8 agosto 1956: il Disastro della Miniera di Marcinelle

Nel nostro immaginario, il lavoro in miniera ci porta al XIX secolo, ai racconti di Charles Dickens o, per non allontanarci dal nostro paese, a racconti come Rosso Malpelo di Giovanni Verga e Ciaula scopre la luna di Luigi Pirandello, che narrano le tragiche vicende dei carusi nelle zolfare siciliane. Quello a cui non pensiamo, però, sono i tanti italiani che, dopo la guerra, emigrarono in cerca di fortuna in giro per l’Europa, dove era richiesta manodopera nelle miniere. Una delle mete più ambite fu il Belgio.

Perchè proprio il Belgio?

Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Belgio, nonostante fosse stato in larga parte risparmiato dalla furia bellica, si trovò a far fronte a un’alta richiesta di forza lavoro. Dall’altra parte, l’Italia uscì completamente distrutta dalla guerra. Venne così firmato il 23 giugno 1946 l’accordo italo-belga, che prevedeva l’invio di cinquantamila minatori in cambio di tremila tonnellate di carbone per ogni minatore, per un totale di due o tre milioni di tonnellate. Accordo che, come si scoprì qualche tempo dopo, il Belgio non rispettò, tanto che l’Italia dovette fare affidamento al carbone “regalato” dagli Stati Uniti.

Regolamento degli alloggi per i minatori, Museo del Bois du Cazier – Immagine di Loriana Serafin

In tutta Italia vennero affissi i manifesti di reclutamento con allettanti proposte, come alti salari, congedi pagati, il biglietto gratuito per Bruxelles e la promessa di un alloggio con pasti caldi inclusi anche per la propria famiglia.

Manifesto di reclutamento, Museo del Bois du Cazier – foto di Loriana Serafin

Una volta arrivati in Belgio, però, i lavoratori scoprirono la triste realtà dietro le allettanti promesse, realtà che aveva spinto i belgi a non voler più lavorare in miniera, senza nemmeno contemplare il terribile viaggio fatto da Milano sui treni bestiame.

Vagone partito dalla stazione di Milano, Museo del Bois du Cazier – Immagine di Loriana Serafin

Primo fra tutti il problema dell’alloggio: non si trattava di piccole case con tutte le comodità dell’epoca, quanto piuttosto di enormi capannoni di metallo, quindi roventi in estate e gelidi in inverno, che durante la guerra fungevano da prigione, e da cui non si poteva fuggire in quanto nessuno affittava le case agli italiani, che anzi venivano chiamati “sporchi maccheroni”.

Capannone al Museo del Bois du Cazier – Immagine di Loriana Serafin

I turni poi erano massacranti, senza contare lo shock di dover scendere sotto terra, soprattutto per chi soffriva di claustrofobia, e chi si rifiutava di lavorare veniva portato in carcere al Petit Chateau; c’era inoltre chi non si rendeva conto di dove si trovasse realmente e chiedeva di “poter aprire una finestra”. I minatori poi venivano portati sul luogo di lavoro bendati, proprio per evitare che si rendessero conto di dove si trovassero e cercassero di conseguenza di scappare. All’interno della miniera venivano utilizzati i cavalli per spostare i carichi pesanti. Come sostenevano i minatori: se moriva uno di noi nessuno ci faceva caso, ma se moriva un cavallo era una vera disgrazia.

Pozzo di estrazione, Museo del Bois du Cazier – Immagine di Loriana Serafin

Lo stesso destino che incontravano le classi più povere nell’Inghilterra del XIX secolo quando, spinte dalla fame e dalla miseria più nera, erano costrette ad affidare la propria vita a degli aguzzini, proprietari di miniere di carbone.

Nelle miniere inglesi, a differenza di quelle europee, non si faceva differenze tra gli individui che “assumeva”: agli uomini venivano assegnati i carichi pesanti, alle donne i carichi appena più leggeri e i compiti di aiuto, mentre ai bambini toccava infilarsi nei pertugi più stretti per recuperare quanto più materiale possibile.

Le condizioni di lavoro nelle miniere inglesi erano deplorevoli, in cui gli operai erano abbandonati a se stessi, senza nemmeno la parvenza di quelle che ai nostri giorni consideriamo basilari norme di sicurezza. Questa mancanza portò a vari disastri durante il XIX secolo, disastri che catturarono l’attenzione della regina Vittoria, che si batté, per quanto possibile, in prima persona per introdurre delle leggi che regolamentassero il lavoro in miniera.

Nonostante l’introduzione di queste nuove norme, la disperazione portava la gente a seguire dei comportamenti illegali pur di lavorare e racimolare un misero pezzo di pane. Ma in qualche modo le leggi ottennero l’effetto sperato.

Nel XX secolo, infatti, le condizioni dei minatori inglesi, legate anche alla minore disposizione di minerale nel sottosuolo, erano decisamente migliori rispetto al continente, e questo si nota anche nella minore frequenza di incidenti sul lavoro. Incidente che non si potè evitare l’8 agosto del 1956 a Marcinelle, in Belgio.

Marcinelle è una città non lontana da Bruxelles, circondata da miniere di carbone, la cui più famosa è il Bois du Cazier.

L’incidente

L’8 agosto 1956 cominciò come una giornata normale: i 275 minatori, tra cui 139 italiani, scesero sotto terra, fino al livello 975 sotto terra, per raggiungere il loro posto di lavoro.

Alle 8:10 del mattino, a causa di un fraintendimento con la superficie, vennero caricati due carrelli sull’ascensore, chiamati “cage”, ovvero gabbie in francese, che sporgono all’esterno. Uno dei due vagoni, nella risalita dei livelli, si agganciò a una trave presente nel pozzo, causando così l’arresto immediato dell’ascensore. La trave si trasformò così in un ariete, arrivando a spaccare dei cavi elettrici ad alta tensione, a danneggiare un tubo dell’olio polverizzato e a rompere una conduttura d’aria compressa.

Il mix fu letale: si scatenò un incendio che si propagò per tutto il livello 975, aiutato dal legno che ricopriva le pareti. Come se ciò non bastasse, il luogo dell’incidente era il pozzo uno, che fungeva da entrata per l’aria, favorita anche dalle turbine all’ingresso del pozzo, mentre era il pozzo numero due che funzionava come canale d’uscita per l’aria. Il pozzo tre, che avrebbe migliorato le condizioni di sicurezza all’interno della miniera, era ancora in costruzione. Nei minuti successivi, alcuni minatori riuscirono ad uscire dal pozzo grazie al secondo ascensore, seguiti dai primi fumi che preannunciavano il disastro.

In poco tempo, i minatori che avevano appena terminato il turno di notte, i colleghi a riposo e persino le famiglie nelle baracche, si accalcarono attorno al pozzo, nella speranza di poter ritrovare amici, familiari e connazionali. Purtroppo, però, non c’era più niente da fare. Quei sette minatori che, per un puro caso del destino, uscirono con la cage durante l’esplosione furono anche gli ultimi minatori che scapparono con le proprie gambe dal pozzo del Bois du Cazier.

I soccorsi

Fu  l’incidente che scosse il Belgio e, di conseguenza, l’intera Europa, che era in ansia e piangeva le sue vittime. Vennero subito inviate delle squadre di soccorso, minatori di miniere vicine e il Poste centrale de secours des Hovillères du Nord-Pas-de-Calais, ovvero quella che oggi chiameremmo Protezione Civile. Per la prima volta nella storia, i mezzi di comunicazione. la radio, la televisione e i giornali, coprirono ampiamente il disastro e le operazioni di salvataggio. Il re Baldovino di Belgio si recò subito sul luogo del disastro.

Targa commemorativa dell’incidente, Museo del Bois du Cazier – Immagine di Loriana Serafin

Considerata la tradizione del lavoro in miniera, anche la Germania dell’Ovest mandò delle squadre di minatori e di soccorritori direttamente dalla valle della Ruhr. Le operazioni di salvataggio andarono avanti fino al 23 agosto, ma, esclusi i primi sei minatori estratti subito dopo la catastrofe, il verdetto fu solo uno a ogni livello: “tutti cadaveri”. I soccorritori raccontarono successivamente di quanto fosse difficile farsi strada nei canali dopo l’incendio e di come i cadaveri venissero riconosciuti non per i loro tratti fisici ma per i rammendi che le mogli facevano ai loro vestiti.

Le conseguenze economiche e sociali

I rapporti tra Belgio e Italia si incrinarono pericolosamente, tanto che l’Italia decise di interrompere immediatamente lo scambio con il Belgio. Quest’ultimo, senza più manodopera, dovette rivolgersi ad altri paesi come Spagna e Grecia. Ma il cambiamento più grande fu a livello sociale: i belgi per la prima volta si accorsero degli italiani che erano dei veri e propri reietti della società, i cui figli a scuola venivano maltrattati proprio perché italiani. La comunità italiana si strinse attorno alle famiglie delle vittime, soprattutto in Abruzzo, la regione che pagò il più alto contributo di vittime. Per sostenere le famiglie e gli orfani venne organizzata a Roma una serata di beneficienza, con personaggi del calibro di Alberto Sordi, che donarono del denaro a sostegno della causa. A livello internazionale, invece, ci si rese conto che non si potevano più mandare gli uomini a morire nelle miniere: la neonata CECA decise di seguire le orme della regina Vittoria, codificando le basilari norme di sicurezza in miniera.

Norme di sicurezza che purtroppo ancora in molti paesi del mondo, soprattutto la Cina, non vengono seguite, come se il disastro del Bois du Cazier e la morte di 273 persone non avesse insegnato nulla.


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