5 Falsi storici sui Gladiatori: dal Pollice Verso alla lotta contro le Belve Feroci

Immaginiamo di essere protagonisti di un film che mostri l’Impero Romano. Ci troviamo nell’Anfiteatro Flavio. La folla scalpita, pretende che lo spettacolo abbia inizio. Nell’arena entrano due gladiatori, schiavi prestati all’arte della guerra, che si avvicinano agli spalti e salutano l’imperatore con il classico Ave Caesar, morituri te salutant. Il duello comincia: un gladiatore sferra un fendente, l’altro para con lo scudo e contrattacca mentre i tifosi reagiscono al repentino susseguirsi degli affondi, all’improvviso si aprono le gabbie e alcune bestie feroci incatenate fanno il loro ingresso per interferire con la sfida.

Tra un’insidia e l’altra la lotta prosegue e a un certo punto un combattente, stremato e ferito, cade a terra. Il vincitore è lì a pochi passi da lui, gli si avvicina, lo calpesta con un piede e volge lo sguardo sugli spalti. La massima autorità di Roma è chiamata a decidere il destino del vinto e si consulta con la folla, dove uomini e donne esibiscono dei pollici abbassati. L’imperatore ascolta la voce del pubblico, si guarda attorno e, infine, tende il braccio, chiude il pugno e gira il pollice verso il basso. Il vincitore annuisce, carica il colpo ed esegue la sentenza di morte.

Usciti dal cinema pensereste di aver osservato uno scorcio di vita degli antichi romani, ma se vi dicessero che questo racconto è un coacervo di inesattezze storiche?

Mosaico del I secolo d.C. raffigurante le lotte fra gladiatori – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Le elenchiamo qui per brevità, analizzandole poi nel testo:

  1. Il pollice verso non era un segno di morte
  2. Solo in un caso fu detto “Ave Imperator, Morituri te salutant”
  3. I gladiatori non combattevano contro le belve feroci
  4. I gladiatori non erano necessariamente degli schiavi
  5. Il potere di vita e di morte non era dell’Imperatore ma dell’Editor, l’organizzatore dei giochi

Anche se i combattimenti fra i gladiatori sono stati una delle forme di intrattenimento più popolari dell’antichità, la loro memoria è sopravvissuta fino ai giorni nostri attraverso una concezione distorta, dovuta alle versioni romanzate e poco accurate fornite dall’arte e dai kolossal cinematografici. L’esempio più recente è il film Il Gladiatore, campione d’incassi nel 2000 e artefice di una serie di errori entrati nell’immaginario comune. Uno dei tanti è l’opinabile pollice verso, un gesto che appartiene a un complesso mondo sportivo del passato la cui realtà è ben lontana da quella vista sui grandi schermi.

Locandina del film Il Gladiatore (2000), diretto da Ridley Scott – Immagine condivisa con licenza Fair use via Wikipedia

I duelli fra i gladiatori, il cui termine deriva dal gladio, in latino gladius, una spada piccola e letale usata dai legionari romani, erano degli spettacoli che si inserivano nel contesto dei ludi e dei munera, eventi pubblici organizzati per intrattenere la plebe.

Ricostruzione di un gladio romano – Immagine di Rama condivisa con licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia

Tradotto letteralmente, munera significa regalo, obbligo o dovere, e indica la responsabilità dei romani più facoltosi, imperatore compreso, di fornire un contributo alla comunità. Per riprendere una delle locuzioni latine più famose, panem et circenses, il popolo ambiva a mangiare e a godere di spettacoli circensi. I loro preferiti erano appunto i combattimenti fra i gladiatori. Secondo alcuni studi, i romani importarono tale tradizione dagli Etruschi e la svilupparono a partire dal 264 a.C.

Busto di Vespasiano – Immagine di Carole Raddato condivisa con licenza CC BY-SA 2.0 via Wikipedia

Il periodo di massimo splendore risale ai tempi dell’imperatore Vespasiano, che, nel 70 d. C., ordinò la costruzione del Colosseo, all’epoca noto come Anfiteatro Flavio. I gladiatori erano degli atleti a tutti gli effetti, schiavi o uomini liberi senza alcuna distinzione di razza o di età. Ad esempio, vi erano anche combattimenti fra gladiatrici, chiamate mulieres ad ferrum, ma era un evento raro e, di conseguenza, molto ricercato.

Il Colosseo – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Quindi, per sfatare il primo dei tanti luoghi comuni sull’argomento, non era un mestiere per soli uomini obbligati a combattere, ma le arene accoglievano chiunque desiderasse intraprendere quella carriera e ambire alla fama e alla gloria.

Gladiatori che salutano l’imperatore in un quadro olio su tela di Jean-Léon Gérôme – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Prima di esordire sul campo di battaglia, i gladiatori venivano addestrati nelle ludus, apposite scuole gestite da ex gladiatori chiamati lanisti, a cui si sottomettevano volontariamente attraverso un giuramento vincolante. Il lanista era poi affiancato dai doctores (o magistri), veterani delle arene che, come lui, avevano ottenuto la libertà professionale, una sorta di pensione, dopo esser stati insigniti della rudis, una spada di legno dal valore simbolico.

I resti della Ludus Magnus, la scuola gladiatoria adiacente al Colosseo – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Di pari passo con la popolarità di questo sport, le scuole gladiatorie si diffusero in modo capillare e ne nacquero alcune molto famose, come quella di Capua, che oltre a essere la prima di cui si ha notizia fu il luogo dove ebbe inizio la celebre rivolta di Spartaco, quella di Pompei, di Ravenna e, infine, la Ludus Magnus, adiacente al Colosseo e collegata a esso con una galleria sotterranea.

La morte di Spartaco, di Hermann Vogel – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

In seguito a un iniziale periodo di ambientamento, il lanista si occupava di addestrare ciascun novizio, di curarne la dieta e di smistarlo nella giusta classe gladiatoria, che, proprio come avviene oggi con la boxe, ne rifletteva le caratteristiche. Ad esempio, i “pesi massimi” dell’epoca erano i mirmilloni, dotati di un fisico possente ed equipaggiati con un grosso elmo, uno scudo rettangolare e un gladio. Il mirmillone poteva sferrare attacchi letali, ma era penalizzato da un gran peso che ne limitava i movimenti, quindi, per rendere equilibrato il duello, era solito opporsi a un trace, più agile e propenso a una tattica elusiva. Allo stesso modo, i reziari, muniti di un tridente e di una rete da sfruttare per avvolgere gli avversari, fronteggiavano i secutores, con i loro scudi imponenti e i loro attacchi a corto raggio.

Mosaico raffigurante un reziario che trafigge col suo tridente un secutor – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Ciascun duello era studiato affinché pregi e difetti delle categorie si bilanciassero per offrire uno spettacolo avvincente. Inoltre, col passare degli anni nacquero delle vere e proprie tifoserie che, pur di sostenere i propri beniamini, oltre che seguirli in trasferta, talvolta, battibeccavano con le tifoserie rivali e davano vita a delle risse sanguinose. Un evento del genere ebbe luogo a Pompei nel 59 d.C. e nei suoi Annales Tacito scrive:

Sulle gradinate sono passati dagli insulti alle vie di fatto. Prima c’è stata una sassaiola e poi si sono accoltellati. I pompeiani hanno avuto la meglio. Molti nocerini sono tornati a casa mutilati di ferite in più parti del corpo. Ci sono stati anche dei morti”.

Altri tempi, follie antisportive di sempre…

Affresco raffigurante la zuffa fra pompeiani e nocerini – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Un altro falso storico molto diffuso è la confusione fra i ludi gladiatori e altri tipi di spettacolo. Oltre che atleti, i gladiatori erano delle figure di spicco della cultura antica e non si prestavano, se non in casi sporadici e poco documentati, a pericolosissime sfide contro belve feroci o, più in generale, a giochi che non comprendessero un duello equo. Ad esempio, le Venationes erano una forma d’intrattenimento che implicava la caccia o la lotta contro bestie esotiche e si svolgeva di mattina, prima dell’evento principale che era il duello fra i gladiatori. Nell’arena, invece, venivano schierati dei condannati a morte, obbligati a sopravvivere e, forse, aver salva la vita, o a finire nelle fauci di leoni, tigri, leopardi, orsi e tanti altri animali importati dalle varie terre dell’Impero. Venivano chiamati “Bestiarii”, e comprendevano anche uomini liberi che si offrivano a questi giochi tentando di guadagnare qualcosa.

La venatio, mosaico del V secolo – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Allo stesso modo, questi fungevano da pedine e da attori anche nelle rievocazioni storiche e, più in particolare, nelle naumachie, che, riempiendo d’acqua le arene, ricostruivano grandi battaglie navali. Lo scopo era sempre lo stesso: sfruttare criminali dal destino segnato per intrattenere il pubblico.

Un esempio di naumachia in un dipinto di Ulpiano Checa del 1894 – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

I gladiatori, invece, appartenevano a tutt’altra categoria e non si rivolgevano affatto all’imperatore con il celebre Ave Caesar, morituri te salutant, perché la loro morte era un evento più unico che raro. In realtà, la frase fu pronunciata solo una volta durante la naumachia del 52 d.C. organizzata dall’imperatore Claudio, in una versione però diversa. Svetonio ci racconta che fu detto “Ave Imperator, mortituri te salutant”, e l’occasione erano i giochi che inauguravano i cunicoli che prosciugarono il lago Fucino, nel 52 d.C.. I protagonisti erano appunto dei condannati a morte che tentarono invano di ingraziarsi la massima autorità di Roma.

La risposta di Claudio al saluto fu “Aut Non” – Magari No

Riporto il pezzo di Svetonio con la traduzione in italiano perché utile alla comprensione di quelli che dovevano essere i comportamenti dei condannati e degli imperatori dell’epoca. E in più è utile perché su tanti siti si trovano scritte conclusioni diverse, quando Svetonio è invece chiarissimo.

Quin et emissurus Fucinum lacum naumachiam ante commisit. Sed cum proclamantibus naumachiariis: “Have imperator, morituri te salutant!” Respondisset: “Aut non,” neque post hanc vocem quasi venia data quisquam dimicare vellet, diu cunctatus an omnes igni ferroque absumeret, tandem e sede sua prosiluit ac per ambitum lacus non sine foeda vacillatione discurrens partim minando partim adhortando ad pugnam compulit.

Che in italiano si traduce:

Perdipiù, prima di liberare le acque del Fucino, Claudio allestì un combattimento navale, ma quando i combattenti gridarono: “Ave, o Cesare! Coloro che stanno per morire ti salutano,” egli rispose: “Magari no!” A queste parole, come se avesse concesso loro la grazia, alcuni di loro non vollero più battersi; allora stette per un po’ a domandarsi se non dovesse farli ammazzare tutti col ferro e col fuoco, poi alla fine si alzò dal suo posto e correndo qua e là attorno al lago, ora minacciando, ora esortando, non senza una certa esitazione ridicola, li spinse alla battaglia.

Altro esempio di naumachia – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Al contrario di queste vittime sacrificali, i gladiatori erano un business, e le loro carriere fruttavano parecchi soldi ai lanisti. Gli organizzatori dei munera, gli editor o munerarius, li ingaggiavano per offrire uno spettacolo degno di nota e, se sulla carta si trattava di duelli all’ultimo sangue, nei fatti, la morte spettava soltanto a chi combatteva con slealtà, perché il pubblico desiderava rivedere il proprio beniamino in azione, magari tornando a prendersi una sontuosa rivincita. I perdenti, quindi, venivano quasi sempre risparmiati.

Alcuni esempi degli elmi indossati dai gladiatori – Immagine di Notafly condivisa con licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia

Anche sul versante finanziario il decesso di un gladiatore era un’eventualità da scongiurare. In quel caso l’editor era obbligato a risarcire il lanista con ingenti somme di denaro, perché il gladiatore era uno sportivo capace di generare grandissimi profitti, ma addestrarlo e investire su di lui comportava dei costi e chi lo aveva affittato doveva ovviare alla perdita dei guadagni a lungo termine del lanista.

Ma chi decideva il destino del perdente?

Dipinto raffigurante un gladiatore intento a dare il colpo di grazia al perdente – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Al popolo era concesso di esprimere la sua opinione; tuttavia, l’ultima parola spettava alla figura dell’editor, che, in alcuni casi, combaciava con quella dell’imperatore. Il pollice era un metro di giudizio, ma il verdetto veniva pronunciato a voce. In quei rari casi in cui un gladiatore veniva effettivamente ucciso la parola d’ordine era iugula, sgozzalo; altrimenti riecheggiava nell’arena il più comune mitte, lascialo andare.

Due gladiatori alla fine del combattimento – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Quanto alla questione del pollice, nel lungometraggio di Ridley Scott assistiamo alla scena in cui il protagonista Massimo Decimo Meridio rivela pubblicamente la sua identità all’imperatore Commodo, che, sconvolto nel rivedere vivo colui che aveva ordinato di uccidere, è costretto a concedergli la grazia volgendo il pollice all’insù e mostrandosi accondiscendente alle richieste del pubblico.

L’inesattezza storica mostrata nel film è figlia di un dipinto olio su tela realizzato nel 1872 da Jean-Léon Gérôme, oggi conservato a Phoenix, in Arizona. Intitolata Pollice Verso, l’opera rese popolare, per la prima volta in epoca moderna, l’erronea descrizione del pollice abbassato come sinonimo di morte e il suo opposto come sinonimo di grazia.

Jean-Léon Gérôme – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Alla base del disguido vi è un’interferenza religiosa dovuta ai cristiani romani, che disprezzavano questi spettacoli per via della loro brutalità e li ostracizzavano. Da ciò, deriva la concezione che verso l’alto significa indicare il cielo e il paradiso, verso il basso la terra e l’inferno. Sopra c’è la salvezza, sotto la dannazione.

Pollice Verso di Jean-Léon Gérôme – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Partendo da questa premessa, possiamo notare che il quadro di Gérôme raffigura un mirmillone con il piede destro sulla gola di un reziario disteso per terra. Lo sconfitto protende il braccio verso gli spalti e anche lo sguardo del vincitore è in quella direzione: entrambi sono in attesa della decisione dell’imperatore. In un’arena che sembra richiamare il Colosseo, in alto a destra l’autore fa risaltare un gruppo di vestali, sacerdotesse vergini di Vesta, dea pagana del focolare domestico, e una parte del pubblico qualche gradinata più sopra. Tutti questi personaggi allungano il braccio verso il campo di battaglia, esibiscono un pugno chiuso con il pollice abbassato e pretendono la morte del gladiatore sconfitto. Il quadro fu poi una delle principali fonti di ispirazione di Ridley Scott, che, appunto, ne adottò il controverso punto di vista storico.

Particolare del quadro di Gérôme – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Il pollice abbassato, però, non significa nulla. Attraverso le varie testimonianze degli autori latini, gli storici hanno notato il ripetersi di una locuzione, adottata nell’ambito dei combattimenti fra i gladiatori, per decretare la morte del perdente. Nelle sue Satire Giovenale scrive: Verso pollice vulgus cum iubet (Quando la folla ordina con il pollice verso). E ancora, Prudenzio usa il termine converso pollice. Le possibili traduzioni sono molteplici, pollice verso, pollice girato o pollice capovolto, perciò è impossibile stabilire l’orientamento, se all’insù o all’ingiù. Nessuna fonte storica lo specifica, ma è plausibile che la condanna a morte venisse decretata con la direzione in alto, perché un pollice alzato richiamava la gestualità di una spada sguainata.

Mosaico raffigurante alcuni giochi proposti al popolo, inclusi i duelli fra gladiatori – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Sfruttando questa constatazione,  si potrebbe dedurre che il suo opposto, il pollice abbassato, simboleggiasse l’aver salva la vita, ma non è così. Nel 1997, infatti, nel sud della Francia fu ritrovato un reperto romano risalente al II o al III secolo d.C. che fece luce sulla questione. Il cosiddetto medaglione di Cavillargues raffigura due gladiatori impegnati in un duello e, studiandone l’equipaggiamento, è possibile riconoscere le loro categorie: un reziario e un secutor.

Il medaglione di Cavillargues

All’estrema destra c’è un uomo che tende il braccio verso i combattenti e nasconde il pollice nel pugno. Grazie all’iscrizione sul medaglione sappiamo che il duello rappresentato è un pareggio e che entrambi i gladiatori sono stati risparmiati; quindi, se il pollice rappresenta la spada, la folla decretava la morte sguainandolo verso l’alto o la grazia riponendolo nel fodero, ovvero nel pugno.

Il Mosaico del Gladiatore, conservato nella Galleria Borghese di Roma – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

E ora, torniamo nell’arena in cui quel gladiatore che è stato ingaggiato per combattere contro un avversario, magari nell’Anfiteatro Flavio. Siete distesi per terra, senza forze, senza possibilità di rialzarvi. Il vostro avversario si avvicina, vi calpesta e attende di conoscere il verdetto. La folla è lì attorno a voi e con un boato invoca il vostro nome. Le braccia sono tese, i pollici sono richiusi nel pugno. L’editor, infine, si alza e pronuncia un lapidario mitte. Immaginate di essere quel gladiatore sconfitto che è stato risparmiato. Tornerete dal vostro lanista, continuare ad allenarvi e combatterete ancora, perché è questo è quello vuole il pubblico. Questa è la vox populi. Questo il volere di Roma.


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