“Amici, sto andando al Louvre. Serve qualcosa?” Quella volta che a Picasso vennero messe le manette

Ormai non è un più un segreto: Pablo Picasso era antipatico. Una personalità complessa che, oggi è noto, causava a chiunque lo circondasse – soprattutto donne – numerose sofferenze. Una personalità egocentrica e narcisista che l’ha portato ad essere uno dei più grandi innovatori della storia dell’arte moderna, ma lo ha reso un uomo anche molto fastidioso. Di quelli che, se li vedi e sei di fretta ad esempio, cambi proprio strada che c’è il rischio che ti attacchino una pippa spaventosa.

Ma ecco i fatti così come si sono svolti.

A Montmartre, all’inizio del secolo scorso, gli artisti squattrinati conducono una vita molto tumultuosa e tra i vari, oltre a Picasso, vi sono personaggi quali Max Jacob, Guillaume Apollinaire, George Braque e Andrè Derain. In attesa della gloria si divertono, si ammirano, si denigrano e, soprattutto, si sfidano. Pablito non è ancora Pablo Picasso e abita in una vecchia fabbrica di pianoforti, il Bateau Lavoir.

Pablo Picasso

Attraversa la fase in cui vuole dimostrare, “hasta la muerte”, quanto la sua pittura sia migliore di quella di Matisse, sulla bocca di tutti per quel suo modo di dipingere tanto sgargiante quanto scandaloso. “Sarò io il vero punto di rottura! Gli mostrerò quanto sia rimasto indietro!” è il pensiero dello spagnolo nel momento esatto in cui, un giorno di agosto del 1911, viene chiamato al telefono dall’amico Guillaume Apollinaire che lo informa che è stata rubata, dal Museo del Louvre, nientepopodimeno che la Gioconda di Leonardo Da Vinci!

Ora, non vi immaginate la Monna Lisa e il Museo del Louvre come siete abituati a vederli adesso; nel 1911 l’ex sede reale – fatta edificare nel XII secolo dal re capetingio Filippo II – era tutto fuorché un fortino inespugnabile e il quadro, appeso alla meglio tipo il calendario dei cagnolini sulla parete della mia cucina, non era certo difficile da sgraffignare. Infatti la sicurezza del museo – voluto, ricordiamolo perché è un dettaglio che tornerà, dal governo rivoluzionario nel 1793 – somigliava più a un colabrodo che a un vero sistema organizzato. Per cui immaginate quanto potesse essere facile, se dotati di un minimo di destrezza e astuzia, sfilare un quadretto di Rembrandt oppure scippare un vasetto bizantino, e infilarli sotto al cappotto. Pochi mesi prima del furto, un giornalista si era addirittura nascosto in un sarcofago passando una notte al museo senza che nessuno se ne accorgesse.

Hubert Robert, “Projet d’aménagement de la Grande Galerie du Louvre” (1706)

E comunque la stessa scomparsa della Gioconda viene notata con eclatante ritardo: gli inservienti, non vedendola più appesa al muro, pensano stia semplicemente subendo qualche ritocchino nelle stanze del restauro. Macchè! Qualcuno era riuscito con grandissima non chalance a portarsi via il quadro più famoso del mondo, e l’aveva fatta non franca, franchissima. Una pessima figura insomma.

Il 21 agosto del 1911 il Petit Parisienne riporta, a caratteri cubitali, i dettagli di quella vicenda imbarazzante. “In che modo questo mi riguarda?” chiede Picasso all’amico mentre sono al telefono.

Apollinaire risponde che il furto è stato rivendicato da un truffatore belga, il quale ha rivendicato anche il furto di tre stautette iberiche. E che due di queste si trovano nello studio di Don Pablo perché, quattro anni prima, il tizio gliele aveva vendute per soli 50 franchi al lotto. Un vero affare, peccato che Picasso avesse rimosso. “Ma qual è il rischio?” gli chiede con insistenza e un pizzico di preoccupazione. “Il rischio è che possono risalire a noi perché fui proprio io il vostro intermediario!”. Ok, il casino è grosso: se gli investigatori lo ricollegassero alle statuette, essendo lui straniero potrebbe rischiare l’espulsione e, nella peggiore delle ipotesi, perfino il carcere. Ma non si scomoda troppo in realtà. È il poeta francese, infatti, quello preoccupato perché ha troppe strane fissazioni, tutte incompatibili con la vita dietro le sbarre. “Quindi cosa si fa?” chiede Pablo. “Facciamo sparire le statuine!” è la risposta di Apollinaire. Picasso lo  asseconda, quindi pensano a un centinaio di modalità di occultamento diverse: dalla combustione alla pressa, fino al bagno nella Senna. Detto fatto! Ma, quando al ritorno dei due Fernande Olivier – l’allora fidanzata dello spagnolo – apre la porta dello studio, gli uomini sono pallidi e la borsa con le statuette è ancora piena.

All’ultimo si sono lasciati prendere dal panico. Esasperati, il giorno dopo decidono di andare alla Gare de L’Est, puntare sul deposito bagagli e, contemporaneamente, di informare il Paris Journail della presenza delle statuine incriminate, ovviamente in forma anonima. Ventiquattrore più tardi il Louvre recupera il bottino. Sembrerebbe risolta ma, il giorno dopo, non si sa come le autorità riescono a risalire a Guillaume, quindi bussano alla sua porta per una perquisizione e un secondo dopo lo arrestano. Accusato di furto, viene subito portato in prigione. Il giorno successivo suonano anche alla porta di Picasso. Il pittore viene portato direttamente davanti al giudice, a cui dice di non aver mai visto le statuette e a cui nega, già che c’è, anche l’amicizia col poeta (carino, vero?). “Non ho mai incontrato questo signore!” Sono le parole dello spagnolo. Sconvolto e in iperidrosi, Guillaume non riesce ad aggiungere un brandello di parola e il giudice a questo punto non sa che fare. Imbarazzato e un pò seccato, decide immediatamente di rimandare uno a casa e l’altro in cella, in attesa di risentirli il giorno successivo.

La Monna Lisa dovrà aspettare altri due anni per uscire allo scoperto. Non l’avevano rubata i fratelli Capone ovviamente, ma un italiano, tale Vincenzo Peruggia che, emigrato a Parigi nel 1907, era da poco stato assunto da una ditta incaricata alla manutenzione di alcune stanze del Louvre; qui aveva compiuto il furto nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1911. Entrato dall’accesso riservato agli operai, aveva raggiunto il Salon Carrè, prelevato il quadro ed era uscito dopo averla privata del vetro e della cornice, dall’ingresso principale. Nei mesi successivi, forse in preda al panico, aveva cercato di disfarsene contattando dei collezionisti privati riuscendo, infine, a piazzarla a un tizio di Firenze da cui si sarebbe recato personalmente nel 1912, e presso cui l’opera sarebbe rimasta parcheggiata fino al ritrovamento e al rimpatrio, nel 1913.

Vincenzo Peruggia

Peruggia ha sempre dichiarato di non aver compiuto un furto a scopo di lucro ma di esser stato mosso dall’intenzione di riconsegnare un’opera di grande valore simbolico “Per amor della patria”. In realtà, e questo mito possiamo sfatarlo ormai, il dipinto era di proprietà delle collezioni reali francesi sin dal cinquecento e fu portato a Parigi dallo stesso Leonardo Da Vinci. La Gioconda quindi non è mai stata rubata da Napoleone agli italiani, nonostante la celeberrima vox populi.

Peruggia a processo

Ad ogni modo il gesto di Peruggia aveva suscitato simpatie sia nell’opinione pubblica sia nei suoi conterranei in generale; non aveva mancato di sottolineare, inoltre, che il gesto simboleggiasse anche una sorta di richiesta di risarcimento per le discriminazioni subite, negli anni, dagli emigrati italiani in Francia: il non plus ultra del patriottismo! Peruggia è un grande eroe, un gran paraculo e un ladruncolo di professione che, per la bravata, se la caverà con appena qualche mese di galera.

Picasso torna davanti al giudice ed è in crisi: piange, si dispera perché vuole azzuffarsi con Matisse a suon di pennello. La scena è surreale ma, alla fine, non ci sono elementi validi per condannarli così vengono definitivamente scagionati e rilasciati. Per un periodo di tempo abbastanza lungo lo spagnolo sarà vittima della freddezza degli amici del poeta; poi, un bel giorno, ritrova il sorriso di “Sant” Apollinaire e tra i due torna il sereno. Da quel momento in poi, in tutti i caffè di Montmartre si diffonde la battuta, coniata dallo stesso Picasso “Sto andando al Louvre, serve qualcosa?” pronunciata da chiunque fosse in procinto di recarsi in visita al museo. Il resto è una storia il cui nome ha che fare con una forma geometrica a sei facce: Cubismo.

Daria Cadalt

Genova • Napoli

Figlia di Partenope, è diplomata in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo - Scenografia e Design del Costume - all’Accademia di Belle Arti. Appassionata d’arte, moda, storia e letteratura, realizza accessori e bambole artigianali ed è grafico per l’editoria. “Creo amuleti magici e mondi paralleli. Credo nella reincarnazione: ho vissuto in almeno quattro epoche prima di approdare qui. Dai miei viaggi nel tempo estraggo nettare di primissima qualità.”