Simone Pianetti potrebbe essere la personificazione della Primula Rossa – inafferrabile, evanescente, incontrollabile – se non fosse per una differenza sostanziale: il protagonista dei romanzi di cappa e spada, ambientati durante la Rivoluzione Francese, si batte a favore di nobili e aristocratici, mentre Pianetti si rivolta contro chi, secondo lui, rappresenta un ordine costituito colpevole di averlo condotto alla rovina. E compie una strage.
Simone Pianetti
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Ma chi vuole vedere in lui un vendicatore di torti, un eroe del popolo oppresso, (quasi) certamente sbaglia. Non ci sono motivazioni politiche alla base di quel suo gesto tanto eclatante quanto feroce, malgrado le simpatie di Pianetti per le idee anarchiche, ma solo un’immensa stanchezza per i torti subiti.
Forse, nell’ideare la strage, prende esempio proprio dall’anarchico Gavrilo Princip, che poche settimane prima aveva ucciso a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando. I suoi sono bersagli più modesti, ma certo non meno significativi per la sua storia personale e familiare.
Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:
Lui, tiratore esperto che aveva partecipato alle battute di caccia organizzate dal Re d’Italia proprio in virtù della sua mira infallibile, pianifica la sua “giornata di ordinaria follia” come una battuta di caccia, dove le prede sono elencate in una lista che comprende una quarantina di nomi: tutte persone con le quali ha dei conti in sospeso (anche minimi, in verità), almeno secondo il suo particolare quanto esasperato senso di giustizia.
Simone Pianetti, nato nel 1858 a Camerata Cornello, un paesino della Bergamasca, dimostra fin da ragazzo di che pasta è fatto: iroso e sanguigno, non accetta quelle che ritiene ingiustizie, tanto che spara a suo padre – senza colpirlo – per divergenze su questioni legate all’eredità. Il ragazzo parte per l’America, dove spera di far fortuna, e potrebbe anche farcela, ma si scontra con qualcosa più grande di lui: a New York, dove stringe amicizie tra gli anarchici, mette in piedi una piccola impresa di importazione di vino e frutta dall’Italia, insieme all’amico Antonio Ferrari. L’attività non sfugge agli occhi attenti della Mano Nera (come veniva chiamata all’epoca la mafia negli USA), che pretende il pizzo. Pianetti non ci pensa nemmeno a sottostare al ricatto e denuncia il fatto alla Polizia, che arresta una decina persone.
Purtroppo, a fare le spese della voglia di giustizia di Pianetti è il suo socio, che viene ucciso
Non rimane altro che tornare in Italia, in quella Val Brembana ancora molto lontana dalla modernità che Pianetti aveva assaporato a New York. Lui è pieno di idee, che però si scontrano con la realtà locale, dove impera una morale cattolica poco incline alle innovazioni, considerate pericolose.
Simone si sposa con Carlotta, mette al mondo nove figli, e prova con tutte le sue forze a costruire un futuro di benessere per se stesso e la numerosa famiglia.
Apre un’osteria appena fuori Camerata Cornello, ma la mossa vincente è quella di dotarla di una sala da ballo. D’altronde, nella stessa Val Brembana, era da poco (nel 1904) stato aperto il casinò di San Pellegrino Terme, e dunque che scandalo poteva destare un modesto locale da ballo di paese? All’inizio l’attività ha un grande successo, poi iniziano a circolare voci malevole: quel locale è un covo di peccatori, dove forse si adescano ingenue ragazze per condurle su una cattiva strada… Alla fine insomma, grazie all’ostracismo di notabili e preti del luogo, il locale è costretto a chiudere, probabilmente anche perché di proprietà di un uomo che in paese non riscuote simpatie: è un anarchico, iroso e poco incline agli accomodamenti.
Pianetti non demorde, e si sposta in un paese vicino, San Giovanni Bianco, dove mostra ancora una volta la sua intraprendenza aprendo un innovativo mulino elettrico. Anche lì però non è ben visto, e si rincorrono voci sulla pessima qualità della sua farina, che sarebbe addirittura causa di malattie.
Per dirla in quattro parole, quella di Pianetti è “la farina del diavolo”
Cosa che non interessa minimamente agli esattori delle tasse, che pretendono gabelle esorbitanti. Alla fine dunque, tutti quelli che nel corso degli anni lo hanno ostacolato, calunniato, dileggiato, riescono ad averla vinta: Pianetti finisce in miseria e non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, con tante bocche da sfamare.
Tutta la rabbia, il rancore e la frustrazione di Pianetti esplodono in un tiepido per quanto piovoso giorno d’estate. Il 13 luglio del 1914 l’uomo si alza presto, alle 5.30 del mattino, ed esce imbracciando il suo fucile a tre canne (anche quello suscitava l’invidia dei compaesani). Nella tasca della giacca da cacciatore ha la sua lunga lista di nomi, che presto diventeranno i bersagli della sua vendetta.
Inizia col fare la posta a tre persone: prima il notaio Arizzi, che si salva perché proprio quella mattina decide di prendere una strada diversa dalla solita. Poi la scampa, nascondendosi nel solaio, anche l’esattore della Società Elettrica, colpevole di aver sospeso l’erogazione della corrente al mulino, facendolo di fatto chiudere.
Sempre più nervoso, l’uomo allora si dirige a casa del cognato, troppo accondiscendente con Carlotta quando questa si rifugiava da lui, dopo i litigi con il marito. Ma neppure il terzo della lista è in casa.
Si sono orami fatte le 9, quando Pianetti individua il dottor Morali, medico condotto di San Giovanni Bianco, mentre sta sistemando la sua postazione di caccia. Parte un primo sparo, che colpisce Morali a un braccio, ma il secondo non gli lascia scampo: lo centra al cuore. Il medico è responsabile, almeno secondo Pianetti, della morte del figlio sedicenne, curato male.
Poi dovrebbe toccare al sindaco, che non è in casa; Pianetti lo va cercare in Municipio, ma non lo trova nemmeno lì. In compenso la sua vendetta si abbatte prima sul segretario comunale, Abramo Giudici, che materialmente aveva firmato l’ordinanza di chiusura dell’osteria, e poi sulla figlia di Giudici, Valeria, forse colpevole di averlo deriso.
Il giorno di follia prosegue con l’uccisione del ciabattino del paese, Giovanni Ghilardi, seduto a tavola con la moglie (che viene risparmiata), preso di mira perché troppo incline a chiacchiere malevole che dalla sua bottega si allargavano a macchia d’olio per tutto il circondario.
E’ questione di attimi arrivare dalla casa del calzolaio alla canonica. Pianetti cerca Don Camillo Filippi, che dal pulpito della chiesa di Camerata ha più volte tuonato contro di lui, per quella sua fama di libertino e peccatore senza Dio, e sopratutto per quella sala da ballo covo del demonio. Pianetti gli spara dritto al cuore, poi rivolge il fucile contro Giovanni Giupponi, messo comunale colpevole di avergli negato una derivazione per l’acqua da una fontana pubblica.
Il corpo di Don Milani viene portato via
Intanto, tutta quella scia di morti, uccisi sotto gli occhi attoniti di diversi paesani, induce il curato a cercare aiuto in Municipio, dove però rinviene i corpi di Giudici e della figlia. Non gli rimane che suonare le campane a morto, per dare l’allarme. Ma Pianetti non ha ancora finito: la sua ultima vittima è Caterina Milesi, una povera contadina che non aveva voluto pagargli un sacco di farina dicendo che era guasta.
La lista dei suoi “nemici” doveva essere ancora molto lunga, ma Pianetti, a quel punto, decide di arrampicarsi su per le montagne che, da cacciatore esperto, conosce come le sue tasche.
Intanto, a San Giovanni Bianco, non si vede un’anima: tutti sono rinserrati in casa, per la paura di aver suscitato in qualche modo l’odio di Pianetti. I carabinieri locali, supportati da colleghi arrivati da Bergamo, iniziano a cercarlo su per le montagne, insieme a un gruppo di guardie forestali. Il 14 luglio riescono a individuarlo ma Pianetti si dilegua, non senza aver prima sparato a un carabiniere, che però esce illeso.
Dopo un paio di giorni arriva anche l’esercito, e tra volontari e forze dell’ordine sono in più di 300 le persone che danno la caccia al pluriomicida. Lui però non si fa trovare, anche grazie all’aiuto di pastori e carbonai: all’improvviso Pianetti è diventato un eroe, un vendicatore di soprusi e angherie subite dalla povera gente. Sui muri delle case compaiono scritte entusiastiche:
W Pianetti, ce ne vorrebbe uno in ogni paese
Intanto, come sempre accade in questi casi, i giornali si avventano sulla vicenda e forniscono (come sempre accade) versioni differenti. Nelle pagine dell’Eco di Bergamo Pianetti viene ritratto come un mostro assetato di sangue, mentre Il Secolo scava nel suo passato e trova una giustificazione sociale a tanta efferatezza:
“Qui tutti sapevano che il Pianetti era perseguitato… Chi vuol vivere tranquillo deve essere ossequiante al parroco del luogo… Il parroco è il feudatario ed i paesani si dividono in vassalli e valvassori a seconda della loro astuzia e del loro stato economico… Al Pianetti ne avevano fatte tante che non poteva più frenarsi.”
Passano i giorni, ma nonostante l’incessante caccia all’uomo, Pianetti sembra essersi fatto di vento, tanto che il prefetto aumenta la taglia sulla sua testa da mille a cinquemila lire.
Per non lasciare nulla d’intentato, consente anche al figlio maggiore, Nino, di andare nelle montagne a cercare il padre, sperando che almeno lui possa convincerlo a costituirsi. Simone si fa trovare, legge le lettere scritte dalla moglie e da un suo amico senatore, ma non si arrende: a Nino dice
“Non mi troveranno mai, né vivo né morto”
E così è stato. Nessuno ha mai saputo più nulla di lui.
Intanto però, ad aiutare la fuga di Pianetti, concorrono tragici eventi internazionali: i venti di guerra che aleggiano anche sull’Italia improvvisamente rendono la cattura del fuggiasco meno prioritaria, anche se il 25 maggio 1915 l’uomo viene condannato in contumacia, dalla Corte d’assise di Bergamo, alla pena dell’ergastolo.
Ma che fine ha fatto Pianetti?
Difficile dirlo: tutta la sua storia si trasforma in mito, che alimenta leggende mai provate.
La famiglia si dice convinta della sua morte quasi immediata tra le montagne, c’è chi lo vuole in Svizzera e chi emigrato in America, forse in Venezuela. Addirittura si vocifera che sia stata la Questura di Bergamo (grazie agli uffici di un personaggio importante) a fornirgli un passaporto falso, per evitare che la sua cattura provocasse rivolte tra chi lo idolatrava (ed erano tanti) come un vendicatore della povera gente.
Qualcuno, nelle sue valli, dice di averlo incontrato decenni dopo, e di averci pure parlato, prima di vederlo riprendere i sentieri di montagna (ma sarebbe stato ultraottantenne).
Oppure, potrebbe esserci la possibilità che un anziano Pianetti sia tornato dall’America per finire i suoi giorni (nel 1952) a casa del figlio Nino, che da anni ormai viveva a Milano.
Di certo, in questa storia, c’è solo una cosa, oltre all’enorme dolore di quell’uomo esasperato e di chi ha subito le conseguenze della sua vendetta: nelle sue valli, a distanza di oltre un secolo, Pianetti è ancora una leggenda.
Altro che Primula Rossa…
Riguardo la storia di Simone Pianetti è disponibile il libro “Cronaca di una Vendetta”, di Denis Pianetti: