12 ottobre 1972: da Montevideo decolla un aereo Fokker F27 della Fuerza Aérea Uruguaya, l’aeronautica militare del paese, che ogni tanto affitta i suoi aerei (con equipaggio) per voli civili. A bordo viaggia anche una delle più quotate squadre di rugby di tutto l’Uruguay, l’Old Christians Club, e per i giovani atleti si tratta di un’entusiasmante trasferta sportiva all’estero: a Santiago del Cile, infatti, sono attesi dagli avversari dell’Old Grangonian Club, per una sfida amichevole di grande prestigio continentale.
Il Fokker F27 della Fuerza Aérea Uruguaya fotografato alcuni mesi prima dell’incidente
Immagine di pubblico dominio
A destinazione, però, non arriveranno mai: il giorno dopo, alle ore 15:31, l’aereo si schianta sulle Ande. Quello che segue, poi, è una storia che ha dell’incredibile…
Durante il viaggio si verifica un imprevisto: venuti a conoscenza delle avverse condizioni meteorologiche che stavano interessando le Ande, i due piloti (il colonnello Julio César Ferradas e il suo copilota, tenente colonnello Dante Héctor Lagurara) chiedono e ottengono l’autorizzazione per un atterraggio straordinario a Mendoza, nell’ovest dell’Argentina. Il dubbio, una volta a terra, rimane: proseguire? Tornare indietro? Trattenersi a lungo non è possibile: un velivolo straniero può, infatti, restare sul suolo argentino per massimo 24 ore. Nel frattempo però, i passeggeri scendono dall’aereo e si trasferiscono in un albergo vicino all’aeroporto, per poi svagarsi nel centro di Mendoza. Alcuni vanno per negozi, altri al cinema, altri ancora a ballare e tutti si svegliano in tarda mattinata. Poi, per la gioia degli atleti, la scelta è alla fine quella di ripartire per Santiago nel pomeriggio.
Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:
Sembra che sulle Ande l’allarme maltempo sia rientrato: per precauzione, i piloti volano comunque a bassa quota, cercando corridoi tra i passi andini. Il modello Fokker F27 infatti, non garantiva la piena sicurezza di sorvolo delle montagne, alcune delle quali alte anche oltre i 6000 metri. Era più prudente, quindi, per quel piccolo mezzo, volare attraversando i valichi.
Ad un certo punto però, i piloti commettono alcuni errori di calcolo: sicuri di trovarsi a circa mezz’ora da Santiago, cominciano a scendere progressivamente verso terra. Una turbolenza improvvisa poi, provoca un ulteriore calo di quota di qualche centinaio di metri: in pochi istanti, il velivolo si ritrova in mezzo alla nebbia, molto vicino alle rocce. Il tentativo di recuperare altitudine con la massima potenza non basta: il Fokker sbatte contro una parete, perde l’ala destra, la coda e poi l’ala sinistra. Cadono nel vuoto i passeggeri seduti in fondo e lo steward di bordo.
Ormai fuori controllo, l’aereo atterra con violenza su una distesa nevosa: la fusoliera corre all’impazzata, fino a schiantarsi contro un grande cumulo di neve, dopo circa due chilometri, nei pressi della cima del vulcano Tinguiririca. Nell’impatto, muoiono 12 persone.
Mappa del luogo dell’incidente (FAU 571) e la via percorsa da Nando Parrado e Roberto Canessa in cerca di aiuto (tratteggio verde scuro)
Immagine di Createaccount via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0
I sopravvissuti allo schianto devono subito affrontare il gelo dei circa 4000 metri di altitudine: pur sotto shock, sono comunque fiduciosi. Qualcuno, pensano, sarebbe arrivato a salvarli. Cala però ben presto la notte e l’incubo di trascorrerla nella carlinga, ammassati e feriti come sono, si concretizza con le ore che passano.
Senza vestiti pesanti, devono arrangiarsi con i bagagli a disposizione: all’ingresso della fusoliera improvvisano una barriera impilando tutte le valigie, i rottami dell’aereo e i sedili divelti dallo schianto. Il freddo notturno fa scendere la temperatura anche fino a -30 gradi e alcuni dei passeggeri in vita versano comunque in gravi condizioni, con ossa rotte, lesioni interne e febbre alta. Una signora, Graciela Mariani, è attesa in Cile dalla figlia, prossima al matrimonio. Al momento dell’incidente lo schienale del suo sedile, staccandosi, la spinge violentemente in avanti: si ritrova immobilizzata, col petto contro le ginocchia e con le gambe, incastrate sotto la seduta, rotte. La sua morte è una lunga agonia, conclusione di un destino beffardo: aveva acquistato il biglietto all’ultimo minuto.
Va meglio, invece, a Nando Parrado, uno dei più noti sopravvissuti alla tragedia, che poi racconterà nel suo libro 72 Giorni: perde conoscenza nello schianto, entrando in uno stato comatoso. Passa la prima notte nell’angolo più freddo dell’aereo, salvo poi, nello stupore generale, risvegliarsi dopo tre giorni. E’ molto probabilmente l’aria gelida, come racconta lui stesso nel libro, a proteggerlo dal rischio di un possibile edema. Parrado, aprendo gli occhi, vede subito il destino toccato a sua madre: Eugenia Parrado, 50 anni, è morta nello schianto mentre la sorella ventenne, Susana, completamente indebolita dalla febbre, se ne va nel giro di pochi giorni.
I sopravvissuti non possono usare gli strumenti di bordo per comunicare: riescono a malapena a sentire la radio, e ciò li aiuta a capire che le ricerche sono in corso. Non è possibile sperare nell’aiuto di qualcuno dell’equipaggio che riesca in qualche modo a sistemare la radio: il copilota Lagurara, morente, continuava a ripetere ai ragazzi di avere superato Curicó (città cilena, in realtà, situata oltre le Ande) e il meccanico di bordo, Carlos Roque, versa in una condizione di shock tale da provocargli un totale delirio: non ricorda nulla.
Nei primi giorni, i superstiti riescono ad alimentarsi con varie scorte di snack confezionati, tavolette di cioccolata, marmellata e bottiglie di vino, pur organizzando un rigido razionamento del cibo. Trovano, inoltre, il sistema per bere acqua: raccogliendo la neve pulita, con le lamiere di alluminio riescono a scioglierla al sole. Riciclano poi altri oggetti: realizzano, per i feriti, apposite amache con cinghie di nylon e pali di alluminio e crea no occhiali da sole con la plastica dei finestrini.
Ognuno ricopre un proprio ruolo, nella speranza che qualcuno, prima o poi, li avrebbe salvati. Il 23 ottobre, però, apprendono la peggiore delle notizie: creduti ormai morti, il giornale radio comunica che le ricerche sono state definitivamente interrotte.
Distrutti, affamati, col cibo ormai esaurito e in preda alla totale disperazione, si fa strada nella loro mente la più impensabile delle idee, che ha a che fare con il più grande dei tabù della storia dell’uomo: cibarsi dei compagni morti.
Non è, naturalmente, una scelta facile né immediata: affrontano lunghe discussioni, di carattere filosofico e teologico, che si addentrano in tutti i meandri dell’etica umana. Finché, una sera, Roberto Canessa prende la fatidica decisione: aiutandosi con una scheggia di vetro è il primo, tra tutti, a mangiare un pezzo di carne umana.
I ragazzi stringono due patti tra loro: primo- nessun sopravvissuto avrebbe svelato i nomi delle vittime mangiate, nel caso in cui la salvezza fosse giunta, e secondo- ognuno di loro ancora in vita acconsentiva, in caso di morte, a subire quel destino.
Intanto, si aggiunge anche la furia della montagna: la sera del 29 ottobre, una valanga investe la fusoliera e la neve invade gli spazi. Muoiono otto persone, tra cui il meccanico Roque. Javier Methol, uno dei 16 sopravvissuti, deceduto nel 2015, perde la moglie Liliana: la coppia, 36 anni lui, 35 lei, era la più anziana del gruppo in vita e Liliana è l’ultima delle cinque donne a bordo, a morire. Ad attenderli, in Uruguay, ci sono i loro 3 figli.
Rimasti in 19, i superstiti sono intanto bloccati nell’aereo: la bufera, fuori, soffia ininterrottamente. Passano così tre giorni, bloccati nella carlinga, con poco spazio a disposizione e accanto ai corpi esanimi dei compagni. Nel frattempo, Numa Turcatti, il 30, e Carlos Páez, il 31, festeggiano il compleanno con una palla di neve al posto della torta: le sigarette, gli unici prodotti che abbondano in quei 72 giorni, sostituiscono le candeline.
Il sole torna a splendere il primo novembre: si comincia, dunque, a pianificare la difficile spedizione verso valle, mentre occorrono diversi giorni per ripulire l’interno della carlinga dalla neve. La missione per cercare soccorso, composta inizialmente dalle quattro persone ritenute più idonee (per energia fisica e risolutezza) non è facile: salite interminabili, lunghe tormente, notti fredde e crepacci nascosti bloccano il del percorso. Nel frattempo, tra quelli rimasti ad aspettare, muoiono Arturo Nogueira, debilitato dalla malnutrizione e Numa Turcatti, per l’infezione a una gamba, calpestata per sbaglio da un suo compagno.
Il 17 novembre si apre uno spiraglio di luce: a due ore di cammino dalla fusoliera, Canessa, Parrado e Vizintin trovano la coda dell’aereo dove ci sono cioccolatini e coca-cola, oltre ad alcuni capi di abbigliamento. Quei pochi beni costituiscono un piccolo sollievo: possono ricaricarsi fisicamente e trascorrere la notte in uno spazio ben più ampio del corridoio dell’aereo. Ripartiti il giorno seguente, cercando l’ovest per il Cile, non riescono a trovare alcuna via d’accesso e passano una notte all’aperto, in un fossato di fortuna, scaldandosi l’uno con l’altro: alla fine, scelgono il dietrofront. Dalla coda dell’aereo recuperano anche le batterie, sperando di far funzionare la radio dell’aereo e trovare finalmente il modo di comunicare con il resto del mondo. Ma ogni tentativo è vano: riescono solo a captare alcune stazioni radio, sentendo per caso che le ricerche sono riprese, in un misto di speranza e pessimismo.
Intanto, il disgelo dell’estate australe riporta alla luce altri oggetti: Parrado trova una macchina fotografica e riesce così a scattare diverse foto (la prima testata giornalistica a pubblicare le immagini è il settimanale Gente Uruguay il 28 dicembre).
Ormai stanchi della situazione, Caressa, Parrado e Vizintin decidono infine di partire, una volta per tutte, verso il Cile. Raggiunta, dopo pochi giorni, la cima più alta, si accorgono del nulla all’orizzonte: solo montagne. E’ l’ennesima delusione. I viveri, inoltre, non bastano per tre, così Vizintin decide di tornare all’aereo. Parrado e Canessa, intanto, si fanno forza e proseguono lungo il crinale: camminano per altri sette giorni, fino a seguire una vallata in cui scorrono il Río San José e il Río Azufre. Trovando, finalmente, i primi segni umani e il verde che iniziava ad intensificarsi, Parrado a Canessa incontrano, la mattina del 20 dicembre, un mandriano, Sergio Catalán (morto, anziano, nel febbraio 2020). Non è facile, tuttavia, comunicare: divisi dal fiume rumoroso che copre le parole, senza alcun ponte, Catalán lancia loro un foglio attorno a un sasso, oltre a delle pagnotte di pane. Parrado scrive chi sono e da dove provengono, compiendo l’ennesima impresa: con le poche forze rimaste rilancia il sasso col foglio, oltre la riva. Possono finalmente gioire: il mandriano alza il pollice e parte. Per trovare la caserma della polizia più vicina, Catalán deve però correre a cavallo per ben 10 ore, dal villaggio di Los Maitines a Puente Negro. I due ragazzi, accolti e sfamati nel frattempo in una vicina malga, raccontano all’allevatore che li ospita, Armando Serda, la loro storia.
Fernando Parrado e Roberto Canessa a Los Maitenes, vicino al mandriano Sergio Catalán
Immagine di pubblico dominio
Catalán e la polizia giungono lì la sera e presto partono da Santiago gli elicotteri: l’operazione di recupero è organizzata il giorno seguente anche se il vento, ad alta quota, soffia forte. Parrado sale a bordo e riesce, con grande fatica, a trovare il luogo dell’incidente e ad esultare coi compagni.
Delle iniziali quarantacinque persone a bordo, ne sono sopravvissute sedici.
Alcuni vengono trasportati subito a valle, altri invece devono trascorrere la loro ultima notte nella fusoliera, assistiti da infermieri e guide alpine. Una volta tratti tutti in salvo, i superstiti sono ricoverati all’ospedale di San Fernando, 100 chilometri a sud di Santiago, per denutrizione, difficoltà respiratorie e traumi.
La notizia fa il giro del mondo e l’evento viene ribattezzato come El milagro de los Andes, Il miracolo delle Ande. I sedici sopravvissuti confessano alla stampa di cosa erano stati costretti a cibarsi, ma sono moralmente assolti da tutta l’opinione pubblica e anche dallo stesso Vaticano.
La fusoliera dell’aereo, più tardi, viene data alle fiamme e i corpi delle vittime sepolti assieme, a poche centinaia di metri, in un luogo battezzato Glaciar de las Lagrimas, che a piedi dista tre giorni dal villaggio argentino più vicino, El Sosneado.
Memoriale posto sulle tombe dei passeggeri morti nel disastro
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I sopravvissuti, che in quei 72 giorni pensavano di essere in Cile, si trovavano in realtà ancora in terra argentina: il confine nazionale corre infatti lungo lo spartiacque che sovrasta il luogo dell’incidente.
Su questa drammatica vicenda sono stati realizzati due film: il primo, una produzione messicana del 1976, porta il titolo I sopravvissuti delle Ande. L’altro, più famoso, è un remake hollywoodiano del 1993, Alive.