In un episodio storico della serie I Simpson, il giardiniere Willie, sardo nella versione italiana ma in realtà scozzese, parlando del rapporto tra Lisa e Bart dichiara:
“Non durerà. Fratelli e sorelle sono nemici per natura, come gli inglesi e gli scozzesi, o i gallesi e gli scozzesi, o i giapponesi e gli scozzesi, o gli scozzesi e altri scozzesi. Dannati scozzesi! Hanno distrutto la Scozia!”
Si sa, lo show dei Simpson è sempre stato irriverente e satirico, ma come tutti gli spettacoli di questo genere nella sua ironia nasconde un fondo di verità.
I rapporti tra i popoli della Gran Bretagna non sono famosi per essere idilliaci, perché ognuno vorrebbe la propria indipendenza e vede gli inglesi come invasori, mentre dal punto di vista inglese le minoranze sono parte integrante dell’identità britannica. Il conflitto più aspro e violento è tra inglesi e irlandesi. Se il conflitto con gli scozzesi è ormai ridotto ad essere ideologico e politico, il conflitto con gli irlandesi si basa anche sul razzismo religioso.
Quando ci fu il famoso scisma anglicano con Enrico VIII, l’Irlanda era ancora un territorio indipendente, ma già tenuto d’occhio dal sovrano inglese che vedeva nell’isola una minaccia al suo potere e una parte mancante del dominio inglese. Grazie ad alcuni sotterfugi, Enrico VII riuscì a poco a poco a impadronirsi dell’isola, e l’opera di colonizzazione venne completata dalla figlia Elisabetta I.

A differenza degli scozzesi che dopo lunghi scontri alla fine accettarono la religione anglicana, gli irlandesi si dimostrarono molto più restii ad abbandonare la loro fede cattolica. Il XVII secolo fu infatti caratterizzato dalle guerre civili scatenati dagli irlandesi che non volevano rinunciare alla propria libertà. Per cercare di velocizzare il processo di integrazione degli irlandesi vennero mandati sull’isola coloni inglesi e scozzesi, i quali avevano il compito di istruire e guidare il cambio di religione.
Il tentativo si rivelò vano, in quanto i coloni, di fede protestante, vennero avvantaggiati dal governo centrale nell’accesso a cariche pubbliche e posti di potere, scalzando così i cattolici, che furono banditi e passarono dall’essere i padroni di casa a reietti della società inglese.
A intervalli di tempo non proprio regolari, gli irlandesi non si rassegnarono ad essere sottomessi dagli inglesi: nella forma avevano un governo bicamerale indipendente, ma nella realtà il capo supremo del governo veniva sempre da Londra.
Nel 1798, ci fu una rivolta talmente violenta che il governo inglese decise che era giunto il momento che l’Irlanda perdesse la propria autonomia, cessando così di essere un potenziale pericolo per l’isola e diventando a tutti gli effetti parte del Regno d’Inghilterra.
L’Act of Union, ovvero il trattato che sanciva la fine dell’indipendenza irlandese, venne promulgato nel 1800 ed entrò in vigore il 1 gennaio 1801, dichiarando in questo modo l’ufficialità del neonato Regno Unito d’Irlanda e Inghilterra.
Ciò non bastò a raffreddare gli animi trepidanti degli irlandesi.
Le rivolte non si placarono nemmeno nel XIX secolo e, dopo due secoli di discriminazione, nel 1829 venne approvata l’emancipazione cattolica, che permetteva ai cattolici di accedere alle cariche pubbliche. Ciò venne reso possibile anche grazie all’attività pacifica di Daniel O’Connoll, avvocato cattolico che intuì anzitempo le potenzialità delle rivolte pacifiche e pacifiste.
Ma l’emancipazione non bastò a riportare la calma nell’isola.
Nonostante fosse un atto riconosciuto dal governo inglese, i cattolici non furono subito accettati nelle cariche pubbliche.
L’evento più drammatico del secolo fu sicuramente la grande carestia che colpì il raccolto di patate, che causò milioni di morti e portò molti irlandesi a emigrare in cerca di fortuna. Gli emigrati non si persero d’animo e non dimenticarono la loro terra natia, vessata dai conquistatori inglesi e fondarono nel 1858 la Irish Republican Brotherhood, sognando un’Irlanda libera e repubblicana.

La IRB riunì le proprie forze e nel 1916, nel pieno del Primo Conflitto Mondiale, diede vita a una delle più sanguinose rivolte nella storia dell’Irlanda, conosciuta come Pasqua di sangue. Nonostante l’impiego delle truppe sul fronte europeo, la rivolta diede una valida ragione al governo inglese di dispiegare per la prima volta nella storia i carri armati contro i civili, mezzi che vennero presentati sul campo di battaglia soltanto pochi mesi dopo.
La Russia non fu l’unico stato che subito dopo il Conflitto Mondiale dovette affrontare una guerra civile: seppur in scala ampiamente ridotta e per ragioni ben diverse, anche gli inglesi si trovarono per le mani le rivolte irlandesi che si trasformarono in un vero conflitto civile.
Il 6 dicembre 1921 venne firmato a Downing Street il Trattato anglo-irlandese: gli inglesi riconoscevano finalmente all’isola la sua indipendenza, non senza alcuni cavilli a cui sottostare. Il re era sempre il capo del territorio, e l’Irlanda, nonostante avesse finalmente un suo governo autonomo, doveva comunque sottostare alle leggi inglesi, come facevano già altri stati in giro per il mondo, come Canada, Australia e Nuova Zelanda, tutt’oggi membri del Commonwealth britannico.

La vera grande svolta del trattato fu che l’isola venne per la prima volta divisa in due parti, non tanto geograficamente quanto politicamente, riconoscendo come Irlanda del Nord la zona settentrionale, per l’appunto, dove i residenti erano a maggioranza protestante, mentre il resto delle contee era a maggioranza cattolica. Gli irlandesi settentrionali vennero chiamati a votare per scegliere se restare sotto il dominio britannico, e il resto è storia nota.

Per gli irlandesi però ciò non era abbastanza. Nonostante il governo fosse ormai indipendente, il capo di stato era sempre il sovrano inglese, e ogni legge e accordo con i paesi esteri doveva essere approvata dagli inglesi. Durante il secondo conflitto mondiale, l’Irlanda scelse saggiamente di restare neutrale, consapevole di non essere in grado di sostenere una guerra di quella portata. Nel dopoguerra l’Irlanda chiese e ottenne di uscire dal Commonwealth e diventare indipendente a tutti gli effetti nel 1949.
Ma l’uscita dal Commonwealth scatenò anche dei diverbi dal punto di vista politico e sociale, che sfociarono nella guerra civile conosciuta come conflitto irlandese, o The Troubles in inglese, il cui episodio più sanguinoso ebbe luogo il 30 gennaio 1972, passata alla storia come Bloody Sunday.

In quegli anni gli irlandesi cattolici erano divisi in unionisti, che aspiravano alla riunificazione dell’Irlanda come un solo stato nonostante il dominio britannico, e i nazionalisti, che invece desideravano un’Irlanda separata ma libera dal controllo inglese.
La città di Derry, a maggioranza cattolica, era l’emblema del malgoverno unionista: la città versava in condizioni deplorevoli, non era collegata a nessuna autostrada, non possedeva nessun campus universitario e l’architettura residenziale era impresentabile, al contrario di cittadine a maggioranza protestante molto ben tenute e sedi universitarie.
Derry divenne il simbolo degli scontri tra nazionalisti ed esercito britannico, mandato per sedare le rivolte, che nel corso degli anni divennero sempre più violenti. All’inizio del 1972 il Primo Ministro dell’Irlanda del nord, Brian Faulkner, vietò i cortei e le manifestazioni fino alla fine dell’anno, sperando così di poter sedare gli scontri frontali tra cattolici ed esercito.
Il 22 gennaio si svolse a Derry una manifestazione pacifica non autorizzata contro la legge di imprigionamento senza diritto a un regolare processo. L’esercito inglese mandò il Reparto Paracadutisti a disperdere i manifestanti, ma i mezzi usati furono alquanto discutibili. Sebbene i manifestanti fossero pacifici e disarmati, i militari dispersero la folla usando manganelli e proiettili di gomma.
Le organizzazioni irlandesi decisero dunque di riprogrammare la manifestazione per il 30 gennaio e le autorità, volendo evitare il caos mediatico causato dalla violenza ingiustificata dei paracadutisti, decisero di autorizzare la manifestazione solo nelle zone cattoliche della città di Derry.
I manifestanti, circa dieci o quindici mila, si radunarono alle 14:00 per far cominciare la marcia quasi un’ora dopo. Poco dopo si trovarono il percorso sbarrato dall’esercito inglese e i cattolici cambiarono direzione. Alcuni ragazzi si allontanarono dal gruppo principale per lanciare sassi all’esercito, che rispose con i proiettili di gomma e cannoni ad acqua. Questi scontri erano abituali nella città di Derry e, per quanto possa sembrare assurdo, i testimoni oculari raccontarono che gli scontri non erano molto violenti, anzi si trattava piuttosto di provocazioni.
La vera violenza si scatenò poco dopo. Mutando il percorso della marcia, alcuni manifestanti si accorsero che in un palazzo abbandonato era nascosto il Reparto Paracadutisti, quello stesso che reparto che pochi giorni prima aveva picchiato selvaggiamente dei manifestanti pacifici. Alcuni fra loro lanciarono dei sassi anche verso il vecchio palazzo abbandonato e i paracadutisti, ben diversi dai loro colleghi militari, aprirono immediatamente il fuoco.
La folla si disperse immediatamente nel caos e nel panico, mentre le pallottole piovevano sulla strada.
In pochi minuti quella che era una manifestazione tranquilla si trasformò in un cimitero a cielo aperto
Morirono tredici persone quel giorno, e una quattordicesima morì circa quattro mesi dopo a causa delle ferite riportate.
Le vittime furono: John “Jackie” Duddy, 17 anni; Michael Kelly, 17 anni; Hugh Gilmour, 17 anni; William Nash, 19 anni; John Young, 17 anni; Michael McDaid, 20 anni; Kevin McElhinney; 17 anni; Jams “Jim” Wray, 22 anni; William McKinney, 26 anni; Gerard “Gerry” McKinney”, 35 anni; Gerard “Gerry” Donaghy, 17 anni; Patrick Doherty, 31 anni; Bernard “Barney” McGigan, 41 anni.
John Johnston, 59 anni, merita una menzione speciale, non solo perché la più anziana delle vittime, ma anche perché fu l’unico a morire quattro mesi dopo la domenica di sangue e perché fu il primo a essere colpito circa un quarto d’ora prima che cominciasse la sparatoria mentre stava andando a trovare un amico.
Questa volta la violenza dei paracadutisti inglesi non passò del tutto inosservata, e scatenò onde di indignazione anche nel Regno Unito, chiedendo che venisse fatta chiarezza su questo terribile episodio, ribattezzato Bloody Sunday, cioè domenica di sangue. L’episodio fu talmente grave che il giorno dopo fu al centro del dibattito nel Parlamento inglese, che tentò di far luce su cosa avvenne a Derry. L’esercito difese il Reparto, sostenendo che gli uomini avevano risposto alle provocazioni dei manifestanti, ma i testimoni oculari e i giornalisti irlandesi e britannici presenti negarono, accusando i militari di aver causato una strage senza motivo apparente.
Il 2 febbraio, giorno in cui vennero sepolte le vittime della Bloody Sunday, in Irlanda venne mobilitato il più grande sciopero dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, mentre le sedi delle ambasciate britanniche venivano barbaramente vandalizzate. I rapporti tra Inghilterra e Irlanda vacillarono pericolosamente, soprattutto quando il Ministro irlandese degli Affari Esteri chiese un aiuto militare all’ONU per fronteggiare il conflitto nordirlandese.
Per cercare di riacquisire credibilità agli occhi del mondo, il governo inglese, decise di avviare un’indagine che facesse luce sulla tragedia della Bloody Sunday. Il compito venne assegnato al giudice Widgery, noto per non essere esattamente imparziale.
L’inchiesta venne completata in appena dieci settimane e presentata al pubblico in aprile. Il risultato fu il completo appoggio della versione fornita dall’esercito inglese, sostenendo che i militari si difesero dagli attacchi armati dei manifestanti: questa tesi venne avvalorata da prove fatte sugli indumenti delle vittime che presentavano tracce di metallo e polvere da sparo. I testimoni oculari e i giornalisti che seguirono l’inchiesta si unirono subito nel dichiarare quanto descritto come “un chiaro tentativo di insabbiamento”. Le tracce di metallo presenti sui vestiti delle vittime erano giustificate dal fatto che la maggior parte di loro lavorasse come operai nelle fabbriche metallurgiche, mentre la polvere da sparo era stata lasciata dai soldati che spostarono i corpi.
Il motivo per cui l’inchiesta Widgery venne fortemente contestata ha però una spiegazione più nitida: nonostante fossero presenti molti membri dell’IRA e terroristi irlandesi, le autorità avevano chiesto espressamente di non portare armi durante la manifestazione, in quanto sapevano che sarebbe stato presente il Reparto Paracadutisti inglese a controllo della manifestazione. Uno dei paracadutisti testimoniò invece che, pochi giorni prima, un ufficiale li avrebbe esortati durante la preparazione all’azione militare ad essere ben equipaggiati di munizioni perché si aspettavano qualche attacco terroristico e che “volevano qualche morto”.
Per far veramente luce sull’accaduto si dovette aspettare il 1998, ben ventisei anni dopo, quando Tony Blair accolse la richiesta di John Hume di indagare nuovamente sui tragici eventi del 30 gennaio 1972. Questa volta l’incarico venne affidato a Lord Saville, affiancato da giudici provenienti da tutto il Commonwealth. Le indagini durarono sei anni, mentre la stesura del rapporto ne richiese altri sei di lavoro. Finalmente nel 2010 il pubblico venne a conoscenza di cosa avvenne a Derry quel giorno.
Seppur senza menzionarlo mai, il risultato del rapporto Widgery venne completamente stravolto: dal rapporto Saville venne fuori che l’esercito era “fuori controllo” e attaccò delle persone innocenti, scatenando così il massacro. La conclusione del rapporto recita così: “A causa dei colpi di arma da fuoco da parte dei soldati del primo battaglione Reggimento Paracadutisti durante la “domenica di sangue”, 13 persone sono morte e più o meno altrettante persone sono state ferite. Nessuna di queste costituiva una minaccia tale da causare morte o lesioni gravi“.
Questo evento fu la scintilla per altri scontri tra nazionalisti ed esercito britannico, che ormai non veniva più visto come un alleato, ma un nemico pericoloso.
Le scuse ufficiali da parte del governo arrivarono soltanto nel 2010 con il premier David Cameron.
Com’è ormai d’obbligo nella storia contemporanea, il massacro della domenica di sangue è stato fonte di ispirazione di film e serie tv. Ma non fu soltanto il piccolo schermo a riportare questi eventi tragici. Paul McCartney, di origini irlandesi, pubblicò con il suo gruppo dell’epoca, i Wings, il brano Give Ireland Back to the Irish, uno dei suoi pochi brani colpiti dalla censura inglese. Anche il vecchio compagno John Lennon, ormai da anni attento ai fenomeni sociali e convinto pacifista, pubblicò due canzoni ispirate dall’evento nel suo album Some Time in New York City del 1972.
Il brano però più famoso fu quello inciso dagli U2, famoso gruppo irlandese, nel 1983, dal titolo “Sunday Bloody Sunday”. Bono, il cantante del gruppo, aveva soltanto undici anni nel 1972 ed è ancora vivo in lui il ricordo di quell’evento così tragico e straziante. La canzone divenne subito una hit mondiale e il gruppo, sfidando il governo inglese che ancora tentava di insabbiare la strage, eseguì la canzone in occasione del Live Aid del 1985 svoltosi a Londra.
Il brano in sé non è importante solo per la musicalità e le qualità canore di Bono Vox, quanto perché evoca la tragedia e la sofferenza che caratterizzarono il 30 gennaio 1972. Una delle strofe,
And the battle’s just begun
There’s many lost, but tell me, who has won?
The trench is dug within our hearts
And mothers, children, brothers, sisters torn apart
riesce a farci immedesimare e a farci capire la portata di questa strage, forse più delle inchieste e delle testimonianze, spesso ridimensionate ad hoc, che si sono susseguite nel corso degli anni.