1.000 Gru-Origami per Sadako: la vana speranza di una vittima della Bomba di Hiroshima

La contabilità dei morti nelle guerre e negli altri eventi storici violenti è una materia che si presta facilmente a esagerazioni e strumentalizzazioni. Benché sia necessaria per stabilire l’esatta portata di quanto è accaduto di volta in volta, ha poi anche la sgradevole conseguenza di infliggere ai morti la peggiore violenza che essi possono subire una volta che non ci sono più:

Quella di far dimenticare del tutto la loro identità personale da vivi, confusa nel calderone dei grandi numeri

Non è un caso che i maggiori testimoni delle grandi stragi si siano impegnati soprattutto a testimoniare l’esistenza di quelli che non potevano più farsi sentire. Ad esempio, i sopravvissuti alla Shoah. Primo Levi, in “La tregua”, arriva a ricordare perfino la figura di un bambino di origine incerta, paralizzato e con difficoltà di parola, Hurbinek, che trascorse tutta la sua breve vita (circa 3 anni) ad Auschwitz: vi nacque dopo la deportazione di sua madre incinta, non uscì mai dal perimetro del campo e vi morì, nel marzo del 1945. Grazie a Levi, Hurbinek, che non poté letteralmente vivere, esiste ancora: perché, come è scritto nel Talmud, “nessuno muore completamente finché c’è qualcuno a ricordarlo”.

Fonte immagine: Sputnik Images – Foto # 2349929

Da un altro punto di vista, questa spersonalizzazione dei morti diventa un monito per chi crede di poter essere favorevole alla violenza perché, tanto, nella sua posizione, questa non lo toccherà mai. I morti senza nome non sono solo dei nostri simili ma delle versioni di noi stessi che ci hanno preceduti su questa Terra, anche se fingiamo di ignorarlo. Per spiegarcelo, Steven Spielberg, nel suo “Schindler’s List”, gira tutto il film in bianco e nero, con una sola macchia di colore, un dettaglio che suona inspiegabile a quasi tutti gli spettatori: la bambina con il cappotto rosso che appare sullo sfondo in alcune scene e, infine, viene avviata al forno crematorio in mezzo a una catasta di cadaveri.

Perché proprio quella bambina?

Perché, se non fosse l’unica a essere colorata, nemmeno ci accorgeremmo di lei. E chi è quella bambina? Quella bambina siamo noi, è ognuno di noi se ci fossimo trovati lì in quel momento.

Il fatto che al centro della vicenda ci siano l’eroico Oskar Schindler e il malvagio Amon Goeth non significa che possiamo identificarci in loro. Questi personaggi rappresentano delle eccezioni, la regola sono quelli che restano sullo sfondo. Dunque, quando andiamo a leggere i meri dati numerici sui morti della Storia, dobbiamo sempre pensare a essi come a una sorta di abisso sul quale possiamo sporgerci e guardare fino in fondo. E dentro questo abisso ci sono tante persone come noi, come i nostri cari e quelli che ci circondano: e tutti, disperatamente, ci tendono le braccia e ci gridando di non ripetere gli orrori di cui sono stati vittime. Ma basta un demagogo dalla parlantina sciolta e dalla facile prosopopea per farci dimenticare il loro monito.

Nelle guerre, la gran parte dei morti è innocente, perché la guerra non l’ha mai voluta ed è stato spedito a farla con la coercizione, contro la propria volontà. Nemmeno la tenace opera della censura militare è mai riuscita a silenziare le voci di chi, mandato al fronte in nome di un patriottismo di facciata che nasconde sempre lerci interessi economici, è morto sapendo di buttare via la propria vita solo per arricchire dei profittatori. Ma ci sono morti ancora più innocenti e questi sono i civili, in particolare i bambini, sempre più coinvolti nelle guerre del XX secolo in base alla dottrina (elaborata dall’italiano Giulio Douhet negli anni ’30 ma subito ripresa da tutti i vertici militari del mondo) che le guerre si vincono innanzitutto fiaccando la resistenza della popolazione civile attraverso veri e propri atti di terrorismo, tra i quali i più efficaci sono sicuramente i bombardamenti aerei.

Sebbene i più pesanti bombardamenti aerei siano stati inflitti dagli Alleati a Germania (Amburgo, Dresda) e Giappone (Tokio, Hiroshima, Nagasaki) tra il 1943 e il 1945, occorre sempre ricordare che i primi a testarne l’efficacia furono proprio i nazisti (già durante la guerra civile spagnola) e i giapponesi stessi. Quindi usare questo argomento per corroborare discutibili affermazioni di complottismo storico (tipo “Erano tutti criminali… quindi dopotutto i nazisti non erano peggio degli altri”) è vergognosamente ipocrita.

Il conteggio delle vittime dei bombardamenti sui civili è particolarmente spaventoso, perché in molti casi le cifre sono rese dubbie non solo dalla sciatteria con cui vengono sparate a caso senza verifica ma anche dalla particolare situazione in cui si trovavano quasi tutte le città bersaglio, fino ad allora risparmiate e quindi affollate, oltre che dalla loro normale popolazione, anche dai profughi provenienti da altre aree già bombardate, il cui numero non è mai facilmente calcolabile. Nel caso delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, poi, si aggiunge l’ulteriore elemento delle morti successive.

Il plastico della città di Hiroshima con i danni causati dall’esplosione atomica (sfera rossa):

Tutti gli eventi violenti della Storia non esauriscono il loro potenziale di morte in tempi brevi, ma hanno sempre delle sequele più o meno lunghe di agonie di feriti e mutilati, di carestie e carenze che portano a un aumento della mortalità (specie tra bambini, anziani e malati) per infezioni e mancanza di nutrimento, acqua potabile, farmaci, disinfettanti e quant’altro può essere necessario alla sopravvivenza, e anche di violenze criminali dovute alle psicosi di guerra che residuano spesso soprattutto tra gli ex militari. I casi delle due bombe atomiche aggiunsero a tutto questo anche gli effetti delle radiazioni sprigionate durante le esplosioni, che manifestarono il loro effetto letale nel corso di molti anni, a seconda della distanza cui si trovavano le vittime dal luogo dell’esplosione.

Il numero di persone decedute tra questi abitanti nel corso degli anni per effetto di questo veleno subdolo e invisibile è sempre difficile da stimare. Si sa soltanto che sono tante. Sono talmente tante che anche loro si confondono nei grandi numeri. E anche questo è offensivo per la loro memoria.

Le ombre di Hiroshima:

Tuttavia, in qualche caso, delle storie che in qualche modo appaiono eccezionali permettono di ricordare con chiarezza qualche identità che sembra distinguersi dalle altre. E queste storie vanno raccontate e tenute sempre vive, perché rappresentano un po’ la storia di tutti quei morti, come la bambina dal cappotto rosso di “Schindler’s List”.

La Storia di Sadako Sasaki

C’è un’altra bambina. Viva a Hiroshima, dove è nata il 7 gennaio 1943. Il padre, che da civile faceva il barbiere, è sotto le armi. La madre lavora in una fabbrica ma, alle 8,15 del 6 agosto 1945, non è ancora uscita di casa. La bambina ha un fratello maggiore di 10 anni, Masahiro; insieme alla famiglia, vive anche la nonna, che si occupa dei bambini mentre la mamma è al lavoro.

La bambina si chiama Sadako Sasaki e, quando scoppia la bomba atomica, a circa 1600 metri da casa sua, sta ancora dormendo. A quella distanza, i tre principali effetti della bomba (onda d’urto, radiazione termica, radiazione ionizzante) sono in grado ancora di uccidere tra il 50% e il 90% delle persone esposte, a seconda di quanto sono esposte (fino a 400 metri di distanza, non si è salvato nessuno). Sadako sembrerebbe relativamente fortunata, perché sta dentro la sua casa, ma l’onda d’urto la proietta fuori della finestra, in cortile, dove la madre la ritrova miracolosamente illesa. La casa sta prendendo fuoco: la nonna si precipita all’interno per recuperare il possibile, ma la casa le crolla addosso. Sconvolta, la madre di Sasako, con la bambina in braccio, cerca di andare verso il fiume per allontanarsi dagli incendi. Durante il tragitto, però, entrambe sono investite dal fall-out, che ricade a terra in forma di “pioggia nera”. Più tardi, ritrovano Masahiro, che era fuori casa al momento dell’esplosione.

Sembra che, a questo punto, le loro peripezie siano finite. La tragedia ha duramente colpito la famiglia Sasaki, ma sono sopravvissuti

Ora facciamo un lungo salto temporale in avanti. Siamo nel novembre del 1954. Il Giappone ha ripreso a vivere e cerca di lasciarsi alle spalle i ricordi della guerra. Il padre di Sadako è tornato vivo dalla guerra e questo fa ben sperare per il futuro. Sadako è una ragazzina vivace e appassionata di sport, soprattutto di ciclismo, una passione che le ha trasmesso Masahiro. Partecipa, con una squadra di compagni di scuola, a una gara commemorativa in onore dei morti dei bombardamenti, una staffetta di squadre ciclistiche studentesche che coprono, a tappe, la distanza tra Tokio e Hiroshima. A lei tocca l’ultima tappa e, anche se la sua squadra non vince, la sua eccellente prestazione permette di recuperare molte posizioni nella classifica finale.

Dopo di questa gara, però, è costretta a mettersi a letto con la febbre. Inizialmente, sembra che siano solo le conseguenze dello sforzo atletico, ma la febbre non se ne va. Compaiono gonfiori sul collo e dietro le orecchie. Più tardi, anche delle macchie rosse sulle gambe. Viene sottoposta a esami medici e la diagnosi è terribile:

Leucemia linfoblastica acuta

Ciò che noi chiamiamo genericamente “leucemia” è, in realtà, un insieme di diverse malattie di natura tumorale che hanno in comune la localizzazione, ossia il midollo ematopoietico (significa: produttore delle cellule del sangue) delle ossa. Questo midollo, detto anche midollo rosso, dà origine a due linee di cellule, quella mieloide (globuli rossi e quasi tutti i globuli bianchi tranne i linfociti; e poi le piastrine, che non sono cellule ma hanno un’origine simile) e quella linfoide (che comprende i linfociti). A seconda della linea colpita, la leucemia può essere mieloide (più grave) o linfoide.

A seconda della sua aggressività, può essere acuta (molto aggressiva) o cronica. Al tempo della diagnosi di Sadako, di fatto, non esistono cure per affrontare questa malattia, ma solo terapie sintomatiche. La sopravvivenza nelle forme linfoidi croniche può superare i 10 anni, ma richiede periodiche trasfusioni di sangue. Nelle forme mieloidi acute, spesso, ammonta addirittura a pochi giorni. Quella di Sadako appartiene al gruppo delle linfoidi, ma è acuta. I medici avvertono i suoi genitori che la ragazzina sarà fortunata se arriverà a vivere ancora 12 mesi.

La malattia è sicuramente dovuta all’esposizione alle radiazioni ionizzanti. In Giappone, prima delle bombe atomiche, era piuttosto rara. Il midollo osseo è uno dei tessuti del corpo umano più sensibile all’esposizione alle radiazioni, tanto più nei bambini. Nel corso del tempo, purtroppo, si avranno moltissime prove della connessione tra il nucleare (anche quello civile) e l’aumento delle leucemie in chi è esposto a esso.

La leucemia è una malattia non solo mortale, ma anche dolorosa e invalidante. Ha tutti i sintomi delle anemie (dalla debolezza ai dolori), più la facilità a contrarre infezioni, visto che i globuli bianchi malati sono inutili dal punto di vista immunitario, più le frequenti emorragie sia interne sia esterne per la scarsità di piastrine, più altre sofferenze che possono essere dovute all’accumulo dei globuli bianchi malati nell’interno delle ossa che li producono o in altri organi in cui li trasporta il sangue. I mesi che restano da vivere a Sadako saranno un calvario.

Sadako Sasaki:

Dal febbraio del 1955, ormai ricoverata stabilmente in ospedale, Sadako riceve delle trasfusioni di sangue, che alleviano un po’ la sua condizione. Ma i loro effetti sono sempre minori man mano che passa il tempo. Sadako soffre anche a stare confinata nella sua stanza d’ospedale, senza poter fare nulla. Ogni tanto riceve qualche visita. La sua migliore amica, Chizuko Hamamoto, le porta una gru fatta di carta con la tecnica dell’origami. Vedendola, il padre di Sadako, Shigeo, si ricorda di un’antica leggenda giapponese, riportata per la prima volta in nel libro “Piegatura delle mille gru”, scritto da Sembazuru Orikata, studioso dell’origami, nel 1797.

Secondo questa leggenda, chiunque riuscirà a piegare 1.000 gru di carta con la tecnica dell’origami, potrà vedere esaudito il suo più importante desiderio

Fa tenerezza e strazia il cuore al tempo stesso, il pensiero di una bambina che si aggrappa a una leggenda per provare a tenersi stretta la vita che un destino crudele le sta portando via senza pietà. Un ragazzo anonimo, figlio di uno dei tanti uomini deceduti dopo una lunga lotta con un cancro, ha detto, una volta, una frase che tutti dovremmo tenere a mente in certi casi: “Avremmo provato anche la magia nera, se ci fosse stata la minima ragione di credere che potesse essere utile”. Da quel momento, Sadako comincia a realizzare gru di carta con qualunque cosa le capiti a portata di mano, compresa la carta dei giornali e le confezioni di cartone dei farmaci. Coinvolge nell’attività anche la sua compagna di stanza, affetta dalla stessa malattia, una quattordicenne di nome Kiyo. Ma Kiyo, che è più grave di lei, muore dopo averne realizzate poco più di 300.

Quante gru di carta ha realizzato Sadako? Non si sa con esattezza, perché esistono diverse versioni. La sua storia è stata raccontata diverse volte in diverse forme, ma le più note sono due libri per ragazzi. Il primo è “Il grande sole di Hiroscima” dell’austriaco Karl Bruckner (1906-82), uscito nel 1961, e il secondo è “Sadako and the thousand paper cranes” della canadese Eleanor Coerr (1922-2010), uscito nel 1977. Il libro di Bruckner, uno scrittore sempre molto impegnato nel pacifismo, è da tempo un classico della letteratura per ragazzi, ma contiene alcune evidenti imprecisioni, dato che l’autore lo scrisse avendo a disposizione poche fonti e poche testimonianze, tutte tra l’altro anche un po’ confuse, per cui fu spesso costretto a romanzare i fatti.

Sadako e il padre:

Ad esempio, la nascita di Sadako viene retrodatata al 1941 e la sua amica Kiyo diventa un bambino, Shigemoto. Bruckner riporta il numero di 989 o 990 riguardo le gru di carta completate da Sadako. La Coerr, che scrisse diversi anni dopo e con più fonti a disposizione, sostiene che Sadako ne completò 644, mentre le rimanenti 356 furono realizzate dai suoi amici per essere seppellite insieme a lei. Ma in un libro del 2018, “The complete story of Sadako Sasaki”, illustrato dall’artista Sue DiCicco e destinato a una rete internazionale di studenti pacifisti chiamata Peace Crane Project, il fratello di Sadako, Masahiro, ha precisato che Sadako completò le sue 1000 gru già nell’agosto del 1955 e, prima di morire, era arrivata a oltre 1340.

Sadako compone anche un haiku (un breve componimento poetico tipico della cultura giapponese, costituito tra tre versi ritmati in modo particolare) che recita:

Scriverò Pace sulle tue ali

Intorno al mondo volerai

Perché i bambini non muoiano più così

Quale che sia il numero delle gru realizzate, il desiderio di Sadako non è destinato ad avverarsi. Le sue condizioni peggiorano e, mentre i medici stanno pensando di amputarle la gamba sinistra che rischia di andare in cancrena, la mattina del 25 ottobre 1955, dopo aver ringraziato la mamma per il té al riso che questa le ha somministrato per colazione, Sadako sprofonda nel coma e si spegne rapidamente.

Non si sa se i genitori ne siano stati messi al corrente ma, appena deceduta, Sadako subisce un’autopsia da parte dei medici della Atomic Bomb Casualty Commission, un organismo di ricerca americano che compie studi sugli effetti delle radiazioni sull’organismo umano. La ABCC ha tenuto sotto controllo Sadako dal momento del suo ricovero, come in tutti gli altri casi sospetti di “malattia da radiazioni”.

Gli amici e i compagni di scuola di Sadako scrivono un libro su di lei e i diritti d’autore serviranno a dedicarle un piccolo monumento nel parco che la città di Hiroshima sta realizzando per commemorare i morti della bomba atomica. L’Hiroshima Peace Memorial, progettato dagli artisti Kazuo Kikuchi e Kiyoshi Ikebe, viene inaugurato il 5 maggio 1958, data scelta perché in Giappone coincide con la “festa dei bambini”. Al centro, c’è un monumento che rappresenta la bomba, sulla cima della quale c’è raffigurata Sadako che leva le braccia al cielo come se stesse per volare via.

Sotto, una delle Gru di Sadako spedita dalla famiglia a Pearl Harbour:

Fonte immagine: Battleship Missouri Memorial

Intorno alla bomba, ci sono delle figure simili a piccoli angeli: rappresentano gli altri bambini che morirono per effetto della bomba, come Yoko Moriwaki, la “Anna Frank giapponese”, nata nel 1932 e scomparsa nell’inferno dell’esplosione atomica, dopo aver tenuto un preciso diario del periodo tra il 6 aprile e il 5 agosto 1945. Ritrovato fortunosamente dal fratello di Yoko, questo diario è stato pubblicato in Giappone nel 1996 e tradotto in Inglese nel 2013.

Alla base della bomba, c’è un’altra installazione, donata dal fisico Hideki Yukawa (1907-81), premio Nobel 1949 e appassionato pacifista: comprende una gru di bronzo che viene spostata dal vento risuonando come un carillon quando batte contro la campana della pace cui è sospesa. Davanti a questa installazione, c’è una lastra di marmo nero su cui è scritto: Questo è il nostro grido, questa è la nostra preghiera, per costruire la pace nel mondo.

I visitatori, soprattutto scolaresche, lasciano gru di carta e messaggi in una grande urna davanti al monumento.

Sadako è ricordata anche nel Peace Park di Seattle, nello Stato di Washington, USA, progettato da Floyd Schmoe e inaugurato il 6 agosto 1990, nel 45° anniversario della bomba. A raffigurarla è la statua di bronzo di una bambina sorridente che tende la mano con una piccola gru come a volerla liberare nel cielo, opera di Daryl Smith. Per ragioni mai chiarite, ma senza dubbio abominevoli, questa statua è stata danneggiata da vandali mai identificati, non una volta, ma addirittura due, nel 2003 e nel 2012. La direzione del parco, in entrambe le occasioni, l’ha fatta restaurare e poi rimettere al suo posto.


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