Bon cop de falç, bon cop de falç defensors de la terr. Il ritornello di Els Segadors (“I mietitori”), l’inno catalano, esalta i colpi di falce dei contadini e l’amore incondizionato per la propria terra, orgogliosa e caliente come nessuna. Solo che in quel fatidico giorno del giugno 1640 i catalani non falciarono i campi, bensì le vite di coloro che da tempo occupavano quella terra senza alcun rispetto.
Seppur le vittime dell’eccidio fossero in Catalogna ufficialmente per difendere la Spagna dai francesi (era ancora in corso la guerra dei Trent’anni) esse non si risparmiarono in violenze e depredazioni ai danni della povera popolazione locale. Quando la misura fu colma i contadini, già dal mese di maggio, imbracciarono i loro attrezzi e nel giorno del Corpus de Sang (il Corpus Domini in lingua catalana), sparsero morte e terrore tra le odiate milizie reali a suon di bon cop de falç, non risparmiando nemmeno la nobiltà ritenuta loro complice. Era l’inizio di una lunga spirale di rivendicazioni e malumori i cui echi sono giunti intatti sino al giorno d’oggi.

La sollevazione iniziale di maggio fu solo la miccia di una situazione esplosiva che prese piede nell’intero principato catalano, protraendosi poi per circa un decennio. Dopo i primi episodi di rivolta contro le truppe fu il 7 giugno, in quel giorno sacro dedicato al corpo di Gesù, che contadini, mietitori e lavoratori imperversarono per le strade di Barcellona uccidendo i soldati inviati da Madrid, ma non solo.
Gli eventi precipitarono rapidamente e i segadores si lasciarono dietro anche il sangue di alti ufficiali, giudici, nobili di spicco e qualunque persona fosse in qualche modo legata all’odiato valido del re, il conte-duca Olivares. A farne le spese quel giorno fu anche il viceré Dalmau de Queralt, conte di Santa Coloma, pugnalato mentre tentava una fuga disperata. La rivolta contadina però ebbe l’appoggio anche dell’aristocrazia catalana e non fu sedata definitivamente prima del 1659.
Inoltre i ricordi di quelle gesta si impressero in profondità nella coscienza dell’orgoglioso principato, da sempre restio alla sottomissione al regno di Castiglia, e lo spirito ribelle dei catalani non si spense nemmeno durante la guerra civile che vide contrapposti gli Asburgo e i Borbone all’inizio del secolo seguente. Tuttavia la domanda sorge spontanea: quali furono le cause di tanta rabbia da parte del popolo catalano se quelle truppe, come accennato, erano lì per difendere il confine spagnolo dai francesi?
Le risposte sono da ritrovarsi in due peculiarità di quell’epoca, cioè la struttura “pattizia” della società per ceti e il mal governo del conte-duca Olivares, ministro favorito e plenipotenziario del re Filippo IV d’Asburgo.
La Spagna imperiale e la sua peculiarità
Il Seicento è ricordato dagli storici come il secolo delle rivolte: sollevazioni, tumulti e sanguinarie rivoluzioni presero piede a macchia d’olio nei maggiori regni europei. La Spagna imperiale, ancora ebbra di un Cinquecento ricco di conquiste e nel pieno di quello spartiacque che fu la terribile guerra dei Trent’anni (1618-1648), fu messa a ferro e fuoco anche dall’interno.
Oltre un secolo di contraddizioni e incomprensioni tra la corona asburgica e le tante parti dell’Impero avvelenarono quella “monarchia composita” (come la definì efficacemente lo storico John H. Elliott) tenuta incollata dal re con il bastone delle armi e la carota dei privilegi accordati a singoli territori. La Spagna iberica dell’epoca era un crogiuolo di realtà diverse e formalmente separate facenti capo, sostanzialmente, alla sfera castigliana o a quella aragonese. Entrambe queste “federazioni” a loro volta avevano dei domini sparsi in tutto il mondo e, nonostante la singolarità di ogni frazione di questa monarchia composita, al vertice di tutto vi era un re che, a partire dall’esperienza da vedovo di Ferdinando d’Aragona, riuniva le corone castigliana e aragonese.
L’avvento di Carlo d’Asburgo nel 1516 sancì, in capo ad una sola persona, la dominanza di tale prestigiosa famiglia sul trono di Madrid ininterrottamente fino al 1700. La morte dell’ultimo degli Asburgo di Spagna senza eredi diede vita alla guerra di Successione spagnola. In questo conflitto il Principato, seguito da altri regni della galassia aragonese, si schierò col pretendente austriaco l’arciduca Carlo d’Asburgo (poi sovrano del Sacro Romano Impero) in opposizione a quei regni, guidata dalla Castiglia, fedeli al nipote del Re Sole, il duca d’Angiò Filippo.
La ragione della scelta catalana era semplice: gli Asburgo avevano comunque garantito la sopravvivenza dei fueros e delle istituzioni locali, patteggiando coi ceti quando necessario e mantenendo quel “sistema” tanto caro al Principato (lo stesso arciduca Carlo, proclamato re de facto dai regni filoasburgici durante la guerra, giurò di mantenere gli usi e costumi esistenti). Filippo invece era letteralmente un “prodotto” di Luigi XIV: il giovane pretendente -legittimo- era nato e cresciuto a Versailles e recava con sé un’idea completamente diversa sul come governare. L’avvento dei Borbone, come poi sarebbe accaduto, segnò la nascita in Spagna di uno stile di governo molto più accentrato, diretto e burocratizzato. Di scendere a patti coi ceti e con i sudditi non vi sarebbe stato più bisogno.
La Catalogna dell’epoca asburgica però era un principato con propri usi, costumi, privilegi, usanze, istituzioni e persino leggi, facente capo al regno d’Aragona. La posizione strategica del Principato e le rotte marittime con i domini aragonesi nel Meridione italiano permisero nel corso dei secoli precedenti alla scoperta delle Americhe la crescita economica, culturale e commerciale della regione. Tuttavia fu proprio la conquista del Nuovo mondo, inglobato dal regno di Castiglia, a sancire l’inizio del declino catalano. Le enormi quantità di oro, spezie, materie pregiate e schiavi provenienti dall’Atlantico resero la realtà castigliana (roccaforte di fatto della corona) incredibilmente ricca e potente, al punto che diveniva sempre più insistente il suo desiderio proibito di estendere il proprio retaggio (e volere) agli altri regni circostanti.
Ciò avvenne a partire dal 1707 con i decreti borbonici di Filippo V conosciuti come la Nueva Planta e con la “castiglianizzazione” che ne seguì. Usi, costumi e istituzioni dei vari regni furono in gran parte aboliti e sostituiti con quelli della Castiglia la quale impose persino l’uso della propria lingua. La società per ceti andò lentamente (ma non del tutto) scomparendo da quando il nuovo re borbonico cominciò ad “espropriare” i ceti delle loro funzioni sul territorio (usando un pensiero di Max Weber), avocando a sé qualunque funzione di interesse statale (o inquadrando quei funzionari primi portatori di interessi locali nella burocrazia reale).
Furono i privi vagiti della Spagna come la conosciamo oggi, ma ciò non vuol dire che i dissapori interni non sopravvissero, anzi.
La società per ceti
Una delle più affascinanti costanti dell’Età moderna europea fu quella “società per ceti” che vedeva nella suddivisione in classi sociali diverse la propria linfa vitale. Alcuni illustri studiosi come Oestreich, Reinhardt, Brunner, Stolleis e Gerhard dedicarono buona parte della loro ricerca alla dinamica di questo tipo di società “pattizia”. In effetti, a differenza di quanto poi accadde con l’avvento dello Stato assoluto, i rappresentati dei tre classici ceti (nobiltà, clero e componente cittadina) avevano la possibilità di contrattare direttamente col signore di turno (dallo stesso sovrano a un suo sottoposto) alcuni “accordi di governo”. Nella maggior parte dei casi questi prevedevano la garanzia dell’obbedienza al signore (dal regolare pagamento delle tasse alla fedeltà nei casi di guerra o crisi interna) in cambio di alcune concessioni.
Tali privilegi venivano accordati dall’alto direttamente ai rappresentanti dei ceti, come vescovi, duchi, borgomastri cittadini e affini, e comprendevano delle garanzie che si estendevano ai territori da costoro controllati e gestiti. Uno dei privilegi maggiormente richiesti nelle esperienze europee dell’epoca era l’esenzione dall’acquartieramento delle truppe, ritenute dalla cittadinanza una vera e propria condanna. Ospitare una soldatesca formata da decine e decine di migliaia di uomini pronti alla guerra non era affatto facile per le spesso piccole cittadine abitate in gran parte da contadini. Quest’ultime avrebbero dovuto fornire alle truppe vitto e alloggio, spesso ben al di là delle proprie possibilità.
Tali privilegi e concessioni erano raccolti talvolta in compilazioni conosciute nella Spagna imperiale come fueros. Essi consistevano in voluminose raccolte, in parte scritte e in parte orali, contenenti privilegi antichissimi accordati dai sovrani o signori precedenti e che, nella maggior parte dei casi, dovevano restare immutati. I ceti nelle grandi occasioni come incoronazioni o avventi di nuovi signori locali ne approfittavano per proporre alla controparte il giuramento sui fueros, modificabili o revocabili solo su loro stesso consenso. In cambio, i ceti si sarebbero fatti garanti dell’obbedienza alle leggi sul territorio di loro competenza, in una sorta di co-gestione ramificata. Sarà proprio il venir meno di questo spirito di “contrattazione” tra corona e regno a causare la frizione sociale che porterà alla nascita dell’Assolutismo. Tornando a Weber, l’espropriazione delle funzioni di governo dei ceti da parte del re e la volontà di costui e del suo apparato di non dividere più il potere porterà alla lunga alla nascita degli Stati così come li conosciamo dall’inizio del XIX secolo.
Il conte-duca Olivares e la Catalogna “francese”

L’invio delle truppe reali in Catalogna a difendere il Rossiglione (contea di frontiera poi ceduta alla Francia nel 1659) fu voluto da Olivares. Costui fu solo uno dei vari ministri favoriti del re che in quel periodo acquisirono enorme potere in Europa. Secondo lo storico Francesco Benigno non è da escludersi che alla base di tutte quelle rivolte del Seicento sparse tra Francia, Inghilterra e Spagna vi fosse proprio un malcontento popolare verso il governo del “favorito”. Personaggi come Richelieu, Mazzarino, il duca di Buckingham, il duca di Lerma e Olivares divennero talmente influenti da regnare letteralmente al posto di quei sovrani di cui avrebbero dovuto essere null’altro che fidi consiglieri. Olivares fu ministro di Filippo IV tra il 1621 e il 1643, periodo durante il quale concedeva grazie e favori, smuoveva eserciti, alimentava la corruzione a corte e negoziava persino trattati internazionali.
Questo stato di cose portava spesso e volentieri i rivoltosi di quei tempi ad urlare frasi come “viva il re e morte al malgoverno”, perché il sovrano in realtà non era visto dai sudditi come un nemico, ma come l’ultima speranza di mettere fine a tale usurpazione. Durante queste rivolte era pratica comune quindi appellarsi direttamente al re, chiedendo umilmente che fosse messo fine al malgoverno del cattivo ministro, reo tra l’altro di infangare il prestigio della corona. Rivoltarsi direttamente contro il re (o chi ne faceva le veci) era talvolta sì consentito dagli stessi fueros (il noto diritto di resistenza), ma si sperava sempre fosse l’extrema ratio.
L’acquartieramento delle truppe imposto da Olivares alla Catalogna non era previsto nei termini in cui avvenne. I personaggi più influenti del Principato lamentavano che le truppe stavano prendendo molto più di quanto pattuito negli antichi privilegi. Mentre dotti e esperti di leggi in quei giorni cercavano tracce e cavilli a dimostrazione che il conte-duca avesse violato i patti, la rabbia sociale salì alle stelle. Era la Castiglia a fornire il contingente militare per tutta la Spagna, ma poi toccava agli altri regni almeno fornire viveri, rifornimenti e all’occorrenza l’alloggio strada facendo. Naturalmente nessun signore locale voleva sobbarcarsi un dispendio simile, ma una soldatesca aggressiva e composta da diverse migliaia di individui era impossibile da evitare. Ne ebbero un grave assaggio i catalani quando appunto l’esercito abusò della propria posizione e si lasciò andare a soprusi e razzie.
L’esasperazione quindi portò i contadini alla vendetta che presto sfociò in rivolta su grande scala. Olivares (dovrebbe dirsi in realtà Filippo IV, ma non è così) si trovò in mezzo a due fuochi: minaccia esterna in un conflitto internazionale e minaccia interna su scala nazionale. Lo spirito atavicamente bellicoso dei catalani fece sì che una rivolta di semplici contadini perdurò per oltre un decennio, con annesso dispendio di risorse della corona. Olivares in prima persona ne fece le spese, costretto all’allontanamento dalla corte nel 1643 per via dell’insuccesso catalano.
Prima di allora, nel 1641 dalla sinergia tra segadors sul campo e aristocrazia nei palazzi nacque la Repubblica catalana, la quale offrì il proprio destino ai francesi, allora guidati da Luigi XIII (il cui favorito era Richelieu). Tuttavia i francesi non si comportarono meglio dei castigliani: la Catalogna si ritrovò ad essere in pratica vittima di se stessa, dovendo subire i pesanti acquartieramenti delle truppe francesi inviate contro Filippo IV. Alla fine il popolo ebbe la forza di tornare sui propri passi e sollevarsi anche contro i francesi, ma questi abbandonarono la causa catalana solo dopo i fatti del 1648, non avendo più interesse a sperperare ulteriori risorse in un conflitto di confine che ormai per loro non aveva né capo né coda. Nel 1651, dieci anni dopo la nascita della Repubblica, il fido don Giovanni d’Austria venne inviato da Madrid a riprendere una volta per tutte la problematica terra catalana costringendo finalmente i rivoltosi alla resa.
Els segadors. Molto più di un inno
Catalunya, triomfant, tornarà a ser rica i plena! è la strofa d’apertura dell’inno e si presta perfettamente a sintetizzare lo spirito ribelle catalano. Il testo si intitola Els segadors in omaggio alla rivolta del 1640. A quanto pare la prima stesura del testo originale risale proprio al periodo del Corpus de sang di quell’anno; la versione attuale fu approvata negli anni Novanta del XX secolo. Quest’ultima non è che un breve pezzo ammodernato della più lunga e vetusta opera ottocentesca che, a differenza della prima, fa riferimenti a precisi eventi e figure storiche.
Nella prima strofa si legge Ara el rei Nostre Senyor declarada ens té la guerra (“ora il re nostro signore ci ha dichiarato guerra”) e nella terza si fa riferimento proprio a Olivares e alla guerra mossa contro il popolo catalano. In entrambi i testi nel ritornello si legge la frase Bon cop de falç riferita alla sollevazione dei contadini e di seguito si citano luoghi di brutali scontri e azioni violente commesse dall’esercito inviato da Madrid (si menzionano l’uccisione di cavalieri e sacerdoti ed episodi di violenze sessuali). Inoltre si fa esplicito riferimento alla questione del vitto, la goccia che fece traboccare il vaso.
L’inno catalano è ancora oggi molto in voga. I fatti del 2017 riferibili al contestato referendum per l’indipendenza dalla monarchia spagnola videro quotidianamente Els segadors cantata da migliaia di persone, soprattutto giovanissimi. Pochi anni prima della votazione ricorsero i trecento anni dalla sconfitta del Principato per mano delle milizie borboniche: l’11 settembre del 1714 l’esercito di Filippo V espugna definitivamente Barcellona, mettendo di fatto la parola fine alla parte interna della Guerra di successione spagnola.
Da allora la Catalogna andò incontro ad un lento declino politico e culturale dovuto all’imposizione di usi, costumi e lingua castigliana e alla sua riduzione a mera “provincia” del nuovo regno spagnolo unificato, identificabile nei fatti con la sola Castiglia. Tuttavia nei secoli successivi l’insofferenza per la perdita di autonomia non si è mai sopita e, caduta anche la dittatura franchista e ricostituita la democrazia, ripresero piede anche le istanze indipendentiste. L’11 settembre di ogni anno i catalani festeggiano la Diada Nacional de Catalunya, una sorta di celebrazione “nazionale” che però, come visto, ricorda una sconfitta e non una vittoria o liberazione, come accade nella maggior parte delle festività nazionali nel mondo. Els segadors in quel giorno per la parte “dura” dei catalani è più forte che mai.
Bon cop de falç, bon cop de falç defensors de la terr.
Fonti consultate:
ANC Italia, Google Arts & Culture, Treccani, Corriere, Catalunyaweb, Jstor,