli; quasicché i loro rapporti non possono essere regolati che per mezzo della forza”
A neanche vent’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, che con le sue stragi aveva irrimediabilmente traumatizzato il mondo, si palesò il rischio di un’ecatombe su scala globale, addirittura dell’estinzione del genere umano. Così Kennedy si esprimeva nel dibattito presidenziale del 13 Ottobre 1960: “Penso che non solo il destino della nostra stessa civiltà, ma che il destino del mondo e il futuro della razza umana siano coinvolti nella prevenzione di una guerra nucleare”
Spettro ancora vivo l’anno successivo, in occasione della crisi di Berlino quando, nel rapporto del 25 Luglio 1961 al popolo americano, invitava all’uso della moderazione, con la quale si sarebbe potuta mantenere la pace, oltre che la libertà, valore americano per eccellenza, abbracciato anche dalla Chiesa come diritto e caratteristica universale da difendere e garantire, pur dichiarando che un attacco a Berlino Ovest, l’avanguardia del capitalismo occidentale, la “via di fuga per i rifugiati” che cercavano di sfuggire alla presa dell’Est, un importantissimo centro simbolico, sarebbe stato considerato un attacco agli USA.
Entrambi i presidenti cercarono di mostrare i denti. “Non possiamo e non permetteremo che i comunisti ci caccino da Berlino” diceva Kennedy ricordando la posizione dell’America come difensore del “mondo libero”, minacciato dalla missione sovietica volta a “dividere e neutralizzare tutta l’Europa”. Kennedy avvisava di aver chiesto una possente preparazione atta a rispondere a qualunque aggressione, senza ancora mobilitare le truppe. Non bisognava essere precipitosi, nonostante non si escludesse il rischio di una guerra nucleare (non ha caso, in questi anni, crebbe la vendita di rifugi antiatomici ai civili). “Se hanno proposte, non richieste, le ascolteremo”. Questa frase riassume perfettamente la posizione americana.
John Fitzgerald Kennedy e la moglie:
Agghiacciante è la frase pronunciata all’assemblea generale delle Nazioni Unite del 25 settembre 1961: “Oggi, ogni abitante di questo pianeta deve contemplare il giorno in cui questo pianeta potrebbe non essere più abitabile”.
Nel dicembre dello stesso anno il governo pubblicava l’opuscolo “Fallout Protection: What To Know And Do About Nuclear Attack”. Cosa sapere e cosa fare in caso di attacco nucleare. Bisognava educare i cittadini sui rischi dell’attacco, su come comportarsi, come sopravvivere e sulle misure messe in campo dal governo per evitare un’ecatombe.
La Crisi di Cuba inasprì la situazione. I sovietici avevano deciso di posizionare una base missilistica, a detta dei diplomatici orientali da installare per scopi difensivi, sull’isola ,minacciando, così, da vicino gli americani. Nel rapporto del 22 ottobre 1962 il leader americano affermava: “non rischieremo prematuramente o inutilmente i costi di una guerra nucleare mondiale in cui anche i frutti della vittoria sarebbero cenere nella nostra bocca, ma non ci ritireremo da quel rischio in qualsiasi momento debba essere affrontato”. Lasciando comunque spazio al dialogo. Si era sfiorata la terza guerra mondiale, quella che già Pio XII nel radiomessaggio natalizio del 1941, poi ripreso nell’enciclica, auspicava di evitare: “Non si deve permettere che la sciagura di una guerra mondiale con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni e perturbazioni morali si rovesci per la terza volta sopra la umanità”. Invitando alla limitazione degli armamenti.
Ma quello alla vita non era l’unico diritto universale a dover essere garantito. La vita doveva essere vissuta in modo “dignitoso”: cure mediche, alimentazione, lavoro, riposo e servizi di varia natura. Ma anche istruzione, verità e libertà. E quindi “il diritto al culto di Dio privato e pubblico”, mal tollerato nel regime sovietico, dove si consumarono decise repressioni. Nel ’57 Pio XII pregava affinché lo spirito dei cristiani in quel blocco non si spezzasse; pregava “per coloro che debbono sopportare tormenti e violenze, fame e fatiche… Per coloro che sono sottoposti a costrizioni morali…
Per coloro che sono nella impossibilità di professare apertamente la loro fede, di praticare regolarmente la vita cristiana, di ricevere frequentemente i Santi Sacramenti, d’intrattenersi filialmente con le loro guide spirituali”. Gli enti religiosi subivano confische, venivano chiusi o sottoposti a forti tassazioni. I critici e i dissidenti subivano la censura, venivano arrestati e addirittura uccisi. Ma fondamentale era anche il diritto a migrare, in un’epoca in cui milioni di persone si spostavano da un blocco all’altro, attirati dal consumismo, dal mito del capitalismo, dalle pubblicità dei grandi marchi occidentali, ma anche dalla consapevolezza che oltre la barriera amici e familiari fossero in speranzosa attesa di ricongiungersi a loro.
Gli spostamenti erano però illegali e furono resi molto difficili dall’incrementato presidio militare del Muro. La fuga era pericolosa e difficile. Si poteva sperare di ottenere un permesso o tentare di attraversare la frontiera passando da un altro Paese.
Intanto il mondo continuava a trasformarsi, come appuntava il pontefice. I lavoratori avevano combattuto per i tanto desiderati diritti, le donne si emancipavano, le colonie divenivano indipendenti e il mondo conosceva progressivamente i diritti umani. “Nessuno ama sentirsi suddito di poteri politici provenienti dal di fuori della propria comunità umana o gruppo etnico. In moltissimi esseri umani si va così dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica” afferma il papa. Il processo di decolonizzazione scaturiva da e alimentava sentimenti di emancipazione, lotta per i diritti universali, antirazzismo. Processi che necessitavano di tempo e non ancora esauriti, anzi, profondamente vivi.
“E quando i rapporti della convivenza si pongono in termini di diritti e di doveri, gli esseri umani si aprono sul mondo dei valori spirituali, e comprendono che cosa sia la verità, la giustizia, l’amore, la libertà… Ma sono pure sulla via che li porta a conoscere meglio il vero Dio”. Così la lotta per i diritti viene inserita in un contesto religioso/cattolico, quello del Dio buono e misericordioso, fautore dei diritti naturali, cui ci si può avvicinare abbracciando quelle lotte e quegli ideali allo stesso tempo sia ancestrali che moderni.
Ma tutto ciò non basta per ottenere l’ordine e la convivenza pacifica. “La convivenza fra gli esseri umani non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un’autorità… Tale autorità, come insegna san Paolo, deriva da Dio”. Un mondo, di fatto, sotto l’egemonia vaticana sarebbe dunque la vera soluzione. Una visione universalistica, che porrebbe il papa al vertice di una specie di una specie di confederazione mondiale, forse utopistica, posta sotto le regole di Dio e quindi della Santa Sede, dove i contrasti si risolvono non con la guerra ma con “la reciproca comprensione, attraverso valutazioni serenamente obiettive e l’equa composizione”.
Questa comunità sarebbe formata da nazioni, quelle entità che iniziarono a prendere piede dal XIX secolo, pervase da un problema di fondo: la condizione delle minoranze. “Risponde invece ad un’esigenza di giustizia che i poteri pubblici portino il loro contributo nel promuovere lo sviluppo umano delle minoranze, con misure efficaci a favore della loro lingua, della loro cultura, del loro costume, delle loro risorse ed iniziative economiche”. Il percorso di formazione delle nazioni è stato decisamente complesso e travagliato, soprattutto considerata la natura evanescente e ancora in fase di costruzione dell’idea di nazione.
Si avviò così un processo di ricerca e di costruzione delle identità nazionali. Bisognava definire una storia, una popolazione, identificare caratteristiche come lingua, tradizioni, simboli, ecc. Si dovevano operare delle scelte e combattere battaglie per acquisire territori ed emanciparsi dalle entità di cui si faceva parte. Si pretendevano i diritti rivoluzionari, si manifestava, ci si attivava socialmente, politicamente e culturalmente (l’associazionismo e lo studio favorivano l’elaborazione e lo scambio di idee). I vecchi governi cercavano di mantenere l’ordine. Il 1848, nonostante l’esito fallimentare delle rivoluzioni, avrà un impatto fondamentale. Il processo di formazione di Stati nazionali era ormai irreversibile. Questo processo non si limitò solo al XIX secolo, ma proseguì nelle sue diverse forme anche nel successivo. Emblematico sarà il principio di autodeterminazione dei popoli richiamato da Wilson nei suoi quattordici punti, ripreso anche da altre importanti istituzioni successive. E non solo. Anche la decolonizzazione avrà i suoi lasciti.
“Sulla terra esiste un numero rilevante di gruppi etnici, più o meno accentuatamente differenziati l’uno dall’altro. Però gli elementi che caratterizzano un gruppo etnico non devono trasformarsi in uno scompartimento stagno in cui degli esseri umani vengano impediti di comunicare con gli esseri umani appartenenti a gruppi etnici differenti: ciò sarebbe in stridente contrasto con un’epoca come la nostra, nella quale le distanze tra i popoli sono state quasi eliminate”. L’espansionismo europeo, dal XV secolo, non ha conosciuto limiti. Dalle isole atlantiche all’America e all’Oriente, per poi volgere le sue mire al Pacifico nella seconda metà del ‘700, quando i viaggi si configurarono non più solo come spedizioni di colonizzazione ma anche di ricerca scientifica. Si scoprivano nuove popolazioni di “virtuosi selvaggi” o “mostruosi cannibali” che animavano le fantasie dei “civili” occidentali. Missionari, botanici e viaggiatori di varia natura si improvvisavano etnografi, mentre in madrepatria antropologi da tavolino elaboravano le informazioni e proponevano teorie e leggi generali, salvo poi iniziare a muoversi e osservare l’altro dall’interno. Ciò comportò inevitabili scambi e mutamenti in entrambe le parti.
Il mondo si interconnetteva. Le innovazioni tecnologiche favorivano la creazione e il consolidamento dei contatti. Le navi erano più veloci e resistenti. La vita a bordo meno insidiosa. La comunicazione veniva facilitata dal telegrafo e dalla radio. La stampa fioriva e diveniva sempre più di massa. Oggetti d’ogni genere e persone raggiungevano l’Europa e l’America da ogni dove per il ludibrio del pubblico pagante. Le popolazioni di tutto il mondo entravano in contatto con i beni portati dagli europei, trasformandosi profondamente sotto l’egemonia dei nuovi arrivati. Queste entravano a far parte delle immense compagini imperiali che andavano a spartirsi il mondo, salvo poi crollare ed essere abbandonate a sé stesse proprio per i problemi dovuti alla loro vastità.
Così venivano a formarsi nuovi Stati indipendenti che, logorati da guerre intestine e lotte di potere, sottosviluppati e sfruttati, partivano da condizioni davvero disperate, spesso soggetti a letali carestie ed epidemie. “Ciò pure domanda che i popoli instaurino rapporti di mutua collaborazione” è l’appello fatto nell’enciclica. “In tal modo si offrono a molte persone possibilità concrete di crearsi un avvenire migliore senza essere costrette a trapiantarsi dal proprio ambiente in un altro”, dal momento che le ardue condizioni di vita spingono le persone a migrare, in cerca di migliori prospettive, nelle aree economicamente più sviluppate. Persino un paese come l’Italia, al suo interno profondamente diviso, vide un forte spostamento di persone verso il triangolo industriale e non solo.
Ma i nuovi Stati versavano in condizioni ancora peggiori. Le potenze europee lo sapevano, e ben presto si resero conto che la decolonizzazione non si sarebbe potuta accompagnare alla costruzione di nazioni come quelle europee, a causa delle condizioni estreme di povertà, alfabetizzazione, sviluppo di istituzioni, economa e welfare. Gli europei non avevano tenuto in considerazione le divisioni tribali, etniche e religiose durante la spartizione. Erano troppo concentrate su sé stesse, sul proprio prestigio. Ciò porrà le condizioni per lo scoppio di guerre etniche, tribali e religiose.
Il mondo dell’enciclica si caratterizza, dunque, per un’estrema complessità. Si era nel pieno della guerra fredda. Si paventava il rischio dell’olocausto nucleare. Nuovi Stati nascevano in quadri di estremo sconvolgimento, i movimenti pacifisti chiedevano sempre più a gran voce lo stop alle violenze e l’ONU si impegnava a diffondere i valori della Carta e della Dichiarazione. Il ricordo delle guerre era ancora fresco, ma già una nuova generazione di governanti saliva al potere. Era l’inizio degli anni Sessanta, gli anni del boom e del rinnovamento, e una cosa si chiedeva a gran voce: la Pace.
“A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà”
Fonti:
JFK Library, Vatican, Jfk Library, Marxists, Vatican, Vatican, Vatican.Archive,
Fonti e altre letture:
Storia contemporanea. Dal mondo europeo al mondo senza centro, L. Caracciolo, A. Roccucci. Novecento. Lezioni di storia contemporanea, R. Romanelli. Linee sulla terra, Adrea Pase. Esplorazioni e viaggi scientifici nel Settecento, M. Ciardi.