Antonia Pozzi: la drammatica fine della Poetessa dell’Anima

È strana, a volte, la vita. Se osserviamo dall’esterno, alcune persone sembrano insolitamente privilegiate e la loro esistenza fluisce serena, senza ostacoli, come un fiume che scorre inarrestabile. Eppure, talvolta, quel moto lento e inesorabile si interrompe bruscamente, magari per una casualità o per un intervento volontario, e noi restiamo attoniti e smarriti ad interrogarci sul perché.

Cosa può aver spinto, a soli 26 anni, Antonia Pozzi a compiere il suo tragico gesto in una gelida giornata decembrina di tanti anni fa, quando sull’Europa si addensavano minacciose le nubi di guerra? Forse non sapremo mai se le ragioni del suo suicidio sono da ricercarsi in un oscuro “male di vivere”, oppure in un sentimento di disperazione fatale.

Possiamo asserire con certezza però che il panorama letterario italiano ne risultò impoverito perché, come ebbe a commentare Dino Formaggio, un famoso filosofo legato da profonda amicizia con la donna: “la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo“. Una voce isolata e solitaria, quella della Pozzi, a lungo poco nota, fino alla “riscoperta” da parte di Montale, che ne decretò la fama definitiva.

Sotto, il filosofo Dino Formaggio:

Milanese, nata nel 1912 da una facoltosa famiglia alto-borghese (il padre era un noto avvocato, la madre, una nobildonna nipote di Tommaso Grossi, scrittore amico di Carlo Porta e del Manzoni), Antonia Pozzi studia al liceo classico “Manzoni”, nella sua città, e intreccia ben presto una relazione con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, relazione fortemente avversata dai genitori, terminata nel 1933, con il trasferimento dell’insegnante a Roma.

Scriverà in una delle tante liriche a lui dedicate, nel 1929:

Se io capissi

quel che vuole dire – non vederti più – credo che la mia vita qui – finirebbe.

Ma per me la terra

è soltanto la zolla che calpesto

e l’altra

che calpesti tu:

il resto

è aria

in cui – zattere sciolte – navighiamo a incontrarci.

L’ambiente altolocato di appartenenza offre alla giovane molteplici stimoli culturali: la frequentazione di un circolo sociale esclusivo, un palco riservato alla Scala e – chance non comune all’epoca – la possibilità di viaggiare. Antonia suona il pianoforte, dipinge, si dedica alla fotografia, pratica il nuoto, il tennis, lo sci, l’equitazione. E’ una bionda bellezza esile e raffinata, con i bei capelli ondulati tagliati corti, stile Anni Trenta. Il mondo sembra spalancarsi dinanzi a lei, caleidoscopio rutilante di opportunità ed emozioni. Quando si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, nel 1930, sembra aprirsi per lei un nuovo capitolo, il più felice, della sua breve esistenza. Frequenta molti dei nomi più importanti del firmamento intellettuale milanese di quegli anni, da Vittorio Sereni ad Enzo Paci, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, ma nessuno avrà maggiore influenza su di lei del docente di estetica Antonio Banfi, con cui si laureerà nel 1935.

Viaggia in Italia, Austria, Germania e Inghilterra, ma visita anche le periferie della sua città, un mondo per il quale prova compassione, sentendosi quasi in colpa per i suoi natali privilegiati. Non a caso preferisce all’elegante mondanità milanese la solitudine della vita immersa nella natura incontaminata di Pasturo, presso Lecco, dove si erge la settecentesca villa di famiglia. Antonia fa lunghe escursioni a piedi o in bicicletta, ama la selvaggia bellezza di quei paesaggi ricchi di picchi innevati, di torrenti e di crepacci. Trae fonte di ispirazione dalla natura, è il silenzio delle alture che la induce alla meditazione sulla finitezza umana. Scatta fotografie ai luoghi ed agli abitanti, colti nelle loro umili mansioni quotidiane. Solo in alcuni e brevi momenti la giovane riesce a sentirsi in pace con se stessa.

Poi la Storia, con la sua urgenza, irrompe anche nel ritiro dorato di Antonia: è il 1938 e le leggi razziali fasciste colpiscono alcuni dei suoi amici più cari. La giovane scrive, amara, al Sereni: <<l’età delle parole è finita per sempre>>. Il male di vivere, di cui soffre da tempo, si acuisce.

Anni prima aveva scritto:

Anima, andiamo. Non ti sgomentare

di tanto freddo, e non guardare il lago, s’esso ti fa pensare ad una piaga

livida e brulicante. Sì, le nubi

gravano sopra i pini ad incupirli.

Ma noi ci porteremo ove l’intrico

dei rami è tanto folto, che la pioggia non giunge a inumidire il suolo: lieve, tamburellando sulla volta scura,

essa accompagnerà il nostro cammino. E noi calpesteremo il molle strato d’aghi caduti e le ricciute macchie

di licheni e mirtilli; inciamperemo

nelle radici, disperate membra brancicanti la terra; strettamente

ci addosseremo ai tronchi, per sostegno; e fuggiremo. Con la piena forza

della carne e del cuore, fuggiremo: lungi da questo velenoso mondo

che mi attira e respinge. E tu sarai,

nella pineta, a sera, l’ombra china

che custodisce: ed io per te soltanto, sopra la dolce strada senza meta, un’anima aggrappata al proprio amore.

Ora le sue liriche sono gravide di oscuri presentimenti e si tingono di malinconia:

Suonano i passi come morte cose

Scagliate dentro un’acqua tranquilla

Che in tremulo affanno rifletta

Da riva a riva

L’eco cupa del tonfo

“Morte” è una parola dolorosamente ricorrente nei suoi versi. Pericolosamente ricorrente. E la morte, infine, si materializza e se la porta via il 3 dicembre 1938, quando Antonia decide di avvelenarsi con dei barbiturici nei prati antistanti l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Il suo biglietto di addio ai genitori parla di un’invincibile “disperazione mortale”, ma la sua famiglia nega a lungo la circostanza del suicidio, per evitare lo scandalo. Le sue prime opere vengono pubblicate postume, dalla Mondadori, un anno dopo la sua morte, dopo essere state revisionate dal padre, che modifica soprattutto quelle dai contenuti amorosi.

Ma, a dispetto delle manipolazioni subite, la produzione lirica della Pozzi affascina tuttora generazioni di lettori per la modernità e per la scarna essenzialità dei suoi versi soffusi di tristezza, debitori del crepuscolarismo e dell’espressionismo tedesco.

Dopo un lungo periodo di oblio, persino il cinema si è interessato ad Antonia e la sua vita è stata ricostruita nel cine-documentario della regista Marina Spada in “Poesia che mi guardi”, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, nel 2009. In occasione del centenario della sua nascita, i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno, poi, realizzato un film-documentario dal titolo “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa” e nel 2016 è stato proiettato, al Cinema Mexico di Milano , un film sulla sua vita intitolato “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino.

Oggi ella riposa nel cimitero di Pasturo, e la sua tomba è vegliata dal monumento funebre dello scultore Giannino Castiglioni, un “Cristo Giovane” che ha lo sguardo rivolto alla Grigna, alle amate montagne testimoni silenti e imperturbabili della “breve sosta” di Antonia nella nostra dimensione terrena.

Io sosto

pensandomi ferma stasera

in riva alla vita

come un cespo di giunchi

che tremi

presso un’acqua in cammino.

Sotto, il trailer del film “Antonia.”, del 2016:

Sotto, il trailer del film del 2009 “Poesia che mi guardi”:

Sotto, trailer di “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa”:

Giovanna Potenza

Giovanna Potenza è una dottoressa di ricerca specializzata in Bioetica. Ha due lauree con lode, è autrice della monografia “Bioetica di inizio vita in Gran Bretagna” (Edizioni Accademiche Italiane, 2018) e ha vinto numerosi premi di narrativa. È uno spirito curioso del mondo che ama viaggiare e scrivere e che legge avidamente libri che riguardino il Rinascimento, l’Età Vittoriana, l’Arte e l’Antiquariato. Ha una casa ricca di oggetti antichi e di collezioni insolite, tra cui quella di fums up e di bambole d’epoca “Armand Marseille”.