Il sonnambulismo è un disturbo del sonno appartenente al gruppo delle parasonnie e ne soffre circa il 3% della popolazione mondiale adulta. I primi studi sull’argomento li effettuò lo scienziato tedesco Karl Reichenbach nel 1839 e, grazie alle continue ricerche nel campo medico e psicologico, sappiamo che si verifica prima del passaggio alla fase REM e durante il sonno a onde lente, ovvero il 3° e il 4° stadio del sonno; quindi, nelle prime due o tre ore in cui il dormiente non sogna.
Il fenomeno è causato da un evento fisiologico inappropriato (stress, ansia, abuso di alcolici, depressione, insonnia, etc.) in cui il cervello cerca senza successo di svegliarsi e uscire dal sonno a onde lente, ma rimane bloccato tra i due stadi. Ne consegue che, a differenza del sistema motorio che si attiva, il soggetto rimane in uno stato di incoscienza. In linea di massima, gli episodi di sonnambulismo hanno durata variabile e si manifestano con occhi spalancati e persi nel vuoto, passeggiate notturne per la casa o conversazioni senza senso.

Le persone affette da questo disturbo, potenzialmente, possono compiere azioni anche più complesse, come avere rapporti sessuali, la cosiddetta sexsonnia, o, addirittura, manifestare una spiccata vena artistica. È questo il caso di Lee Hadwin, un celebre artista gallese che è in grado di realizzare le sue opere solo da sonnambulo.
«Mi sono svegliato un mattino e avevo disegnato tre piccole immagini di Marilyn Monroe, il che ha ovviamente sbalordito i miei genitori. E la ragione è che nello stato di veglia, di coscienza della mente, non ho alcun talento artistico».
Il rovescio della medaglia è che un disturbo del genere può essere pericoloso sia per il soggetto sia per chi gli sta intorno, perché la totale libertà di movimento di una persona non cosciente può implicare anche l’omicidio. I casi documentati di killer sonnambuli sono circa settanta e il loro esordio nelle aule dei tribunali risale al 1846, quando l’avvocato Rufus Choate difese il suo cliente e stabilì il primo, storico, precedente in materia.

Albert Tirrell, il capostipite dei killer sonnambuli
Albert Jackson Tirrell, nato nel 1824, ventunenne già sposato e con due figli, nel 1845 conobbe la ventenne Maria Bickford, una prostituta di Boston di cui si invaghì. Albert lasciò la moglie e andò a vivere con la nuova compagna, ma la ragazza non abbandonò la sua professione. La sera del 27 ottobre del 1845, Maria si trovava nella casa di piacere dove lavorava quando una serie di piccoli incendi divamparono per il locale e ne svegliarono il proprietario, che rinvenne il cadavere della ragazza.
Qualcuno le aveva tagliato la gola da un orecchio all’altro in modo violentissimo, al punto che la testa era quasi del tutto recisa dal collo. L’arma del delitto era ancora lì, sulla scena del crimine: un rasoio da uomo. L’intervento delle autorità fu tempestivo e, oltre a rinvenire alcuni pezzi dei vestiti di Albert e il suo bastone nella stanza della ragazza, dei testimoni dichiararono di averlo visto prima entrare e poi allontanarsi dall’edificio. Partì la caccia all’uomo. Gli investigatori riuscirono ad arrestare l’uomo il 6 dicembre a New Orleans e lo riportarono a Boston per processarlo. La famiglia Tirrell ingaggiò uno dei più stimati avvocati della città, Rufus Choate, famoso per le sue innovative strategie difensive.

In un clima di tensione e shock per quell’evento passato alla storia come La tragedia di Boston, le prove contro Albert erano schiaccianti, ma questi continuava a professarsi innocente e asserire di non aver alcun ricordo dell’omicidio. Secondo la ricostruzione dell’accusa, Albert non voleva che la compagna continuasse a prostituirsi, perciò, dopo che la vittima ebbe congedato il suo ultimo cliente, entrò nella stanza, la uccise e appiccò un incendio doloso per coprire il misfatto. Choate non fu d’accordo e ribatté facendo notare alla giuria che non c’era alcun testimone oculare dell’omicidio. Le persone che avevano visto Albert uscire dall’edificio non erano in grado di stabilire con certezza le azioni del suo cliente. Le prove erano solo circostanziali.
Da lì, proseguì formulando due ipotesi. Nel primo caso Maria poteva essersi suicidata, ma la profondità del taglio rendeva tale scenario poco plausibile, quindi, se davvero era stato Albert, si trattava di un omicidio in stato di trance. Nella prima metà del XIX secolo gli studi sul sonnambulismo era ancora acerbi, ma Choate riuscì ugualmente a dimostrare che Albert aveva alle spalle già diversi episodi di sonnambulismo, talvolta, sfociati in piccole aggressioni ai danni dei familiari. A sostegno della tesi chiamò a testimoniare i cugini e i fratelli dell’imputato. Attraverso le loro parole la giuria fu messa di fronte all’evidenza che Albert aveva commesso l’omicidio mentre non era cosciente. Il verdetto di non colpevolezza fu emesso il 30 marzo del 1846.

L’Hoo-wee del signor Fain
Qualche anno dopo l’assoluzione di Albert Tirrell gli Stati Uniti conobbero un secondo e bizzarro caso di omicidio sonnambulo. Negli anni ’70 dell’Ottocento, il signor Fain era in viaggio d’affari nella cittadina di Nicholasville, nel Kentucky, insieme a un suo amico, George Welch. Dopo il tramonto di una fredda giornata di febbraio i due entrarono nell’Hotel Veranda per pernottare. Il signor Fain aveva ricevuto in precedenza delle minacce da una uomo della zona e si era procurato una pistola per difendersi in caso di aggressione.

Mentre George interpellava un giovane portiere per accordarsi sul pagamento di una stanza, il signor Fain si addormentò nella hall. Il ragazzo gli si avvicinò per svegliarlo, ma l’uomo reagì estraendo una pistola e sparando tre colpi; al che il portiere gli si scagliò contro e ne bloccò i movimenti. Dopo aver immobilizzato l’aggressore, il giovane si accasciò a terra e morì dissanguato. Secondo alcuni testimoni, nel mentre, il signor Fain urlò per tre volte una parola senza senso, Hoo-wee, e, infine, si risvegliò in stato confusionale. Inizialmente l’uomo cercò in tutti i modi di mettersi a disposizione della giuria, dichiarandosi disposto a dimostrare il suo passato da sonnambulo, ma l’attenuante fu considerata solo in parte: fu giudicato colpevole di omicidio colposo, quindi non volontario, e condannato a due anni di detenzione. Grazie a un ricorso il caso fu poi riconsiderato e la giuria sollevò il signor Fain da tutte le accuse.

Il detective Robert Ledru
Un episodio molto singolare ebbe luogo nel 1887 e vide coinvolto Robert Ledru, un detective parigino di 35 anni. Le autorità della città di Le Havre lo avevano interpellato per un misterioso caso di marinai scomparsi e, dopo esser giunto nel porto della Normandia, Robert era andato in una camera d’albergo.

Quando si risvegliò la mattina successiva notò qualcosa di strano: i suoi calzini erano bagnati. Ma il dovere prima di tutto. Anziché arrovellarsi su quell’insolito dettaglio si recò in caserma per iniziare le indagini, quando i colleghi lo informarono che il caso dei marinai era passato in secondo piano. Nella notte, il cadavere di André Monet, stimato proprietario di un negozio d’abbigliamento locale, era stato ritrovato prono sulla spiaggia con una ferita da arma da fuoco nel petto.
Chi poteva mai aver ucciso un uomo ben visto da tutti?
Robert si accollò l’onere di risalire all’identità dell’assassino e sulla scena del crimine focalizzò la sua attenzione su una serie di impronte impresse nella sabbia. Per far luce sulla vicenda ne ordinò dei calchi in gesso, ma nell’analizzarli rimase sconvolto. Si ritirò in albergo e il giorno seguente, quando i colleghi giunsero per informarlo di aver estratto la pallottola, il detective constatò che dal suo revolver mancava un proiettile.
Caso risolto: sebbene non ricordasse di aver commesso un omicidio, il colpevole era proprio lui
I calchi delle impronte presentavano l’orma di un piede privo di alluce, esattamente come il suo, e l’arma che giaceva sotto i suoi occhi increduli era quella che aveva esploso il colpo fatale. Robert asserì di aver ucciso il signor Monet mentre non era cosciente e, a delitto compiuto, era tornato a dormire, motivo per il quale i suoi calzini erano bagnati. Inizialmente non fu creduto; dopotutto, ai colleghi parve inverosimile che uno stimato uomo di legge come lui potesse macchiarsi di un crimine del genere, tra l’altro, senza alcun movente, ma l’uomo insistette per essere arrestato.

Pur di dimostrare la sua colpevolezza e, al contempo, la sua innocenza, propose un esperimento. Fu rinchiuso in una cella e gli fu data una rivoltella scarica da tenere sotto il cuscino. Quando calò la notte e si addormentò, l’uomo si alzò all’improvviso e sparò contro i poliziotti incaricati di sorvegliarlo, per poi coricarsi di nuovo come se nulla fosse. Le autorità non poterono far altro che accettare la sua versione dei fatti, ma, poiché il delitto era stato commesso da un sonnambulo, e in virtù della sua stimata e onorata carriera, decisero di lasciarlo libero e gli concessero di abitare in una fattoria isolata nella periferia di Parigi.

La morte di Patricia Cogdon
Nel XX secolo le pagine di storia legate ai killer sonnambuli si arricchirono con nuovi particolari. Nel caso del 1950, che vide protagonista Ivy Cogdon, subentrò per la prima volta il fattore delle allucinazioni. Una notte in cui suo marito era fuori e sua figlia Patricia, di 19 anni, aveva deciso di andare a letto presto perché non si sentiva molto bene, la donna uccise per errore la giovane di casa.

In sede processuale ciò che ricordava è quanto segue. Dopo essersi coricata, la signora Cogdon vide dei soldati coreani che attaccavano Patricia, al che, per salvarla, afferrò un’ascia e combatté i presunti ospiti indesiderati. Quando rinsavì si ritrovò dinanzi al cadavere martoriato della figlia. La donna ribadì a più riprese di esser stata vittima di un’allucinazione mentre era sonnambula e la tesi fu ampiamente dimostrata in virtù di una serie di episodi antecedenti all’omicidio. Suo marito testimoniò che madre e figlia avevano sempre avuto uno splendido rapporto, in seguito raccontò di una sera in cui, credendo che dei ragni avevano invaso la casa per attaccare Patricia, trovò la moglie accanto al letto della ragazza, intenzionata a scacciare dal suo volto qualcosa di invisibile. Il verdetto fu: non colpevole.

Il controverso caso di Kenneth Parks
Se il caso di Albert Tirrell ebbe il merito di portare per la prima volta davanti a una giuria la remota possibilità che un sonnambulo fosse effettivamente in grado di compiere un omicidio, la vicenda legata a Kenneth Parks, ventitreenne canadese affetto da insonnia e stress, non solo godette di una grande attenzione mediatica, ma portò la storia di questo tipo di processi a un livello ancora superiore.
Nel 1987 Kenneth era sposato, con una bambina di pochi mesi e stava passando un momento difficile. A causa della ludopatia aveva accumulato un’ingente quantità di debiti e, pur di rimettersi in carreggiata, aveva sottratto al suo datore di lavoro circa 32.000 dollari. Il suo piano era questo: usare quei soldi per effettuare delle scommesse vincenti, restituire il denaro al suo principale e risanare i debiti. Ovviamente giocare d’azzardo non si rivelò una scelta azzeccata e il furto fu presto scoperto. L’episodio gli costò il licenziamento, ma, con il sostegno della moglie, Kenneth si convinse a fare qualcosa per combattere la sua dipendenza. Nel frattempo, la disavventura andava raccontata anche al resto dei familiari, in particolare ai suoceri, con cui aveva un ottimo rapporto. La visita ai genitori della moglie, ironia della sorte, era in programma proprio il 24 maggio del 1987, ovvero il giorno in cui si consumò la tragedia.

Nella notte fra il 23 e il 24, Kenneth si alzò dal letto, salì in macchina e guidò per circa 20 chilometri fino a Scarborough, un sobborgo di Toronto dove abitavano i suoceri. Grazie a una chiave che gli avevano dato in precedenza fece irruzione nell’abitazione, si recò di soppiatto nella loro camera da letto e colpì più volte la suocera con un ferro da stiro. Infine, strangolò il suocero e infierì sui loro corpi con un coltello da cucina. L’uomo sopravvisse, la donna no. A omicidio compiuto Kenneth salì in macchina e ripartì, ma dopo poco tornò in sé e, ritrovandosi sporco di sangue, oltre che confuso da immagini frammentarie dell’accaduto, si recò in una stazione di polizia alle 4:45 del mattino e disse:
Penso di aver appena ucciso due persone
L’agente in servizio che ascoltò la confessione testimoniò che al suo arrivo Kennet era in evidente stato di shock e non sembrava essersi reso conto di avere entrambe le mani lesionate. Al processo, la difesa perorò l’ipotesi del sonnambulismo, ma vigeva uno scetticismo generale. La medicina aveva fatto molti passi in avanti e le parasonnie erano state studiate a fondo, eppure, parve inverosimile che un sonnambulo potesse compiere azioni così complesse, come guidare per molte miglia in stato d’incoscienza e affrontare senza svegliarsi una colluttazione con le vittime. Gli stessi specialisti giudicarono l’intera storia una montatura, un banale tentativo di scagionare un omicida, ma, alla fine, dopo indagini scientifiche molto approfondite, per quanto difficile da credere, la tesi del sonnambulismo fu dimostrata e Kenneth fu assolto nel 1992.

Il caso più recente: Brian Thomas
L’ultimo episodio di omicidio sonnambulo di cui abbiamo notizia è di pochi anni fa, quando, nel 2008, i servizi di emergenza del Galles ricevettero la chiamata di un signore in lacrime.
«Credo di aver ucciso mia moglie. Oh, mio Dio. Lottavo con quei ragazzi, ma era Christine. Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?».
I protagonisti della vicenda sono il cinquantanovenne Brian Thomas e sua moglie Christine. Fin da bambino Brian soffriva di sonnambulismo e per tale ragione era solito dormire in un letto separato, ma quella sera di luglio la coppia era in vacanza con il loro camper, quindi, come già avevano fatto altre volte, si erano addormentati in un letto a due piazze. Intorno alle 23:30 i coniugi si trovavano in un camping nei pressi di Aberporth, nel Galles occidentale, e un gruppo di ragazzini iniziò a disturbare la quiete del posto. Brian uscì ed ebbe una discussione con loro, e poi tornò a dormire. A un certo punto sognò che uno di quei ragazzini entrava e aggrediva Christine. Quando si svegliò era convinto di lottare contro l’intruso, ma, in realtà, le sue mani erano strette al collo della moglie.
Alla fine Brian fu assolto e il giudice che celebrò il processo rilasciò la seguente dichiarazione: “Sei un uomo onesto e un marito devoto. Ho il forte sospetto che tu possa provare un senso di colpa. Agli occhi della legge non hai alcuna responsabilità”.

Conclusioni
Di pari passo con i progressi scientifici nel campo delle parasonnie, la storia legale degli omicidi sonnambuli si è evoluta sempre di più, ma è bene puntualizzare che non di rado gli avvocati di tutte le epoche hanno fatto un uso improprio di tale strategia difensiva, spesso al solo scopo di scagionare i clienti dalle varie accuse di omicidio.

Lo stesso processo ad Albert Tirrell, col senno di poi, gode di ragionevoli dubbi sulla fondatezza del verdetto. Per fortuna, oggi, gli specialisti in materia hanno a disposizione strumenti avanzati in grado smascherare gli impostori e, al contempo, scagionare gli innocenti. Ad esempio, nel caso di Kenneth Parks, i tre esperti neurologi studiarono le irregolarità degli elettroencefalogrammi dell’imputato al fine di risalire a un’eventuale parasonnia. Per noi contemporanei il dubbio sui casi del passato resta. Chissà se Albert Tirrell, il capostipite di tutti i killer sonnambuli, fosse davvero un uomo innocente.