Roma, 23 marzo 1944 – Il partigiano Rosario Bentivegna è in cammino verso via Rasella e, intorno alle 14 si trova di fronte a Palazzo Tittoni. Indossa i panni di un uomo della nettezza urbana e ha con sé un carretto che contiene esplosivo per 18 chilogrammi. Prende la scopa, fa finta di pulire la strada e aspetta. Anche i suoi compagni si preparano all’attentato.

C’è chi si apposta fuori ai balconi con pistole e granate, chi passeggia per controllare la zona e chi osserva l’incrocio con via del Traforo. Alle 15:35, l’11ª compagnia del III battaglione del Polizeiregiment Bozen imbocca via Rasella. Franco Calamandrei temporeggia, i passi dei tedeschi si fanno sempre più vicini e alle 15:45 si toglie il cappello.

Bentivegna lo guarda e annuisce. Prende una pipa, accende la miccia dell’ordigno e si avvicina a Carla Capponi, che gli porge un impermeabile da indossare per coprire la divisa da spazzino. Succede tutto in una manciata di secondi. I partigiani giù in strada si disperdono, il battaglione Bozen passa vicino al carretto e una violenta esplosione getta l’intera via nel caos.

Fino al giorno successivo tutto tace, ma alle 22:55 il comando tedesco dirama alla stampa italiana un comunicato.
“Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito in via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti-badogliani. […] Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il comando tedesco, perciò, ha ordinato che, per ogni tedesco ammazzato, dieci comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”.

L’attentato di via Rasella
Dopo l’armistizio di Cassibile, il 12 settembre del 1943, i tedeschi avevano assunto il controllo della capitale ed Herbert Kappler, a capo della Gestapo di Roma, aveva iniziato la sua personale battaglia contro i militanti dei Gruppi di Azione Patriottica, i cosiddetti gappisti.

Dalle alte sfere partigiane giunse l’ordine, la cui paternità non è mai stata chiarita, di organizzare un attentato in via Rasella, dove una colonna del battaglione Bozen era solita passare nel primo pomeriggio.
L’operazione si concretizzò il 23 marzo dell’anno successivo e fu un successo

La deflagrazione della bomba colpì in pieno i soldati e i gappisti sui balconi presero a lanciare delle granate diversive per coprire la fuga dei compagni in strada. I membri del Bozen superstiti risposero sparando in aria, convinti che qualcuno stesse ingaggiando un combattimento dall’alto, ma i responsabili si erano già dati alla macchia. Via Rasella si era trasformata in un piccolo teatro di guerra e, nelle sue memorie, lo Standartenführer delle SS, Eugen Dollmann, scrisse:
Qua e là giacevano disperse membra umane. In ogni dove si erano formate grandi pozze di sangue. Dei feriti agonizzavano, l’aria era piena di gemiti e grida

Iniziarono i rastrellamenti e, fra passanti e residenti, i soldati arrestarono più di 300 persone.
Dieci di loro morirono nelle Fosse Ardeatine

L’ordine di rappresaglia
La prima autorità a giungere sul posto fu il questore Pietro Caruso, seguito dal comandante tedesco della piazza di Roma, il generale Kurt Mälzer. Questi diede in escandescenze: ordinò l’immediata distruzione del quartiere e di ammazzare tutti gli abitanti. Dollmann e Caruso cercarono invano di farlo ragionare, ma fu solo con l’arrivo di Kappler che Mälzer si calmò e rinunciò alla strage.

Il Comando Nazista in Italia informò Hitler degli eventi di via Rasella e il Führer pretese una rappresaglia che, testuali parole, “facesse tremare il mondo”. La sua idea era di fucilare 50 italiani per ogni soldato morto nell’attentato, ma Kappler la ritenne una richiesta eccessiva e si consultò con il generale Eberhard von Mackensen, che suggerì un rapporto dieci a uno e di utilizzare i cosiddetti todeskandidaten, ovvero quei detenuti già condannati a morte, all’ergastolo o colpevoli di reati passibili di pena capitale.

L’ultima parola spettava al comandante tedesco del fronte meridionale, il feldmaresciallo Albert Kesselring, che, in quel momento, era irraggiungibile. In attesa del superiore, Kappler iniziò a stendere una lista provvisoria.

I soldati morti in via Rasella erano 28 ( ai quali andavano aggiunti due civili, il partigiano Antonio Chiaretti e il tredicenne Pietro Zucchetti). Servivano 280 todeskandidaten, ma nelle prigioni di via Tasso e di Regina Coeli erano pochissimi i detenuti che rispondevano ai requisiti, e il capo della Gestapo decise di coinvolgere Caruso, a cui chiese una lista di 50 nomi.

Intorno alle 20:00 Kesselring rientrò a Roma, chiamò Kappler e lo autorizzò a eseguire la rappresaglia entro il giorno successivo, con la proporzione di dieci a uno suggerita da von Mackensen e in un luogo che non destasse sospetti.

La lista tedesca e le difficoltà di Caruso
Gli uffici della Gestapo di Roma vagliarono l’elenco dei prigionieri di tutti i carceri della città e Kappler e il suo aiutante, il capitano Erich Priebke, decisero di includere anche 65 ebrei in attesa di essere deportati.

La ricerca andò avanti per tutta la notte e, alle 5 di mattina del 24 marzo, la lista tedesca era quasi finita, ma si seppe che, durante la notte, erano morti altri 4 soldati in seguito alle ferite riportate in via Rasella.
Gli uomini da fucilare diventavano 320

Sul fronte italiano Caruso stava avendo difficoltà ad assecondare le richieste dei nazisti, e alle 8 si recò all’Hotel Excelsior, dove alloggiava il Ministro dell’Interno della Repubblica di Salò Guido Buffarini Guidi. Il questore sperava in un consiglio su come tirarsi fuori da quell’impiccio, ma Buffarini se ne lavò le mani.
«Che cosa posso fare? Bisogna che tu glieli dia (i 50 todeskandidaten; n.d.r. ) se no chissà cosa succede»

La scelta del luogo e la 33ª vittima tedesca
La caccia agli italiani da uccidere riprese da entrambe le parti, ma Kappler doveva ancora trovare un luogo adatto per le esecuzioni, e il capitano Enrich Köhler suggerì una serie di cave abbandonate in via Ardeatina, nella zona extraurbana di Roma.

Kappler andò a controllare: le fosse ardeatine erano il luogo perfetto per compiere la strage. Tornò in caserma e venne informato che era morto il trentatreesimo soldato.
Anche se non ricevette alcun ordine dai superiori, decise di sua iniziativa di aggiungere altre dieci vittime, che raccattò fra un gruppo di ebrei arrestati poche ore prima. In attesa della lista italiana, che, a detta di Caruso era quasi pronta (cosa non vera), i membri della Gestapo iniziarono a radunare i todeskandidaten e, intorno alle 14, dal carcere di Regina Coeli partì il primo camion diretto alla Fosse Ardeatine.

Le modalità dell’Eccidio
Kappler e i suoi collaboratori avevano stabilito un preciso modus operandi, che per i carnefici prevedeva 67 turni d’esecuzione e per le vittime la suddivisione in gruppi da cinque. Ciascuno di questi gruppi entrava nelle gallerie, Priebke ne controllava i nomi e, man mano che venivano uccisi, li depennava.

I prigionieri si mettevano in ginocchio al lume di una torcia e un soldato gli sparava un colpo alla nuca dall’alto verso il basso. Questa premura, che, in teoria, doveva assicurare una morte indolore, se così la possiamo definire, andò in crisi nel corso della giornata, quando lo stress emotivo iniziò a farsi sentire e alcuni tedeschi sbagliarono la mira, rendendo necessari altri colpi di pistola.

Non tutto andò secondo i piani. Alcuni prigionieri provarono a ribellarsi, qualche soldato si rifiutò di partecipare alle esecuzioni e, nelle battute finali dell’eccidio, i corpi ammassati divennero così tanti che i todeskandidaten di turno si dovettero stendere sopra i cadaveri di chi li aveva preceduti.

La lista italiana
Il massacro ebbe inizio poco dopo le 15, ma, Kappler stava ancora aspettando l’arrivo dei 50 nomi di Caruso e, intorno alle 16, mandò il tenente Heinrich Tunnat a Regina Coeli. La lista del questore, che, all’insaputa dei tedeschi era ancora incompleta, tardava ad arrivare e Tunnat scelse a caso 30 detenuti.
Fra questi 30, 10 dovevano essere rilasciati e solo 20 erano nella lista provvisoria del questore

Quando seppe cos’era successo Caruso incaricò il commissario Raffaele Alianello e il diretto di Regina Coeli, Donato Carretta, di sostituire i nomi delle persone già deportate e consegnare la lista definitiva. Verso alle 19:30, Kappler vide arrivare il camion con gli ultimi 20 todeskandidaten.

Le vittime delle Fosse Ardeatine
La rappresaglia si concluse entro le 8 di sera. I tedeschi ammassarono i cadaveri, sgomberarono l’area e sigillarono le Fosse Ardeatine facendo esplodere gli ingressi. Il numero di vittime totali fu 335.
5 in più rispetto al piano originale

Durante il processo a suo carico, Priebke spiegò che, mentre stava controllando la lista dei prigionieri, si era reso conto del sovrannumero, ma Kappler gli aveva ordinato di procedere con l’uccisione dei 5 uomini in eccesso per evitare che diventassero testimoni oculari dell’evento. Oggi conosciamo quasi tutte le identità di quelle 335 persone. C’erano ebrei, italiani, anziani, minorenni, militari, politici, partigiani, preti, gente arrestata a caso e detenuti comuni.
I todeskandidaten più giovani furono i quindicenni Duilio Cibei e Michele di Veroli; il più anziano, il settantaquattrenne Mosè Di Consiglio

In tarda serata il comando tedesco diramò il comunicato stampa in cui spiegava l’attentato di Via Rasella e l’intenzione di una rappresaglia, ma quel lapidario “Quest’ordine è già stato eseguito” mise i romani di fronte al fatto compiuto. Nessuno aveva chiesto ai gappisti di consegnarsi alle autorità; nessuno sapeva cosa stesse succedendo.
La Gestapo di Roma voleva dimostrare di avere in pugno la città e lo aveva fatto uccidendo 335 persone innocenti

I processi per crimini di guerra
Nel 1948, Herbert Kappler finì sotto processo e il Tribunale Militare di Roma negò la legittimità della rappresaglia per via della selezione indiscriminata dei prigionieri, che con via Rasella non avevano nulla a che fare. L’ex ufficiale nazista si difese sostenendo che si era limitato a eseguire gli ordini e, in effetti, i giudici stabilirono che le 320 vittime delle istruzioni iniziali non erano una sua responsabilità. Ma le altre 15 persone, fuori dal computo dei 10 italiani per ogni tedesco ucciso, Kappler le aveva fatte giustiziare di sua iniziativa.

L’ex comandante della Gestapo di Roma venne condannato all’ergastolo per crimini di guerra e rinchiuso nel carcere di Gaeta. Nel 1976 si ammalò di cancro e ottenne il trasferirono in un ospedale militare, dal quale evase il 15 agosto del 1977, con la complicità della moglie. Si rifugiò in Germania e morì il 9 febbraio del 1978.

Anche gli altri responsabili dell’eccidio finirono alla sbarra, primo fra tutti il questore Pietro Caruso, fucilato alla schiena il 22 settembre del 1944. Nel 1947 un tribunale militare inglese riconobbe Albert Kesselring colpevole di crimini di guerra e lo condannò all’ergastolo.

A Priebke toccò una sorte migliore. Sfruttò la ratline e si nascose in Argentina fino al 1995, quando un giornalista della ABC lo smascherò nel corso di un’intervista. L’Italia ottenne il permesso di estradarlo, lo giudicò per il suo operato ai tempi dell’occupazione nazista e lo condannò all’ergastolo. Si spense l’11 ottobre del 2013, all’età di cento anni.

Oggi le 335 vittime innocenti del massacro riposano in un sacrario presso le Fosse Ardeatine; nello stesso luogo in cui sono diventati protagonisti di una triste pagina di storia, una delle tante che compongono quel mosaico di orrori andato in scena durante la Seconda Guerra Mondiale.