Partono in 400 e tornano in 4: la spedizione di Pánfilo de Narváez per prendere possesso della Florida in nome di Carlo V, Re di Spagna, è decisamente un fallimento, e una strage di uomini.
Pánfilo de Narváez
Il 7 giugno del 1527 Narváez parte dalla Spagna con cinque navi e circa 600 persone, tra soldati, marinai e mogli al seguito, per una missione che doveva garantire ai finanziatori una ricchezza simile a quella che Cortes aveva trovato in Messico. Le condizioni per ottenere il governatorato sono due: fondare due città, oggi diremmo villaggi, con un centinaio di abitanti, e due fortezze a guardia delle coste, con soldati sufficienti a presidiarle. Carlo V non mette neanche un soldo per finanziare la spedizione, e si accontenta di un 5% di tutto il bottino che Narváez riuscirà a conquistare. A garantire che il conquistador non voglia fare il furbo c’è Álvar Núñez “Cabeza de Vaca”, tesoriere della spedizione, soldato valoroso e uomo fidatissimo del re.
Álvar Núñez “Cabeza de Vaca”
La spedizione, oltre a cercare oro e ricchezze, ha un altro scopo: Narváez vuole trovare la fonte della giovinezza. Prima di lui ci aveva provato Juan Ponce de Leon, primo uomo bianco a mettere piede sul suolo del Nord America, in Florida.
Ponce de Leon si fa affascinare dai racconti degli indigeni di Porto Rico, dove lui è governatore, che gli parlano di questa miracolosa fonte dove ritrovare forza e giovinezza (de Leon vuole curare la sua impotenza). Le leggende parlano di una sorgente miracolosa nascosta sulle vette di una montagna inaccessibile su un’isola sconosciuta. Ponce de Leon, che si vede togliere l’incarico di governatore dal figlio di Cristoforo Colombo, parte alla ricerca della fonte e invece dell’isola misteriosa scopre la Florida. Di narrazione in narrazione, il luogo della mitica sorgente dell’eterna giovinezza viene spostato in Florida, ed è lì che vuole arrivare Pánfilo de Narváez.
La flotta dell’esploratore arriva a Hispaniola (Santo Domingo) ad agosto, e già lì iniziano i problemi: all’incirca cento tra marinai e soldati disertano, quando si rendono conto dei pericoli della spedizione. Poi Narváez si sposta a Cuba e i problemi continuano: perde due navi, che aveva appena comprato, e sessanta uomini, a causa di un uragano. Alla fine, tra vari spostamenti delle imbarcazioni e il reclutamento di nuovi partecipanti, la spedizione parte con cinque navi, mentre una viene lasciata a L’Avana.
Il Percorso della Spedizione di Narváez, fino a Galveston
Immagine di Lencer via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0
A condurre la flotta nelle ignote acque a nord di Cuba c’è un personaggio appena entrato a far parte della spedizione, un certo Miruelo, che si vanta di conoscere come le sue tasche le coste del Golfo del Messico. Fatto sta che ancor prima di navigare alla volta della Florida, le navi si arenano su delle secche tra Cienfuegos e L’Avana. Non è mare aperto, ma la terraferma, anche se poco distante è irraggiungibile. Uomini e navi rimangono bloccati per 15/20 giorni, e intanto consumano provviste e acqua: le cose più preziose per portare a termine la spedizione. Arriva provvidenziale una tempesta, che libera le imbarcazioni, arrivate tanto vicine al porto dell’Avana da poterne addirittura vedere in lontananza le navi ancorate. Ma un dio dispettoso soffia un vento talmente forte da impedire agli spagnoli di entrare in porto, dove avrebbero potuto fare provviste.
Narváez dà ordine di fare rotta verso le coste del Messico, ma questa volta è la corrente del golfo a impedirgli di arrivare, così alle fine la flotta naviga verso nord e arriva in Florida, più precisamente a Tampa Bay. E’ il 12 aprile del 1528.
Miruelo convince Narváez a cercare un porto che lui dice di conoscere bene, e durante questa ricerca la flotta perde una nave. Quando gli spagnoli vedono segni di presenza umana decidono comunque di sbarcare, sperando di trovare qualcosa da mangiare, acqua, e possibilmente anche un po’ della ricchezza promessa. I nativi sono socievoli e accettano gli oggetti di nessun valore offerti dagli spagnoli, dando loro in cambio cibo fresco. Nella notte tutti gli abitanti di quel villaggio accogliente scompaiono, i conquistadores si accontentano di un disco in oro trovato nell’accampamento per decidere di prendere possesso del luogo in nome di Carlo V.
Poi Narváez ordina a Miruelo di guidare un brigantino nel grande porto di cui parlava. In caso di insuccesso, sarebbe dovuto tornare a Cuba.
Da quel momento, e per molto tempo, nessuno saprà più nulla di lui, della nave e dell’equipaggio
Intanto il conquistador, che non trova soddisfacente il poco oro trovato tra i nativi Tocobaga, dà loro ascolto a proposito delle grandi ricchezze del popolo Apalachee, che vive più a nord.
Narváez, con il parere contrario di Cabeza de Vaca, decide che è meglio proseguire la missione seguendo due strade, una via mare e una via terra. 300 soldati devono cercare il territorio Apalachee marciando verso nord, mentre un centinaio di uomini proseguono via mare. Alla fine Cabeza de Vaca, per non passare da vigliacco, si unisce alla spedizione terrestre. Insieme a lui ci sono, tra gli altri, Alonso del Castillo Maldonado, Andrés Dorantes, e uno schiavo di origini berbere, Estevanico, il primo africano a porre piede sul suolo dei futuri Stati Uniti.
Monumento ad Álvar Núñez “Cabeza de Vaca” a Houston (Texas)
Immagine condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons
Non è facile attraversare territori sconosciuti: manca il cibo, e per procurarselo occorre ridurre i nativi in schiavitù. Narváez prima cerca di ricongiungersi con le navi, ma visto che non le trova, decide di proseguire verso nord. Gli spagnoli arrivano a un villaggio di nativi Timucua, che danno loro del cibo, ma poi scompaiono tutti nel giro di una notte.
Durante la marcia i conquistadores sono consapevoli di essere seguiti da indigeni ostili, ma riescono comunque a farne prigioniero qualcuno, da usare come guida. Finalmente, il 25 giugno 1528, Narváez e i suoi raggiungono le terre degli Apalachee. Pensano di aver raggiunto la città più importante quando entrano in quello che invece non è che un piccolo villaggio di quaranta case.
Gli spagnoli non trovano il tanto agognato oro, ma si accontentano del ben più nutriente mais. Il cacicco del villaggio, insieme a molti altri uomini, viene preso in ostaggio, e questo non piace alle altre tribù. Gli Apalachee attaccano gli spagnoli e adottano tattiche di guerriglia a cui i conquistadores non sono avvezzi. Intanto Narváez manda degli esploratori alla ricerca della tanto decantata ricchezza di quei nativi, ma nessuno trova niente.
Alla fine lo spagnolo, stanco, deluso e probabilmente ammalato, decide di tornarsene verso sud. Su consiglio dei nativi prigionieri, quello che resta della spedizione si dirige verso un villaggio dove il cibo dovrebbe abbondare, della tribù degli Aute. Gli spagnoli si inoltrano in un territorio paludoso, dove tutto ciò che costituisce la loro forza – cavalli, archibugi, balestre e corazze – si trasforma in un ostacolo. Quando raggiungono i villaggi degli Aute non trovano altro che fumo e macerie:
I nativi, avvisati dagli Apalachee hanno fatto terra bruciata intorno agli spagnoli
Ormai non c’è più in gioco la conquista di nuovi territori e della loro ricchezza, ma solo la sopravvivenza di quel gruppo di uomini disperati, affamati e ammalati. Cabeza de Vaca parte alla ricerca del mare, mentre tra gli uomini rimasti c’è chi pensa di allontanarsi da solo portandosi via i cavalli, e chi inizia seriamente a convincersi che per sopravvivere occorre praticare il cannibalismo.
Alla fine arrivano tutti a una baia, dove qualcuno prende in mano la situazione e decide che l’unico modo per salvarsi è costruire delle navi, o meglio, delle grandi zattere. Gli spagnoli si arrangiano a costruire una fucina, ricavano attrezzi fondendo le armature, usano la pece dei pini per impermeabilizzare gli scafi, cuciono delle vele con le camicie, intrecciano corde con i crini dei cavalli. Intanto, per sopravvivere, mangiano i cavalli, uno ogni tre giorni, e da allora quel luogo è conosciuto come la Baia dei Cavalli. Tra il 4 agosto e il 20 settembre 1528 i disgraziati conquistadores costruiscono cinque grandi zattere. Sono rimasti in 242, che si dividono in gruppi di circa cinquanta persone per ogni scafo.
Quel disperato tentativo non rappresenta la salvezza: muoiono quasi tutti per fame, sete, malattie e sono ridotti a circa ottanta, quando un uragano sbatte i superstiti su un’isola, probabilmente Galveston, a sud del Texas.
Il naufragio degli spagnoli a Galveston
Sopravvivono in quattro: Cabeza de Vaca, Alonso del Castillo Maldonado, Andrés Dorantes, e lo schiavo Estevanico. Tra mille avventure, a volte insieme, a volte divisi, raggiungono il Messico dopo otto anni di viaggio attraverso Texas, Arizona e il deserto di Sonora. Riescono a sopravvivere perché conquistano tra i nativi la fama di guaritori (in particolare Cabeza de Vaca), mentre Estevanico è quello che meglio riesce mediare con le popolazioni indigene.
Il viaggio dei quattro superstiti da Galveston in Messico
Alla fine incontrano in Messico una spedizione di spagnoli, ma ormai Cabeza de Vaca non è più l’uomo che era partito tanti anni prima dalla Spagna.
Ha una consapevolezza nuova, lungo la strada ha perso ogni traccia di pregiudizio nei confronti dei popoli nativi
Rifiuta di ridurre in schiavitù gli indigeni che lo hanno seguito, e per questo viene imprigionato e rimandato in Spagna. Cerca di far nascere da quell’esperienza una nuova visione anche a Carlo V, attraverso una relazione che gli invia, e che poi diventerà un libro intitolato Naufragi.
La relazione di Cabeza de Vaca a Carlo V
Il re spagnolo non si fa minimamente influenzare, e il colonialismo spagnolo va avanti per la sua strada senza curarsi minimante di ciò che distrugge.
Per concludere la storia di questi conquistadores che non hanno conquistato un bel niente occorre precisare che le navi di Narváez, compresa quella comandata da Miruelo, navigarono per circa un anno lungo le coste del Golfo, sperando di ritrovare i compagni, fino a che non decisero di invertire la rotta e tornare verso il Messico.
Nel 1539 lo schiavo Estebanico partecipò a una spedizione partita alla ricerca delle sette città di Cibola, ma da quella non tornò: lo uccisero dei nativi in villaggio di quello che oggi è il Nuovo Messico.
Degli altri due sopravvissuti non si sa nulla, mentre Cabeza de Vaca, che pure partecipa a un’altra spedizione, questa volta in Paraguay, non riesce a nascondere la sua ostilità nei confronti della monarchia spagnola, e finisce nuovamente in prigione e poi in esilio. Conclude i suoi giorni in patria, a Siviglia, forse ripensando a quegli strani anni fatti di sudore, sangue, fame e malattie, che pure lo hanno trasformato in un uomo migliore, libero dal pregiudizio che rende schiavi gli uomini senza bisogno di catene.