40 anni Schiavo: la drammatica vita del Principe Africano prigioniero in America

Il suo padrone lo chiama con scherno “Principe”, e quel soprannome gli resterà addosso per altri quarant’anni, ovvero per tutto il tempo che rimane lo schiavo di un certo Thomas Foster, proprietario terriero di Natchez, in Mississippi.

Eppure, Abdul-Rahman ibn Ibrahima Sori è veramente un principe, e pure assai colto: parla quattro lingue africane oltre all’arabo e all’inglese, e ha studiato nella prestigiosa università – forse fondata dal ricchissimo Mansa Musa agli inizi del 1300 – di una città tanto leggendaria quanto reale, Timbuktù (il primo europeo moderno riuscirà a metterci piede solo nel 1806).

Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

La Moschea di Sankore a Timbiktù, una delle sedi dell’Università – 1905/6

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Quando arriva negli Stati Uniti, dopo il viaggio in catene su una nave negriera, Sori tenta disperatamente di far comprendere a quel Foster che non può proprio ridurlo in schiavitù: lui è Abdul-Rahman ibn Ibrahima Sori, erede al trono di uno dei regni più importanti dell’Africa, lo stato islamico di Fouta Jallon (che oggi fa parte della Guinea).

Forse Foster gli crede, visto che il ragazzo riesce ad esprimersi in inglese, ma poco gli importa: lo ha pagato a caro prezzo e non si sogna nemmeno di rinunciare al suo investimento, tanto più che la sua piantagione non è poi così fiorente. Però inizia a chiamarlo Prince, principe, e chissà quanta irritazione deve aver provocato in Sori quel titolo usato dispregiativamente.

Abdul-Rahman ibn Ibrahima Sori

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Sori arriva a Natchez (insieme a centinaia di altri sventurati) con la consueta e tragica trafila della tratta di schiavi: prima viene rapito da una delle tante tribù africane dedite al commercio di uomini, e poi venduto ai negrieri inglesi in cambio di qualche moschetto e un po’ di rum. Dopo otto mesi di navigazione in condizioni disumane, Sori viene venduto a Foster.

Il Principe potrebbe essere solo un numero tra i dodici milioni di africani portati come schiavi nel Nuovo Mondo, tra il 1525 e il 1866: uomini e donne senza nome, dei quali non si conosce quasi mai la storia individuale (e d’altronde non potrebbe essere diversamente, visto che non erano considerati esseri umani).

Ma Sori fa eccezione – non che la sua vita valga di più, in quanto nobile, rispetto a quella degli altri schiavi senza nome – perché grazie al suo status sociale, in Africa ha avuto la possibilità di istruirsi e quindi di lasciare un segno di sé anche nella terribile condizione di schiavo.

La sua lotta per libertà, durata oltre 40 anni, lo ha reso famoso già ai suoi tempi, e questo ha consentito che rimanesse traccia della sua vita, per certi versi straordinaria e ricca di incredibili colpi di scena, a differenza di quella di milioni di altri schiavi senza nome e identità.

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La storia del Principe

Sori nasce nel 1762 a Timbo, la capitale di uno stato islamico (o meglio una confederazione), ed è il figlio di Ibrahim Sori, che governa su tutte le nove province di Fouta Jallon. A 26 anni, quando viene preso prigioniero da altri africani per essere venduto come schiavo, Sori ricopre già importanti cariche religiose e militari. Nel 1778 il giovane principe viene messo a capo “di un Esercito di 2000 uomini la cui missione era proteggere la costa e rafforzare i propri interessi economici nella regione. Fu durante questa campagna militare che Abdul-Rahman fu catturato e reso schiavo da altri africani”.

Timbo nel 1818

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Al suo arrivo in Mississippi (all’epoca territorio spagnolo) viene comprato da Foster, che ha una piantagione a Natchez. Il padrone non tiene in nessun conto le proteste di Sori, che resta stupito dalle condizioni arretrate di quel piccolo paese di frontiera. Lui proviene da “una società molto sofisticata” che in quegli anni stava attraversando “un periodo di vera espansione intellettuale” (dal documentario Prince Among Slaves).

Per prima cosa, Foster taglia i lunghi capelli di Sori e poi lo mette a lavorare la terra: per il giovane principe è un’umiliazione che non riesce a tollerare, e così scappa. Si avventura in un territorio sconosciuto e paludoso, e resiste per qualche settimana, mentre Foster ha scatenato una caccia all’uomo. Non è a chi lo insegue che Sori si arrende, ma alla disperazione: solo, in una natura ostile, si rende conto che per lui tutto è cambiato,

“non è più un principe, non è più un guerriero”

Capisce che l’unico modo che ha per sopravvivere con dignità, è cercare di controllare, per quanto possibile, la situazione in cui si trova, senza più sognare di fare rientro nella sua Africa.

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Natchez, Mississippi, 1855 circa

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Decide quindi di tornare da Foster, con la precisa intenzione di sfruttare le sue capacità. Il suo padrone coltiva tabacco e alleva bestiame, ma gli affari non gli vanno troppo bene. In quegli anni, la coltivazione del cotone sta diventando sempre più importante e garantisce ricchezza ai proprietari terrieri. Foster non sa nulla di cotone ma, per sua fortuna, Sori invece è un esperto, visto che la pianta era coltivata a Fouta Jallon. Grazie al Principe, il suo padrone diventa uno dei più grossi piantatori di cotone della zona, e capisce che quell’uomo ribelle e orgoglioso gli è diventato indispensabile. Lo promuove a caposquadra, condizione che garantisce a Sori un minimo di libertà, come quella di coltivare un orto e vendere ciò che produce al mercato. Passano gli anni, Sori si sposa e mette al mondo nove figli, cinque maschi e quattro femmine, tutti legalmente schiavi di Foster. Vent’anni dopo il suo arrivo a Natchez, accade una cosa che, se non fosse vera, potrebbe sembrare il colpo di scena di un film.

Il colpo di scena

Molti decenni prima, era naufragato sulle coste dell’Africa Occidentale un medico di origine britannica, John Cox, soccorso da un gruppo di persone di Fouta Jallon e poi curato a Timbo, ospite per sei mesi proprio della famiglia reale, quella di Sori (ed è lui che insegna l’inglese al Principe). In una circostanza che ha dell’incredibile, le strade di Cox e Sori si incrociano nuovamente in quel mercato di un remoto paese del Mississippi.
Cox è l’unico uomo bianco che, lì in America, ha un debito d’onore nei confronti di Sori, e decide di pagarlo. Tenta in tutti i modi di convincere Foster a vendergli quello schiavo, ma l’uomo rifiuta:

Il Principe è per lui – per i suoi affari – indispensabile

Negli anni a venire e fino alla sua morte, nel 1816, Cox cerca di liberare Sori, senza riuscirci.

La fama del Principe tra gli schiavi

In realtà però i suoi sforzi approdano a qualcosa: la storia di Sori diviene di dominio pubblico e suscita interesse, anche nella stampa locale. Il giornalista Andrew Marschalk prende a cuore il caso di Sori, da lui scambiato per un “moro”, ovvero un marocchino, visto che conosce l’arabo. Il Principe non corregge quell’errore, perché all’epoca i “mori” erano tenuti in maggiore considerazione rispetto ai neri.

Passano ancora diversi anni (non si capisce bene il perché), poi c’è la svolta: nel 1826 Sori scrive una lettera in arabo, dove sono probabilmente riportati dei versetti del Corano, che Marschalk fa recapitare a una sua conoscenza al consolato americano in Marocco, unendo anche due righe di spiegazione da parte sua. La storia arriva alle orecchie di Abd al-Rahman, sultano del Marocco, e rimbalza direttamente al governo degli Stati Uniti.

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Insomma, la vicenda di Sori diventa un caso internazionale, tanto da convincere il segretario di stato, Henry Clay, a intervenire, per evitare problemi diplomatici. A quel punto Foster non può più opporre un rifiuto, e nel 1828 (o forse il 1829) libera Sori senza pretendere un pagamento in denaro, ma a condizione che il Principe se ne torni in Africa e non continui a vivere da uomo libero negli Stati Uniti.

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C’è però un problema: la moglie di Sori e i suoi figli non sono compresi nel pacchetto di liberazione, continuano a essere schiavi di Foster, che certo non intende rinunciare anche a loro.

Ma la notizia della straordinaria vicenda ormai si è diffusa in tutto il Paese, così Sori, che è un vero istrione, durante il suo viaggio verso Washington D.C., riesce a raccogliere i fondi per pagare la libertà della moglie. Tanta gente accorre per ascoltare quello schiavo istruito che perora la sua causa vestendo abiti moreschi. Parla anche con il Presidente John Quincy Adams, chiedendo una donazione per riuscire a liberare i suoi figli. Adams rifiuta, perché Sori gli confessa di non essere un “moro”: lui non vuole andare in Marocco, ma in Liberia, stato africano nato da poco, che in realtà è una sorta di colonia della American Colonization Society, creato appunto per accogliere gli schiavi liberati negli Stati Uniti. Sori sceglie quella destinazione perché assai più vicina a Fouta Jallon rispetto al Marocco.

Adams non fornisce alcun sostegno economico, che arriva invece proprio dall’American Colonization Society, grazie a incontri e serate di beneficenza organizzate a favore di Sori. L’American Colonization Society, fondata nel 1817, aveva lo scopo di cancellare la macchia infamante dello schiavismo negli Stati Uniti, rispedendo in Africa gli schiavi liberati.

Nel caso specifico di Sori, Thomas Gallaudet, membro dell’American Colonization, vede l’occasione giusta per portare la parola di Cristo in tutta l’Africa. Il Principe, dal canto suo, non chiarisce che la sua fede è, e sarà sempre, quella islamica. Lui ha bisogno di ogni aiuto possibile per portare con sé i suoi figli. Acconsente anche a scrivere delle preghiere cristiane in arabo, che avrebbero fatto comodo ai missionari.

L’epilogo

Dopo un così diffuso clamore, la storia di Sori diventa un pericolo per gli schiavisti, tanto che Foster minaccia di invalidare la liberazione se il Principe non si sbriga a tornarsene in Africa. Alla fine Sori salpa solo con la moglie per il suo viaggio di ritorno a casa, interamente pagato dal governo degli Stati Uniti, coltivando la speranza di veder presto arrivare anche i suoi figli. Forse è questa la preghiera che eleva al suo Dio quando, il 18 marzo 1829, appena sbarcato a Monrovia, stende il suo tappeto e si prostra a terra.

Monrovia nel 1850

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Una preghiera inascoltata, perché il Principe muore in Liberia quattro mesi dopo il suo arrivo, senza mai rivedere la sua Timbo né i nove figli, rimasti proprietà di Foster. Alla fine, con la somma raccolta grazie ai suoi sostenitori, solo due dei figli di Sori e le loro famiglie riconquistano la libertà e raggiungono la Liberia. Gli altri vengono spartiti tra gli eredi di Foster, morto poco dopo il Principe, e i loro discendenti continuano a vivere in Mississippi e in Liberia: una sorta di grande famiglia che continua a mantenere viva la memoria di Abdul-Rahman ibn Ibrahim Sori, un principe tra gli schiavi d’America.

Fra le note divertenti della vicenda posso ricordare questa: le preghiere scritte in arabo per Gallaudet erano in realtà la trascrizione del primo capitolo del Corano…


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