Una città ancora oggi reca le insegne imperiali, l’aquila nera ad ali spiegate su campo d’oro, nello stemma comunale. Non si trova in qualche Land austriaco o tedesco ma in Romagna: si tratta di Forlì. Il Comune medioevale di Forlì rimane fieramente ghibellino, contro la Parte guelfa in ascesa dopo la disfatta degli imperatori svevi ad opera della Francia angioina, rimanendo pressoché l’ultima enclave di resistenza filoimperiale fino alla metà del XIV secolo con la signoria degli Ordelaffi.
Sotto, lo stemma della città di Forlì con l’aquila del Sacro Romano Impero:
Rimanere fermamente antipapali in Italia non è impresa facile nella seconda metà del Duecento. Schierarsi dalla parte dell’ordine universale fondato sulla tradizione giuridica romana (riscoperta da Irnerio, fondatore dello Studio di Bologna), per la perequazione di ogni comunità e realtà locale davanti alla legge, contro lo strapotere delle città-stato più ricche e influenti come Firenze e Bologna, diventa sempre più arduo. Gli imperatori, dato che l’affare italiano si è ormai rivelato fallimentare, rimangono sempre più spesso al nord, oltre le Alpi, lontani dai loro sostenitori in Italia, i quali devono accontentarsi di qualche diploma e di un mero sostegno morale e formale, senza il men che minimo aiuto logistico e militare, rimanendo soli a contrastare l’accerchiamento guelfo sempre più stringente.
Il papa Niccolò III, che era riuscito con una prudente azione politica ad abbassare la tensione tra le fazioni, muore nel 1280. Sale al soglio pontificio col nome di Martino IV il cardinale francese Simon de Brion, sostenuto dal re Carlo I d’Angiò (in questa sinergia tra Francia e Vaticano si riconosce a livello embrionale quello che sarà la cattività avignonese), il quale mostra sin da subito il proposito di farla finita, una volta per tutte, col problema del ghibellinismo romagnolo. Quattro anni prima il futuro imperatore Rodolfo d’Asburgo aveva inviato il proprio cancelliere in Romagna ad accogliere il giuramento di fedeltà dei rappresentanti delle città di Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Cervia, Bertinoro e Meldola, nonché dei potenti feudatari dell’Appennino, i Guidi, gli Ubaldini e i Montefeltro. Ma nel 1278, in occasione della sua solenne incoronazione da parte del papa, Rodolfo aveva dovuto rinunciare a tale giuramento e riconoscere la sovranità pontificia sulla Romagna.
Sotto, Papa Martino IV:
Il pontefice ha ormai sessant’anni ed è un vizioso, soprattutto per peccato di gola: è ghiotto di anguille del lago di Bolsena e ama gustarle marinate nella vernaccia. Crea scandalo la sua smodata voracità di un pesce con la forma di serpente, simbolo del Maligno. Sembra di vederlo, nella sua residenza di Montefiascone, mentre banchetta attorniato da prelati e servitori e, tra una portata e l’altra, firmare lettere indirizzate alla corte di Francia con cui sollecita l’intervento armato in Romagna.
Carlo d’Angiò invia l’esercito francese condotto dal cavaliere Jean d’Eppes, cadetto di nobile casata che aveva partecipato alle crociate al seguito di Luigi IX il Santo per spirito di avventura e arrivismo e, tornato in patria, era riuscito ad ottenere il tanto agognato feudo personale servendo la Corona. Ora si ritrova alla testa delle truppe francesi e ottiene dal papa il titolo di Rettore di Romagna in temporalibus e di Comandante generale dell’esercito pontificio. Contro Forlì e le altre città ghibelline, si presentano sotto le sue insegne l’esercito del Comune di Bologna e gli armati delle consorterie guelfe alleate.
Inizia così una “guerra sporca”, a bassa intensità ma durissima, fatta di scorrerie, violenze, incendi e devastazioni nelle campagne, imboscate e stragi, con chiaro intento intimidatorio nell’ottica di un disegno di terrorismo psicologico. L’esercito franco-pontificio per tutto il 1281 sino ai primi mesi del 1282 mette in opera una manovra a tenaglia volta a isolare i territori forlivesi, mentre Martino IV invia messi a tutte le città e le banche intimando di non commerciare con Forlì e i comuni ribelli, né concedere alcun credito e congelare tutto il denaro ad essi riferibile, a qualsiasi titolo:
E’ n embargo durissimo, come quello imposto dagli Stati Uniti alla Cuba castrista
Alcune città alleate cedono alla pressione e cambiano bandiera, mentre Faenza è nel frattempo caduta e saccheggiata dai bolognesi a causa del tradimento di Tebaldello Zambrasi.
Forlì invece resiste a oltranza e chiama ad organizzare la difesa Guido da Montefeltro, grande soldato e stratega ghibellino, cui le magistrature cittadine concedono un feudo montano, investendolo del titolo di Conte di Gaggiolo. Al suo fianco Maghinardo Pagani da Susinana, l’ambiguo e spregiudicato signore della Valle del Senio, ghibellino di ferro in Romagna e strenuo difensore della guelfa Firenze in Toscana, città alla cui tutela era stato affidato dal padre in gioventù. Infine, come il mago Gandalf al Fosso di Elm nella mitologia tolkieniana, a capo della resistenza troviamo il forlivese Guido Bonatti, uno degli astrologi e astronomi più importanti del suo tempo, già consigliere dell’Imperatore Federico II. Bonatti ha il suo studio sul campanile della Chiesa di San Mercuriale, dal quale scruta il cielo, annotando le sue scoperte sui propri trattati e rappresentando la volta celeste nel magnifico stellario realizzato sul soffitto dello studio. Sembra che l’anziano studioso abbia il dono della chiaroveggenza, tanto è abile e preciso a formulare previsioni su eventi futuri che spesso si sono rivelate giuste.
Pompeo Randi, Guido da Montefeltro riceve dal Consiglio degli anziani di Forlì l’ordine di combattere contro l’esercito di papa Martino IV (1870), affresco nella sala del Consiglio dell’ex palazzo della Provincia di Forlì:
30 aprile 1282. Marte è entrato in capricorno, segno astrologico della città di Forlì: la situazione astrologica è propizia. Jean d’Eppes ha avuto l’ordine di attacco diretto della città. Con tutto l’esercito si muove sulla direttrice della Via Emilia e pone il campo in località Villanova, a nord-ovest, preparandosi all’assedio. La notte i guelfi provocano i ghibellini assediati saccheggiando e distruggendo i borghi appena fuori dalle mura. Dagli spalti i forlivesi assistono al tremendo spettacolo di un inferno fatto di urla, violenze, incendi nell’oscurità e civili inermi trucidati senza pietà. Le lacrime scendono dagli occhi, i pugni stretti per scaricare la rabbia e l’odio per le atrocità perpetrate dal nemico, ma nessuno reagisce alle provocazioni. Il comandante Guido da Montefeltro, d’accordo col consiglio degli anziani, Maghinardo Pagani e Guido Bonatti, ha un piano per ribaltare le sorti del conflitto. Simulando un atteggiamento difensivo, in realtà si operano manovre per indurre il nemico a sottovalutare la forza e la disposizione sul campo degli avversari per poi contrattaccare per coglierlo di sorpresa.
1 maggio 1282. L’esercito ghibellino, formato da ogni uomo in grado di portare le armi, tenta la sortita uscendo dalla porta detta della Rotta, sul lato meridionale delle mura e schierandosi in formazione davanti al fossato attendendo lo scontro in campo aperto col nemico, che avviene all’ora nona. La carica dei guelfi è talmente forte da scompaginare in un primo tempo i forlivesi e da permettere alla cavalleria di irrompere impetuosamente in città attraverso la stessa porta della Rotta, lasciata aperta. Tuttavia Guido da Montefeltro riesce a ricompattare i suoi uomini, stringere i ranghi, e contrattaccare così furiosamente da riuscire, dopo ore di asprissimo combattimento, a far arretrare gli assedianti sino alle retrovie sulla Via Emilia.
Nel frattempo giunge notizia che la cavalleria francese e guelfa in città si è disgregata e che sta cavalcando per le vie in piccoli drappelli accecati dalla foga di bottino e dal proposito di inseguire e uccidere i nemici credendoli già sopraffatti. Dal campanile di San Mercuriale, Guido Bonatti fa suonare le campane a martello. Ben presto i cavalieri di Jean d’Eppes si rendono conto di essersi messi in trappola da soli in un dedalo di vie intricatissimo, che non conoscono, teatro perfetto per un imboscata.
Abbazia di San Mercuriale di Forlì:
Guido da Montefeltro, quasi giunto alle retrovie nemiche, ordina di interrompere l’inseguimento e di invertire la marcia per tornare, a briglia sciolta, a Forlì. Ecco che gli assedianti rimangono intrappolati in una morsa mortale, accerchiati in un calderone delle streghe, l’Exenkessel, come il generale tedesco Paulus a Stalingrado nel 1943. Le forze francesi vengono schiacciate dalla cavalleria del Montefeltro ritornata in città di gran carriera e dagli altri armati rimasti all’interno delle mura.
I cavalieri guelfi, disorientati, diventano prede facilissime di un massacro spaventoso. Il Conte di Gaggiolo, alla testa della cavalcata, a forza di menar fendenti e far saltare teste e arti ha la veste d’arme ormai completamente zuppa di sangue. Tutti intorno ci sono cadaveri e cavalli morti:
Al netto dei prigionieri 8000 cavalieri francesi rimangono sul campo
La battaglia di Calendimaggio:
I corvi iniziano ad avventarsi su quel tetro banchetto di carne, beccando qualche occhio qua e là. Per scongiurare l’insorgere di pestilenze viene scavata una grande fossa comune nel Campo dell’abate davanti al sagrato di San Mercuriale, dove i forlivesi gettano i cavalieri francesi massacrati, subito coperti da una coltre di calce viva. A memoria del fatto viene eretta un’edicola votiva che sarà poi rimossa in età moderna. La battaglia di Forlì è un fatto tanto celebre da essere citato da Dante Alighieri nella Commedia per descrivere Forlì (Inferno, canto XXVII, 43 – 45):
La terra che fè già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.