C’è un Museo in Europa che non conserva magnifiche opere d’arte, né preziosi reperti archeologici, ma qualcosa che non ha un valore intrinseco, solo una forte valenza simbolica: una raccolta di piccole e povere cose appartenute alle persone deportate nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:
L’ingresso al campo di concentramento di Auschwitz
Immagine di Bibi595 via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0
Migliaia di oggetti che, con un numero di sopravvissuti sempre più esiguo a raccontare l’orrore dei lager, rappresentano la memoria materiale della violenza e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, non una distorsione della coscienza ma il carattere fondante dell’ideologia nazista.
L’unica camera a gas rimasta intatta ad Auschwitz I

Scarpe, valigie, protesi, piccoli oggetti da toeletta, occhiali, qualche vestito: questo rimane, custodito nel Museo Memoriale di Auschwitz, delle decine di migliaia di persone che hanno vissuto, come fantasmi senza nome, nelle baracche del lager meglio organizzato del nazismo: una riserva di schiavi per le fabbriche tedesche e una fabbrica della morte per accelerare la soluzione finale.
Foto aerea del campo, scattata nel 1944, in cui si nota il fumo dei roghi umani di Birkenau, chiamato anche Auschwitz II
Immagine di pubblico dominio
Qualcosa come 40.000 metri cubi di scarpe sono conservate al museo, e capita ancora oggi, dopo 75 anni dalla liberazione del campo, che qualche nuova scoperta rinnovi il senso di strazio provocato dalla vista di quella montagna di stivali, sandali, scarpette da bambino, se pensiamo che ciascuna di esse apparteneva a una persona, un essere umano.
Scarpe raccolte e conservate nel museo di Auschwitz

Proprio all’interno di un paio di scarponcini è stata ritrovata in questi giorni una scritta, vergata a mano, con il nome e il cognome del bambino che li indossava, il suo numero di registrazione nella lista dei trasporti (BA 541) e la marcatura del trasporto.
Adesso possiamo immaginarcelo quel bambino, dargli un volto con gli occhi della mente: si chiamava Amos Steinberg, era nato il 26 giugno 1938 e viveva a Praga, con il papà Ludvík e la mamma Ida.
Lo scarponcino di Amos Steinberg
Immagini del Memorial e Museo di Auschwitz-Birkenau
I documenti scoperti all’interno dello scarponcino. Fonte: www.auschwitz.org:
Ha solo quattro anni quando, il 10 agosto 1942, viene internato con i genitori nel ghetto di Theresienstadt, messo in piedi dall’anima nera delle SS, Reinhard Heydrich.
Pianta dell’intero complesso di Theresienstadt
Immagine di Hans Weingartz via Wikipedia – licenza CC BY-SA 2.0 de
Theresienstadt diventa un campo di concentramento destinato solo agli ebrei, un punto di raccolta prima di trasferirli verso i campi di sterminio. Almeno quelli che sopravvivono alla fame e alle malattie: 35.440 persone muoiono nel ghetto e 88.000 vengono deportati, quasi tutti ad Auschwitz e Treblinka.
Una cella di Theresienstadt
Immagine di Zelfgemaakt via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0
Eppure quel ghetto viene spacciato, dalla propaganda nazista, come un esempio modello di “zona autonoma di insediamento ebraico”, da mostrare all’ispezione della Croce Rossa (23 giugno 1944) dopo un “programma di abbellimento”, e usato come set di un documentario da presentare agli occhi del mondo a fini propagandistici, intitolato “Il Führer dona una città agli ebrei” (il regista, ebreo, finirà in una camera a gas di Auschwitz insieme alla moglie, nonostante gli fosse stata garantita la salvezza).
Forse è per dare lustro all’insediamento modello che a Theresienstadt arrivano molti personaggi di spicco dell’intellighenzia ebrea: letterati, giuristi, diplomatici, musicisti, che si organizzano per non cedere all’annichilamento di quella condizione disumana. Mettono in piedi scuole, spettacoli teatrali e musicali per i tanti bambini del ghetto: sono 15.000, ma alla fine della guerra ne saranno rimasti in vita solo 1.800.
Forse Amos Steinberg è uno dei tanti bambini che partecipa alle lezioni dell’insegnante d’arte Friedl Dicker-Brandeis, che prima di essere deportata ad Auschwitz (dove morirà) riesce a nascondere 4.000 disegni fatti dai “suoi” alunni, ritrovati dopo la fine della guerra.
I disegni dei bambini di Theresienstadt
Doris Weiserovà – Immagine di Pubblico dominio via Wikipedia
Vladimr Flusser – Immagine di F. Cellura via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0
E’ piccolo Amos, e certamente non comprende il valore di quell’incredibile concerto che, con pochissimi mezzi, il Maestro Rafael Schächter riesce a organizzare per gli internati e per i più alti gerarchi nazisti (è presente anche Adolf Eichmann, la banalità del male fatta a persona): La Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, l’occasione per “cantare ai nazisti quello che non possiamo dire loro”.
I nazisti non capiscono il significato profondo di quella scelta, spiegato dal professor Giulio Busi: “Quand’anche l’ultimo deportato fosse morto nelle camere a gas, il giorno del giudizio e della punizione – il terrifico, incalzante Dies irae verdiano – sarebbe giunto per i persecutori ancora in vita. Schächter, i suoi artisti, tutti gli spettatori ebrei erano consapevoli del contenuto di rabbia e dell’aspettativa di riscatto mondano di cui si rivestiva il capolavoro di Verdi. Una vendetta di cui si sarebbero incaricati altri uomini, a breve, non nella dimensione escatologica ma in Europa, in Germania, nel Paese dei carnefici già in fiamme e stretto d’assedio”.
Il crematorio di Theresienstadt
Immagine di Sam via Wikipedia – Licenza CC BY-SA 3.0
A settembre del ’44 non è però più tempo di propaganda, il campo deve essere smantellato per non lasciare traccia dell’orrore di tutti quei cadaveri bruciati nel forno crematorio (le ceneri vengono gettate nel fiume, di notte, dalle donne e i bambini del ghetto), ma i prigionieri sono troppi, nonostante in un mese, tra il 28 settembre e il 28 ottobre del ’44, 18.402 persone siano caricate sui convogli della morte, verso Auschwitz.
L’ingresso ad Auschwitz-Birkenau per i convogli provenienti da Theresienstadt
Immagine di pubblico dominio via Wikipedia
Tra di loro ci sono i musicisti che hanno suonato il Requiem di Verdi, partiti tutti insieme il 17 ottobre, e tutti uccisi al loro arrivo ad Auschwitz.
Prima ancora, il 4 ottobre, il piccolo Amos e la madre sono saliti su un convoglio e probabilmente inviati immediatamente alla camera a gas. Il papà invece, deportato anche lui ad Auschwitz ma non insieme alla sua famiglia, finisce a Dachau e riesce a salvarsi.
I disegni di Terezin: Tomas Kauders
Immagine di F. Cellura via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0
A leggere bene, quelle poche parole scritte quasi certamente dalla madre di Amos, raccontano l’ultimo capitolo di una storia terribile, forse di una disperata speranza di salvezza o forse dell’altrettanto disperata volontà di lasciare una traccia del bambino, perché non fosse solo un filo di fumo disperso nel vento.